Nel mese di marzo della quinta elementare iniziamo la nostra ultima avventura teatrale (riferimento
all’ultima esperienza teatrale vissuta dall’autore con le ragazze e ragazzi
della scuola elementare di Giove, Terni, nel suo ultimo anno di
insegnamento, ndr). Cominciamo a salire sempre più
frequentemente nel sottotetto
della scuola conquistato dopo anni e io preparo una scena che dà
l’avvio al nostro viaggio di avvicinamento a Lisistrata di Aristofane, che ho
deciso di proporre a ragazze e ragazzi trascrivendone alcuni frammenti.
Iniziamo così le prime prove e improvvisazioni.
C’è Lisistrata che aspetta ansiosa l’arrivo di
altre donne, a cui vuol proporre l’occupazione del tempio di Atena per dare
avvio a una rivolta contro la guerra. Un giorno Dalila, che in casa è
abituata ad aiutare sua madre e a badare al fratellino, ci propone un
convincente lamento verso le
fatiche della vita domestica, facendo sue queste parole: Per noi donne è
difficile uscire di casa: una deve stare attenta al marito, una mettere a letto
il bambino, una lavarlo, una imboccarlo… Le altre ragazze si divertono ad
ascoltarla lamentarsi e suggeriscono diversi modi in cui dire stare attenta al
marito levando gli occhi al cielo, producendo così un divertente effetto
comico, rubato certamente alle loro memorie domestiche. Ma ecco che incontriamo
subito la seconda provocazione di Aristofane. Entra infatti in scena Lampito,
fiorente donna spartana che, nelle parole di Alessia, è così forte che
strozzerebbe un toro. Seriana, che ha assunto le vesti di Lampito, non si
presenta agli occhi delle ateniesi come spartana, dunque nemica, ma come donna
curiosa di altre donne in rivolta, che porta ad Atene la solidarietà delle
donne della sua città, anch’esse stanche di guerra.
Proviamo e riproviamo queste prime scene e, ogni
volta che sento la ragazze pronunciare le parole di Aristofane mi stupisco
della visionaria lungimiranza del nostro amico ateniese, che contrappone la
solidarietà tra donne all’ottusa smania dei maschi di fare la guerra per
allargarne i confini della loro città.
Emilia ora lamenta: Ognuna di noi soffre perché il suo uomo è lontano. E
tutte le ragazze ripetono in coro le sue parole per dare ritmo all’azione.
Seriana offre nuovi particolari del suo sconforto, dicendo: È vero, mio marito
torna dal fronte, ma poi ecco che imbraccia lo scudo e se ne riparte di nuovo
al volo. Nasce una discussione tra le donne su come costringere i mariti a
farla finita con la guerra e le
ragazze decidono finalmente di occupare il tempio di Atena, salendo in piedi su
due banchi che cominciamo a usare per dare movimento allo spazio
scenico.
L’arrivo dei maschi ateniesi minacciosi ha naturalmente acceso la fantasia
dei bambini, che sperimentano tutti i modi possibili per mostrare la loro
aggressività contro le compagne. Le bambine non sono da meno e, dunque, per un
bel po’ di giorni il gioco della sfida tra i sessi si impossessa di tutti.
All’Acropoli, all’Acropoli!, gridano le bambine per farsi forza e convincersi
di osare l’impossibile, mentre i maschi si schierano alla destra del palco,
agguerriti più che mai. Lanciano minacce terribili, si preoccupa Dalila. Dicono
che ci vogliono arrostire, aggiunge Nisrin. Ma Emilia le rincuora e insieme le
sprona, affermando con decisione: Noi
dobbiamo salvare la Grecia e tutti i cittadini dalla guerra e dalla follia.
Nel ritmo crescente delle due schiere che si fronteggiano, i maschi battono
forte tra loro pezzi di manico di piccone inneggiando al fuoco, mentre le
ragazze si trasformano in acqua per contrastare l’incendio. In modo guerresco i maschi ora avanzano verso
le loro compagne, ma vengono respinti capriolando e rotolando rovinosamente al
suolo, con evidente effetto comico. Segue un ritmo di bastoni suonato
con vigore. Ci viene facile
mettere in scena scaramucce, provocazioni verbali e piccole minacce di
rissa perché bambine e bambini hanno un ricco vissuto da cui pescare.
Discutiamo a lungo invece su come rendere teatralmente, dunque fisicamente, la
scelta di rompere con la guerra da parte delle donne di Atene, che invece è
proposta inusitata e sottile, lontana da ogni loro esperienza. A entrarci ci aiuta
il nostro compagno di viaggio Aristofane, che porta tra noi l’espressione
Lisimaca, che è parola chiave di tutta la commedia. Noi ci chiameremo
Lisìmache, cantano le ragazze. Lisìmache? Lisìmache? Lisima che?, chiedono i
ragazzi senza capire. Noi siamo
dissolvitrici di battaglie. Noi sciogliamo i nodi che voi create!, rispondono
in coro le ragazze.
A questo punto, su suggerimento di Nicla, rotola in scena una grande palla
avvolta di strisce di stoffa, che dà l’avvio a una piccola danza in cui le
bambine, accompagnate da una musica di Aubry, giocano a infilarsi una negli
spazi dell’altra, come a comporre una tessitura. Mescolando le metafore di
Aristofane con immagini sorte durante le nostre discussioni e
improvvisazioni, Emilia dice: Come
la lana, quando è tutta arruffata, noi la dobbiamo cardare, pettinare… Poi
pettinare la concordia generale mescolando un po’ tutti: noi ateniesi, i
contadini di fuori, i meteci, gli stranieri, anche i nemici di Sparta, propone
con convinzione Maia che, interpretando Lisistrata, dà spessore
alla proposta, evocando il prendersi cura delle relazioni più difficili,
proprio come lei fa in classe tutti i giorni, spontaneamente. Dobbiamo mescolarci tutti insieme!, conclude
Aurora, con la sua voce tremula e titubante, mettendo anche lei nella
battuta un desiderio che le appartiene profondamente.
Durante le prove ci sono botte e risposte che
continuamente aggiungiamo o togliamo, alla ricerca di un ritmo che sia
incalzante. Ecco allora che arriva Tommaso che grida allarmato: Guardate, tra loro
c’è anche una donna spartana. Alessandro denuncia: Si stanno mettendo
d’accordo, mentre David aggiunge infuriato: Vogliono riconciliarci con gli
odiosi spartani. Tutti gli uomini vengono ora avanti nel proscenio scandendo in
coro: Traditrici della patria, traditrici della patria! Il nostro motto è uno solo: prima gli
ateniesi e morte ai barbari! Lorenzo scopre che anche noi siamo
barbari per loro.
Compagni di viaggio
A questo punto dello spettacolo, durante le prove, un giorno ci accorgiamo
che nel nostro teatro non può
mancare un altro compagno di viaggio che ci ha offerto tanti motivi di
riflessione e discussione: Erodoto. Così tra le donne arroccate
sull’acropoli occupata e gli uomini che le assediano, compare improvvisamente
lo storico che abitava ad Atene in quegli anni, incarnato da Lorenzo, che è il
più politico dei ragazzi ed è stato persino eletto vicesindaco nel consiglio
comunale dei ragazzi. Da che parte
stai in questa guerra? domanda Peter. Ed Erodoto con la voce di
Lorenzo, risponde: Da nessuna
parte. Io ascolto, racconto… In guerra non si può stare da nessuna parte, ribatte Manuel. E
Lorenzo ribatte: E perché? Mio
padre era persiano, mia madre greca… E allora?, domanda Mario.
Allora ho imparato che ci sono
sempre due punti di vista, spiega pacatamente il nostro Erodoto. Che al
mondo non ci sono greci e barbari perché i persiani sono barbari per noi, ma anche noi siamo barbari per loro.
Io ascolto, racconto, scrivo storie… e c’è una domanda che mi faccio da sempre:
perché gli uomini amano fare la guerra?
La scena prosegue con le donne arroccate in alto e gli uomini che le
circondano furiosi e increduli, ma non sappiamo come andare avanti.
Trascorriamo alcuni giorni nell’incertezza. Decidiamo poi di tornare indietro e di mettere all’inizio, come prima
scena, una battaglia vera tra maschi e femmine che vogliamo fare
scatenando un rumore infernale, ottenuto battendo posate e pentole, trasformando così oggetti casalinghi e
quotidiani in strumenti a percussione e armi. Proviamo a rendere teatrale la
discussione che facemmo in classe il primo giorno di scuola, su come si
reagisce a chi provoca e fa il bullo e, alla domanda di Emilia, Ma perché vi
piace così tanto giocare alla guerra? Michele risponde: Perché è più divertente
della pace.
Con la pace stai a letto, dormi, ti annoi. Con la guerra ti muovi, ammazzi
con la pistola, si corre… aggiunge Peter. E Cristian concorda: Fare la guerra è
più divertente, più bello. Da questo frammento di discussione traiamo il titolo
per lo spettacolo, che sarà “Ma
giocare alla guerra è più divertente”. Sono io questa volta che lo
propongo per non cadere in una facile e superficiale retorica pacifista, colma di frasi che
i bambini troppe volte sono chiamati a ripetere senza convinzione.
La rivolta nonviolenta delle donne
liberiane
La questione dell’impulso a litigare e a farsi la guerra anche nei gesti
più semplici e quotidiani e, di converso, la difficoltà a costruire la pace e
una convivenza aperta e costruttiva, occupano molti miei pensieri. Con bambine
e bambini ne discutiamo continuamente, riprendendo i numerosi dialoghi fatti da
quando abbiamo incontrato Gandhi.
Ma dal punto di vista teatrale non so come uscirne. Nello scervellarmi su come
andare avanti mi torna alla mente di aver letto, qualche anno fa, che ci fu un
paese dell’Africa in cui le donne presero sul serio la storia di Lisistrata
azzardando uno sciopero del sesso di cui non ricordavo l’esito. Cerco nelle
magiche pagine di wikipedia notizie in proposito e scopro, insieme ai bambini,
che davvero nel 2002, in Liberia,
una donna di nome Leymah Gbowee organizzò un’opposizione nonviolenta alla
guerra, provando a organizzare e a propagandare dalla radio uno sciopero del
sesso per coinvolgere più donne possibile e costringere gli uomini a farla
finita con una guerra civile che in quel paese durava da anni. Simone
scopre che in quella guerra, tra l’altro, erano coinvolti migliaia di bambini
costretti alle armi. Leggiamo insieme queste notizie, che qualcuno
approfondisce a casa, e scopriamo che Leymah Gbowee non solo ha organizzato
davvero uno sciopero del sesso, ma ha anche organizzato una folta delegazione
di donne che, al momento in cui sono iniziate le trattative di pace, si sono
recate nel vicino Ghana e hanno assediato per giorni l’hotel dove si svolgevano
i colloqui tra le parti in conflitto con una posizione intransigente: “Non
uscirete di qui finché non avrete firmato la pace!”. La storia è così bella da ogni punto di vista
che non vediamo l’ora di provare a renderla teatro. Già, ma non eravamo nell’Atene
del quinto secolo avanti Cristo? Per collegare i due momenti scegliamo di fare
teatro nel teatro, come già sperimentammo al tempo della nostra piccola
provocazione teatrale antirazzista in quarta.
L’idea diverte i ragazzi, a cui piace molto prendersi gioco dei genitori e
degli altri spettatori. Decidiamo così che, nel bel mezzo della scena in cui
Elisa si tira indietro e confessa che è troppo innamorata del suo sposo per
voltarsi dall’altra parte ogni volta che lui la desidera, Nicla scende di corsa
dal palco, accende tutte le luci e comincia a urlare: Finito. Finito tutto
ragazzi! Diego a questo punto domanda: Ma davvero le donne si sono ribellate ad
Atene e sono riuscite a far finire la guerra? No, era solo teatro, risponde
Simone. E mentre ragazze e ragazzi cominciano a metter via oggetti e costumi,
dando l’idea che lo spettacolo è finito, Manuel, Alessandro e Lorenzo scendono
in sala e domandano agli spettatori: Voi chi siete? Cosa fate qui? Discutiamo a
lungo su come compiere il salto da Aristofane a noi che ragioniamo su
Aristofane in modo coinvolgente e bello.
Dentro di me penso che questo straniamento sia necessario, perché offre la
possibilità a noi e agli spettatori di avvicinarsi alla domanda che più ci
interessa: “È possibile costruire la pace convincendo chi è in guerra a
smettere di farsi guerra?”. Teatro,
teatro… ma allora tutta questa storia non è servita a niente!, lamenta Nisrin.
No, risponde Lorenzo, che si è spogliato dei panni di Erodoto. Il teatro è una
cosa che, mentre racconta delle storie, fa aprire la mente ad altre persone. Fa
vedere la vita reale, aggiunge Seriana, sostenuta da Nicla che conclude:
È una cosa per spiegare la realtà. Le frasi sono tutte riprese da loro passate
conversazioni che ho fedelmente registrato, ma a questo punto arriva Peter che dice: Lo sai che questa
storia è poi successa davvero? E Manuel conferma: La storia inventata da Aristofane 2.400 anni
fa è poi accaduta davvero.
Mentre proviamo a rendere teatrale questo brusco
salto temporale, che dall’antica Atene ci porta nella Liberia del ventunesimo
secolo, penso che è di questi salti e azzardi e collegamenti in orbita che vive
la cultura, che a volte ci aiuta a rivedere la categoria dell’impossibile e che mi
piacerebbe far cogliere e sentire a bambine e bambini, ormai divenute ragazze e
ragazzi. Mi piacerebbe far gustare e assaporare loro fino in fondo la
lungimiranza e potenza strabiliante di un’idea concepita da un uomo ad Atene
nella finzione teatrale, che dopo 24 secoli diventa lotta e proposta politica
radicale, capace di suggerire azioni efficaci e concrete per fermare una
guerra, perché presa sul serio da un gruppo di donne africane che hanno il
coraggio e l’ardire di credere fino in fondo al senso politico di quell’antica
commedia tanto da dargli corpo e vita nella realtà. E poi, visto che un giorno
in classe Maia ed Elisa si erano rese conto che molti dei compagni di viaggio
che abbiamo incontrato quest’anno sono stati ammazzati per le loro idee,
da Socrate a Gandhi a Cristo a Ipazia, fino a Martin Luther King, mi piace offrire
loro un messaggio di speranza.
Leymah Gbowee non solo non è morta, ma le hanno dato il premio Nobel per la
pace, insieme a Ellen Sirleaf, sua amica pacifista, che l’ha aiutata dal primo
momento ed è stata eletta presidente della Liberia! Questo è ciò che comunica
con forza Mario al termine della scena.
Ci sono altre informazioni che abbiamo scoperto di questa straordinaria
storia fricana, che siamo felici di condividere in scena. Ellen Sirleaf nel
2007 ha reso l’educazione elementare libera e gratuita per tutti!, dice
soddisfatto David. Nel 2010 la Liberia ha votato per la libertà totale di
informazione!, aggiunge Cristian. E Maia, spogliatasi dai panni di Lisistrata,
può finalmente affermare a piena voce: Allora è possibile cambiare il mondo! La frase è sacrosanta e
credo non ci possa essere educazione senza apertura alla speranza. Ma poiché
diffido di ogni retorica e mi viene l’orticaria quando ascolto frasi edulcorate
e sdolcinate che spesso noi adulti amiamo far imparare a memoria ai bambini, il
nostro spettacolo non può finire qui. E infatti Nisrin riprende l’affermazione
di Maia, domandandosi a ragione: Già,
ma come dirlo agli uomini, che continuano a fare la guerra dappertutto? Non
capiscono che occhio per occhio rende tutti ciechi, come diceva Gandhi, replica
Maia. Non capiscono che per fare la pace non bisogna dare ragione a uno, ma a
due, aggiunge Emilia, riportando in teatro la sua frase che ci aveva tanto
colpito. Ma è faticoso. Bisogna ascoltarsi e mettersi d’accordo, ricorda
saggiamente Elisa. E Aurora, mescolando i suoi sentimenti più intimi al
discorso più ampio che stiamo cercando di fare, afferma sconsolata: Io provo a
parlarci, ma non mi sentono.
Nel mondo degli uccelli con Totò e
Pasolini
Uno dei primi anni che insegnavo a Giove, oltre trent’anni fa, amavo
scendere con i bambini nel giardino abbandonato di cui ho scritto, lasciandoli
liberi di giocare tra alberi caduti, erba alta e resti di aiuole ormai
inselvatichite. Una mattina mi sono incantato a osservare un gruppo di uccelli che saltellavano di ramo
in ramo e, volando qua e là, si rincorrevano cinguettando. Poco più in
basso bambine e bambini, pur non
potendo spiccare il volo, saltavano anche loro qua e là rincorrendosi
e giocando. Sorridendo, mi chiedevo se anche tra gli uccelli ci fosse un
maestro fermo in un angolo a osservare pensoso i suoi piccoli. Poi mi sono
distratto e ho pensato ad altro. Ma quel tempo, durato non so quanto,
dev’essere stato così intenso che ogni volta che scendo in quel piccolo
triangolo di verde, ora finalmente espropriato dal Comune e divenuto piccolo
giardino della scuola, non riesco a non tornare, almeno un momento, a
quell’immagine lontana in cui m’era sembrato a un tratto che due mondi
paralleli si specchiassero tra loro.
Il mondo degli uccelli è tornato molte volte nelle mie ricerche con i
bambini animando movimenti, fantasie, testi e spettacoli teatrali. Un anno
mettemmo in scena alcuni frammenti tratti da La conferenza degli
uccelli, un testo del poeta persiano Farīd al Dīn ʻAṭṭār, mirabilmente
messo in scena da Peter Brook negli anni Settanta, con un gruppo di attori che
provenivano da ogni parte del mondo. “Maè, gli uccelli tornano sempre nei nostri
spettacoli”, mi apostrofa con tono sfottente Mario, quando propongo di
rileggere la nostra conversazione sulle migrazioni degli uccelli fatta in
terza, per trovare un’ispirazione
che ci aiuti a concludere il nostro ultimo spettacolo.
Gli uccelli non hanno le armi, aveva detto allora
Michele. Si muovono liberi per
cercare cibo e vivere bene, aveva aggiunto Tommaso. Non esistono nuvole frontiere e mica c’è la
penna d’identità, aveva sentenziato Maia, concludendo i nostri
ragionamenti sulle differenze tra il libero migrare degli uccelli e le
difficoltà che incontrano tanti esseri umani oggi nell’attraversare le
frontiere. Riprendiamo dunque molte battute di quella conversazione, introdotta
dall’ipotesi avanzata da Elisa, secondo la quale per superare il silenzio in
cui nessuno parla più, bisogna
rivolgerci agli uccelli, unici animali in grado di annunciare agli uomini la
pace. Elisa aveva risposto a Dalila che, in modo sibillino, aveva
evocato una voce così muta, che non poteva nemmeno cantare canzoni.
E poiché il tema emerso dalle loro proposte teatrali riguarda come gli
uccelli possano comunicare con noi umani, mi è tornata in mente una sequenza di Uccellacci,
uccellini di Pier Paolo Pasolini, che da anni covo il desiderio
di guardare insieme ai bambini per provare a farne qualcosa. Nella scena Totò,
frate francescano, cerca di colloquiare con gli uccelli con ogni tipo di
fischio e gorgheggio senza riuscirvi. Un giorno finalmente, osservando il
giovane novizio che lo segue, si accorge che è saltellando e danzando che gli
uccelli comunicano tra loro. Ninetto Davoli, infatti, stanco di preghiere vane
e senza esito, si era messo a giocare a campana all’ombra di una chiesa di tufo
di Tuscania, ed è in quel momento che il frate scopre che l’unica possibilità
di comunicare con gli uccelli sta nel danzare insieme a loro. “Che baccalà che sono stato, che
baccalà!”, esclama Totò distendendo in un sorriso i muscoli della sua maschera
tragica, suscitando ogni volta la risata divertita di Dalila.
Decidiamo dunque che Michele e David isseranno a fine spettacolo, sul fondo
della scena, un grande telo bianco retto da due lunghe canne. Sulle tre lenzuola, cucite per noi dalla
mamma di Dalila, appare così la sequenza del film di Pasolini con le bambine e
i bambini che entrano nel fascio di luce del cinema cominciando a saltellare.
Ciascuno di loro piano piano, ondulando la schiena e aprendo le braccia, si
trasforma in un diverso uccello che, zompettando qua e là, prova a spiccare il
volo dialogando con la comica danza uccellesca di Ninetto e Totò. Lo spettacolo
è finito, e anche l’anno e anche la mia vita di maestro elementare nella
scuola.
Nessun commento:
Posta un commento