domenica 29 dicembre 2019

Il teatro come luogo dove dare corpo alla conoscenza - Franco Lorenzoni


Nel mese di marzo della quinta elementare iniziamo la nostra ultima avventura teatrale (riferimento all’ultima esperienza teatrale vissuta dall’autore con le ragazze e ragazzi della scuola elementare di Giove, Terni, nel suo ultimo anno di insegnamento, ndr). Cominciamo a salire sempre più frequentemente nel sottotetto della scuola conquistato dopo anni e io preparo una scena che dà l’avvio al nostro viaggio di avvicinamento a Lisistrata di Aristofane, che ho deciso di proporre a ragazze e ragazzi trascrivendone alcuni frammenti. Iniziamo così le prime prove e improvvisazioni.
C’è Lisistrata che aspetta ansiosa l’arrivo di altre donne, a cui vuol proporre l’occupazione del tempio di Atena per dare avvio a una rivolta contro la guerra. Un giorno Dalila, che in casa è abituata ad aiutare sua madre e a badare al fratellino, ci propone un convincente lamento verso le fatiche della vita domestica, facendo sue queste parole: Per noi donne è difficile uscire di casa: una deve stare attenta al marito, una mettere a letto il bambino, una lavarlo, una imboccarlo… Le altre ragazze si divertono ad ascoltarla lamentarsi e suggeriscono diversi modi in cui dire stare attenta al marito levando gli occhi al cielo, producendo così un divertente effetto comico, rubato certamente alle loro memorie domestiche. Ma ecco che incontriamo subito la seconda provocazione di Aristofane. Entra infatti in scena Lampito, fiorente donna spartana che, nelle parole di Alessia, è così forte che strozzerebbe un toro. Seriana, che ha assunto le vesti di Lampito, non si presenta agli occhi delle ateniesi come spartana, dunque nemica, ma come donna curiosa di altre donne in rivolta, che porta ad Atene la solidarietà delle donne della sua città, anch’esse stanche di guerra.
Proviamo e riproviamo queste prime scene e, ogni volta che sento la ragazze pronunciare le parole di Aristofane mi stupisco della visionaria lungimiranza del nostro amico ateniese, che contrappone la solidarietà tra donne all’ottusa smania dei maschi di fare la guerra per allargarne i confini della loro città.
Emilia ora lamenta: Ognuna di noi soffre perché il suo uomo è lontano. E tutte le ragazze ripetono in coro le sue parole per dare ritmo all’azione. Seriana offre nuovi particolari del suo sconforto, dicendo: È vero, mio marito torna dal fronte, ma poi ecco che imbraccia lo scudo e se ne riparte di nuovo al volo. Nasce una discussione tra le donne su come costringere i mariti a farla finita con la guerra e le ragazze decidono finalmente di occupare il tempio di Atena, salendo in piedi su due banchi che cominciamo a usare per dare movimento allo spazio scenico.
L’arrivo dei maschi ateniesi minacciosi ha naturalmente acceso la fantasia dei bambini, che sperimentano tutti i modi possibili per mostrare la loro aggressività contro le compagne. Le bambine non sono da meno e, dunque, per un bel po’ di giorni il gioco della sfida tra i sessi si impossessa di tutti. All’Acropoli, all’Acropoli!, gridano le bambine per farsi forza e convincersi di osare l’impossibile, mentre i maschi si schierano alla destra del palco, agguerriti più che mai. Lanciano minacce terribili, si preoccupa Dalila. Dicono che ci vogliono arrostire, aggiunge Nisrin. Ma Emilia le rincuora e insieme le sprona, affermando con decisione: Noi dobbiamo salvare la Grecia e tutti i cittadini dalla guerra e dalla follia.
Nel ritmo crescente delle due schiere che si fronteggiano, i maschi battono forte tra loro pezzi di manico di piccone inneggiando al fuoco, mentre le ragazze si trasformano in acqua per contrastare l’incendio. In modo guerresco i maschi ora avanzano verso le loro compagne, ma vengono respinti capriolando e rotolando rovinosamente al suolo, con evidente effetto comico. Segue un ritmo di bastoni suonato con vigore. Ci viene facile mettere in scena scaramucce, provocazioni verbali e piccole minacce di rissa perché bambine e bambini hanno un ricco vissuto da cui pescare. Discutiamo a lungo invece su come rendere teatralmente, dunque fisicamente, la scelta di rompere con la guerra da parte delle donne di Atene, che invece è proposta inusitata e sottile, lontana da ogni loro esperienza. A entrarci ci aiuta il nostro compagno di viaggio Aristofane, che porta tra noi l’espressione Lisimaca, che è parola chiave di tutta la commedia. Noi ci chiameremo Lisìmache, cantano le ragazze. Lisìmache? Lisìmache? Lisima che?, chiedono i ragazzi senza capire. Noi siamo dissolvitrici di battaglie. Noi sciogliamo i nodi che voi create!, rispondono in coro le ragazze.
A questo punto, su suggerimento di Nicla, rotola in scena una grande palla avvolta di strisce di stoffa, che dà l’avvio a una piccola danza in cui le bambine, accompagnate da una musica di Aubry, giocano a infilarsi una negli spazi dell’altra, come a comporre una tessitura. Mescolando le metafore di Aristofane con immagini sorte durante le nostre discussioni e improvvisazioni, Emilia dice: Come la lana, quando è tutta arruffata, noi la dobbiamo cardare, pettinare… Poi pettinare la concordia generale mescolando un po’ tutti: noi ateniesi, i contadini di fuori, i meteci, gli stranieri, anche i nemici di Sparta, propone con convinzione Maia che, interpretando Lisistrata, dà spessore alla proposta, evocando il prendersi cura delle relazioni più difficili, proprio come lei fa in classe tutti i giorni, spontaneamente. Dobbiamo mescolarci tutti insieme!, conclude Aurora, con la sua voce tremula e titubante, mettendo anche lei nella battuta un desiderio che le appartiene profondamente.
Durante le prove ci sono botte e risposte che continuamente aggiungiamo o togliamo, alla ricerca di un ritmo che sia incalzante. Ecco allora che arriva Tommaso che grida allarmato: Guardate, tra loro c’è anche una donna spartana. Alessandro denuncia: Si stanno mettendo d’accordo, mentre David aggiunge infuriato: Vogliono riconciliarci con gli odiosi spartani. Tutti gli uomini vengono ora avanti nel proscenio scandendo in coro: Traditrici della patria, traditrici della patria! Il nostro motto è uno solo: prima gli ateniesi e morte ai barbari! Lorenzo scopre che anche noi siamo barbari per loro.
Compagni di viaggio
A questo punto dello spettacolo, durante le prove, un giorno ci accorgiamo che nel nostro teatro non può mancare un altro compagno di viaggio che ci ha offerto tanti motivi di riflessione e discussione: Erodoto. Così tra le donne arroccate sull’acropoli occupata e gli uomini che le assediano, compare improvvisamente lo storico che abitava ad Atene in quegli anni, incarnato da Lorenzo, che è il più politico dei ragazzi ed è stato persino eletto vicesindaco nel consiglio comunale dei ragazzi. Da che parte stai in questa guerra? domanda Peter. Ed Erodoto con la voce di Lorenzo, risponde: Da nessuna parte. Io ascolto, racconto… In guerra non si può stare da nessuna parte, ribatte Manuel. E Lorenzo ribatte: E perché? Mio padre era persiano, mia madre greca… E allora?, domanda Mario. Allora ho imparato che ci sono sempre due punti di vista, spiega pacatamente il nostro Erodoto. Che al mondo non ci sono greci e barbari perché i persiani sono barbari per noi, ma anche noi siamo barbari per loro. Io ascolto, racconto, scrivo storie… e c’è una domanda che mi faccio da sempre: perché gli uomini amano fare la guerra?
La scena prosegue con le donne arroccate in alto e gli uomini che le circondano furiosi e increduli, ma non sappiamo come andare avanti. Trascorriamo alcuni giorni nell’incertezza. Decidiamo poi di tornare indietro e di mettere all’inizio, come prima scena, una battaglia vera tra maschi e femmine che vogliamo fare scatenando un rumore infernale, ottenuto battendo posate e pentole, trasformando così oggetti casalinghi e quotidiani in strumenti a percussione e armi. Proviamo a rendere teatrale la discussione che facemmo in classe il primo giorno di scuola, su come si reagisce a chi provoca e fa il bullo e, alla domanda di Emilia, Ma perché vi piace così tanto giocare alla guerra? Michele risponde: Perché è più divertente della pace.
Con la pace stai a letto, dormi, ti annoi. Con la guerra ti muovi, ammazzi con la pistola, si corre… aggiunge Peter. E Cristian concorda: Fare la guerra è più divertente, più bello. Da questo frammento di discussione traiamo il titolo per lo spettacolo, che sarà “Ma giocare alla guerra è più divertente”. Sono io questa volta che lo propongo per non cadere in una facile e superficiale retorica pacifista, colma di frasi che i bambini troppe volte sono chiamati a ripetere senza convinzione.
La rivolta nonviolenta delle donne liberiane
La questione dell’impulso a litigare e a farsi la guerra anche nei gesti più semplici e quotidiani e, di converso, la difficoltà a costruire la pace e una convivenza aperta e costruttiva, occupano molti miei pensieri. Con bambine e bambini ne discutiamo continuamente, riprendendo i numerosi dialoghi fatti da quando abbiamo incontrato Gandhi. Ma dal punto di vista teatrale non so come uscirne. Nello scervellarmi su come andare avanti mi torna alla mente di aver letto, qualche anno fa, che ci fu un paese dell’Africa in cui le donne presero sul serio la storia di Lisistrata azzardando uno sciopero del sesso di cui non ricordavo l’esito. Cerco nelle magiche pagine di wikipedia notizie in proposito e scopro, insieme ai bambini, che davvero nel 2002, in Liberia, una donna di nome Leymah Gbowee organizzò un’opposizione nonviolenta alla guerra, provando a organizzare e a propagandare dalla radio uno sciopero del sesso per coinvolgere più donne possibile e costringere gli uomini a farla finita con una guerra civile che in quel paese durava da anni. Simone scopre che in quella guerra, tra l’altro, erano coinvolti migliaia di bambini costretti alle armi. Leggiamo insieme queste notizie, che qualcuno approfondisce a casa, e scopriamo che Leymah Gbowee non solo ha organizzato davvero uno sciopero del sesso, ma ha anche organizzato una folta delegazione di donne che, al momento in cui sono iniziate le trattative di pace, si sono recate nel vicino Ghana e hanno assediato per giorni l’hotel dove si svolgevano i colloqui tra le parti in conflitto con una posizione intransigente: “Non uscirete di qui finché non avrete firmato la pace!”. La storia è così bella da ogni punto di vista che non vediamo l’ora di provare a renderla teatro. Già, ma non eravamo nell’Atene del quinto secolo avanti Cristo? Per collegare i due momenti scegliamo di fare teatro nel teatro, come già sperimentammo al tempo della nostra piccola provocazione teatrale antirazzista in quarta.
L’idea diverte i ragazzi, a cui piace molto prendersi gioco dei genitori e degli altri spettatori. Decidiamo così che, nel bel mezzo della scena in cui Elisa si tira indietro e confessa che è troppo innamorata del suo sposo per voltarsi dall’altra parte ogni volta che lui la desidera, Nicla scende di corsa dal palco, accende tutte le luci e comincia a urlare: Finito. Finito tutto ragazzi! Diego a questo punto domanda: Ma davvero le donne si sono ribellate ad Atene e sono riuscite a far finire la guerra? No, era solo teatro, risponde Simone. E mentre ragazze e ragazzi cominciano a metter via oggetti e costumi, dando l’idea che lo spettacolo è finito, Manuel, Alessandro e Lorenzo scendono in sala e domandano agli spettatori: Voi chi siete? Cosa fate qui? Discutiamo a lungo su come compiere il salto da Aristofane a noi che ragioniamo su Aristofane in modo coinvolgente e bello.
Dentro di me penso che questo straniamento sia necessario, perché offre la possibilità a noi e agli spettatori di avvicinarsi alla domanda che più ci interessa: “È possibile costruire la pace convincendo chi è in guerra a smettere di farsi guerra?”. Teatro, teatro… ma allora tutta questa storia non è servita a niente!, lamenta Nisrin. No, risponde Lorenzo, che si è spogliato dei panni di Erodoto. Il teatro è una cosa che, mentre racconta delle storie, fa aprire la mente ad altre persone. Fa vedere la vita reale, aggiunge Seriana, sostenuta da Nicla che conclude: È una cosa per spiegare la realtà. Le frasi sono tutte riprese da loro passate conversazioni che ho fedelmente registrato, ma a questo punto arriva Peter che dice: Lo sai che questa storia è poi successa davvero? E Manuel conferma: La storia inventata da Aristofane 2.400 anni fa è poi accaduta davvero.
Mentre proviamo a rendere teatrale questo brusco salto temporale, che dall’antica Atene ci porta nella Liberia del ventunesimo secolo, penso che è di questi salti e azzardi e collegamenti in orbita che vive la cultura, che a volte ci aiuta a rivedere la categoria dell’impossibile e che mi piacerebbe far cogliere e sentire a bambine e bambini, ormai divenute ragazze e ragazzi. Mi piacerebbe far gustare e assaporare loro fino in fondo la lungimiranza e potenza strabiliante di un’idea concepita da un uomo ad Atene nella finzione teatrale, che dopo 24 secoli diventa lotta e proposta politica radicale, capace di suggerire azioni efficaci e concrete per fermare una guerra, perché presa sul serio da un gruppo di donne africane che hanno il coraggio e l’ardire di credere fino in fondo al senso politico di quell’antica commedia tanto da dargli corpo e vita nella realtà. E poi, visto che un giorno in classe Maia ed Elisa si erano rese conto che molti dei compagni di viaggio che abbiamo incontrato quest’anno sono stati ammazzati per le loro idee, da Socrate a Gandhi a Cristo a Ipazia, fino a Martin Luther King, mi piace offrire loro un messaggio di speranza. Leymah Gbowee non solo non è morta, ma le hanno dato il premio Nobel per la pace, insieme a Ellen Sirleaf, sua amica pacifista, che l’ha aiutata dal primo momento ed è stata eletta presidente della Liberia! Questo è ciò che comunica con forza Mario al termine della scena.
Ci sono altre informazioni che abbiamo scoperto di questa straordinaria storia fricana, che siamo felici di condividere in scena. Ellen Sirleaf nel 2007 ha reso l’educazione elementare libera e gratuita per tutti!, dice soddisfatto David. Nel 2010 la Liberia ha votato per la libertà totale di informazione!, aggiunge Cristian. E Maia, spogliatasi dai panni di Lisistrata, può finalmente affermare a piena voce: Allora è possibile cambiare il mondo! La frase è sacrosanta e credo non ci possa essere educazione senza apertura alla speranza. Ma poiché diffido di ogni retorica e mi viene l’orticaria quando ascolto frasi edulcorate e sdolcinate che spesso noi adulti amiamo far imparare a memoria ai bambini, il nostro spettacolo non può finire qui. E infatti Nisrin riprende l’affermazione di Maia, domandandosi a ragione: Già, ma come dirlo agli uomini, che continuano a fare la guerra dappertutto? Non capiscono che occhio per occhio rende tutti ciechi, come diceva Gandhi, replica Maia. Non capiscono che per fare la pace non bisogna dare ragione a uno, ma a due, aggiunge Emilia, riportando in teatro la sua frase che ci aveva tanto colpito. Ma è faticoso. Bisogna ascoltarsi e mettersi d’accordo, ricorda saggiamente Elisa. E Aurora, mescolando i suoi sentimenti più intimi al discorso più ampio che stiamo cercando di fare, afferma sconsolata: Io provo a parlarci, ma non mi sentono.
Nel mondo degli uccelli con Totò e Pasolini
Uno dei primi anni che insegnavo a Giove, oltre trent’anni fa, amavo scendere con i bambini nel giardino abbandonato di cui ho scritto, lasciandoli liberi di giocare tra alberi caduti, erba alta e resti di aiuole ormai inselvatichite. Una mattina mi sono incantato a osservare un gruppo di uccelli che saltellavano di ramo in ramo e, volando qua e là, si rincorrevano cinguettando. Poco più in basso bambine e bambini, pur non potendo spiccare il volo, saltavano anche loro qua e là rincorrendosi e giocando. Sorridendo, mi chiedevo se anche tra gli uccelli ci fosse un maestro fermo in un angolo a osservare pensoso i suoi piccoli. Poi mi sono distratto e ho pensato ad altro. Ma quel tempo, durato non so quanto, dev’essere stato così intenso che ogni volta che scendo in quel piccolo triangolo di verde, ora finalmente espropriato dal Comune e divenuto piccolo giardino della scuola, non riesco a non tornare, almeno un momento, a quell’immagine lontana in cui m’era sembrato a un tratto che due mondi paralleli si specchiassero tra loro.
Il mondo degli uccelli è tornato molte volte nelle mie ricerche con i bambini animando movimenti, fantasie, testi e spettacoli teatrali. Un anno mettemmo in scena alcuni frammenti tratti da La conferenza degli uccelli, un testo del poeta persiano Farīd al Dīn ʻAṭṭār, mirabilmente messo in scena da Peter Brook negli anni Settanta, con un gruppo di attori che provenivano da ogni parte del mondo. “Maè, gli uccelli tornano sempre nei nostri spettacoli”, mi apostrofa con tono sfottente Mario, quando propongo di rileggere la nostra conversazione sulle migrazioni degli uccelli fatta in terza, per trovare un’ispirazione che ci aiuti a concludere il nostro ultimo spettacolo.
Gli uccelli non hanno le armi, aveva detto allora Michele. Si muovono liberi per cercare cibo e vivere bene, aveva aggiunto Tommaso. Non esistono nuvole frontiere e mica c’è la penna d’identità, aveva sentenziato Maia, concludendo i nostri ragionamenti sulle differenze tra il libero migrare degli uccelli e le difficoltà che incontrano tanti esseri umani oggi nell’attraversare le frontiere. Riprendiamo dunque molte battute di quella conversazione, introdotta dall’ipotesi avanzata da Elisa, secondo la quale per superare il silenzio in cui nessuno parla più, bisogna rivolgerci agli uccelli, unici animali in grado di annunciare agli uomini la pace. Elisa aveva risposto a Dalila che, in modo sibillino, aveva evocato una voce così muta, che non poteva nemmeno cantare canzoni.
E poiché il tema emerso dalle loro proposte teatrali riguarda come gli uccelli possano comunicare con noi umani, mi è tornata in mente una sequenza di Uccellacci, uccellini di Pier Paolo Pasolini, che da anni covo il desiderio di guardare insieme ai bambini per provare a farne qualcosa. Nella scena Totò, frate francescano, cerca di colloquiare con gli uccelli con ogni tipo di fischio e gorgheggio senza riuscirvi. Un giorno finalmente, osservando il giovane novizio che lo segue, si accorge che è saltellando e danzando che gli uccelli comunicano tra loro. Ninetto Davoli, infatti, stanco di preghiere vane e senza esito, si era messo a giocare a campana all’ombra di una chiesa di tufo di Tuscania, ed è in quel momento che il frate scopre che l’unica possibilità di comunicare con gli uccelli sta nel danzare insieme a loro. “Che baccalà che sono stato, che baccalà!”, esclama Totò distendendo in un sorriso i muscoli della sua maschera tragica, suscitando ogni volta la risata divertita di Dalila.
Decidiamo dunque che Michele e David isseranno a fine spettacolo, sul fondo della scena, un grande telo bianco retto da due lunghe canne. Sulle tre lenzuola, cucite per noi dalla mamma di Dalila, appare così la sequenza del film di Pasolini con le bambine e i bambini che entrano nel fascio di luce del cinema cominciando a saltellare. Ciascuno di loro piano piano, ondulando la schiena e aprendo le braccia, si trasforma in un diverso uccello che, zompettando qua e là, prova a spiccare il volo dialogando con la comica danza uccellesca di Ninetto e Totò. Lo spettacolo è finito, e anche l’anno e anche la mia vita di maestro elementare nella scuola.




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