Elaborazione di un’esperienza
Un morto sono che cammina
non più dichiarato in nessun luogo
sconosciuto nel regno burocratico
in soprannumero nelle città dorate
e nelle campagne verdeggianti
liquidato da tempo
e di nulla munito:
se non di vento di tempo e di suono
colui che tra la gente più vivere non può
non più dichiarato in nessun luogo
sconosciuto nel regno burocratico
in soprannumero nelle città dorate
e nelle campagne verdeggianti
liquidato da tempo
e di nulla munito:
se non di vento di tempo e di suono
colui che tra la gente più vivere non può
Ingeborg Bachmann
Desidero proporre molto sinteticamente alcune riflessioni nate da un vero e
proprio bisogno di elaborare l’esperienza del rapporto con i migranti,
sia in Italia che in Bosnia. Queste riflessioni, infatti, sono per
me anche una forma di difesa nel rapporto con il dolore di questi corpi, fra
cui ho scelto di andare, di stare e di cercar di agire secondo un impegno il
cui senso vuole essere politico. Sono una specie di scialuppa di salvataggio
(per usare una metafora appropriata, anche se per altre rotte); un tentativo di
contenere e di accettare le mie paure e la mia confusione – anzi: di farne il
punto di partenza per una ricerca insieme esistenziale, politica e
intellettuale.
Il rapporto con i corpi migranti dell’ultima generazione, con i profughi, i
richiedenti asilo – il nome per indicarli è oscillante – è infatti, un rapporto
con corpi di dolore (Achille Mbembe). Il dolore può
essere collettivo, di interi strati o gruppi sociali o popolazioni, ma è sempre
anche del singolo, in ciò che ha di più intimo.
I migranti delle generazioni precedenti (mi riferisco
principalmente, per mia esperienza, alle migrazioni dagli anni Novanta) venivano
soprattutto in cerca di lavoro. Erano, quindi, operai e lavoratori
potenziali, che, molto spesso, in seguito, diventavano effettivi; sfruttati
molto più duramente, certo, degli operai locali, talora al limite della
schiavitù, come nell’agricoltura del sud in Italia e anche altrove, ma pur
sempre assimilabili a operai, a lavoratori, a corpi già noti e identificabili,
per uno come me, in un orizzonte sociale e politico. Anche se, come scriveva il
grande sociologo algerino Abdelmalek Sayad, il corpo migrante rimarrà sempre un
corpo sospeso fra e-migrazione e im-migrazione: non più
là, donde è partito, né mai pienamente qui, dove è arrivato – in una dinamica
di “doppia assenza”.
I migranti dell’ultima generazione, però, nei barconi o gommoni nel
Mediterraneo (in cui sono morti a migliaia), lungo i percorsi della prima e
della seconda rotta balcanica (qui i morti sono soltanto centinaia!), sono
corpi che si manifestano completamente al di fuori dei dispositivi sociali e
sociologici delle identificazioni. Certamente, anche loro cercano un
lavoro che gli permetta di sopravvivere e di vivere: costituiscono quindi una
riserva di mano d’opera a bassissimo costo o in semischiavitù; anche loro
immaginano una vita futura nei termini dell’immaginario consumistico
occidentale.
Frequentandoli ormai da tempo, però, ho sentito e capito qualcosa che non è
così ovvia, come può sembrare. Anzi, non lo è per niente. Ho capito che prima
di tutto, vogliono vivere. Cercano un luogo qualunque dove sia possibile vivere.
Vivere non è sopravvivere. Sopravvive il migrante nei campi
di Turchia, di Grecia, di Bosnia o nei centri italiani di “accoglienza”. In
molti casi neanche sopravvive, si trascina tra la vita e la morte e spesso
muore (basta pensare alla Libia); ma sopravvive anche, fra noi, l’operaio
“italiano” per i turni massacranti, l’ambiente inquinato – e talora anche
muore… -, sopravvivono il lavoratore precario, il disoccupato, i poveri in
aumento … Sopravvive anche il trenta-quarantenne mantenuto dai genitori
pensionati… In realtà, sopravviviamo tutti, se tolleriamo che vengano
emanate e diventino attive, in un’indifferenza diffusa, leggi razziste e che la
solidarietà venga criminalizzata.
Che cosa sia “vivere”, noi, lo abbiamo imparato dai profughi: non certo nei
campi profughi, dove si cerca di spegnere la loro vitalità, ma dai profughi in
cammino verso una terra promessa immaginaria, in cui sia possibile, appunto,
vivere una vita degna d’essere vissuta. È un paradosso, ma le dinamiche
storiche profonde si manifestano proprio in maniera paradossale.
Una grande pensatrice tragica del Novecento, Simone Weil, pone al centro di
ogni essere umano “un grido infallibile”: “Perché mi si fa del male?”. Questa domanda,
afferma Weil, pone i problemi essenziali “di verità, di giustizia, di amore”.
In questo senso, il corpo di dolore del migrante è un corpo di verità, che
grida che non gli si faccia del male e dice anche che la nostra civiltà, la
civiltà che domina la terra, e che è nata dal colonialismo, fa del male a
tutti. E ci grida questo corpo che è necessario, oggi, e urgente, trovare un
nuovo modo di declinare Liberté, Egalité, Fraternité: il
1789, in Occidente, non si è mai liberato del 1492! Sono stati i corpi
di dolore degli schiavi neri di Haiti, con la loro rivolta nel 1791, a porre la
prima drammatica richiesta di diritti effettivamente universali.
Il corpo di dolore è un corpo che, con il suo mero esserci, richiede giustizia,
che significa uguaglianza di tutti i corpi.
È anche un corpo d’amore, un corpo, cioè, che chiede amore nel senso
che ogni corpo nasce dapprima dallo sguardo dell’altro. Così noi sperimentiamo
ogni volta, in Bosnia o a Trieste, l’importanza di guardare negli occhi,
di pronunciare il nome, di far emerge dalla massa il singolo.
Questo significa impegnarsi a fare attenzione il più possibile alla singolarità
di ciascuno. Non può esserci giustizia, allora, senza l’attenzione alle
singolarità e quindi alle differenze.
Questi corpi si sono strappati a guerre, invasioni, regimi feroci indotti
dall’Occidente, desertificazioni, devastazioni di ogni tipo: disastri tutti
provocati da noi, dal tipo di civiltà che chiamiamo capitalismo,
dai sistemi sociali di cui, ci piaccia o no, siam parte, da noi che non abbiamo
saputo e che non sappiamo resistere e trasformare e trasformarci.
Sono corpi che affrontano la morte per andare verso una speranza di vita. A
noi che li frequentiamo, di qua e di là dei confini, appaiono innanzitutto
corpi di dolore, oltre le innumerevoli complesse, confuse, connotazioni identitarie
e anche di classe che li segnano, e, molto spesso, li separano e
contrappongono, anche con violenza. Da sempre la guerra tra i poveri, tra gli
ultimi, è stata segno caratteristico del dominio, oggi più che mai,
quando il mondo è dominato, come in nessun’altra epoca, da un’esigua minoranza.
Questi corpi sono incisi da un dolore storico che li ha segnati, anzi
prodotti: il dolore inflitto dal colonialismo e poi dal neocolonialismo in
Asia e Africa, e dall’ultima fase di guerre permanenti
inaugurata dalle guerre afghane (dal 1973) e poi dall’invasione statunitense
dell’Iraq (dal 2003) e dalla guerra siriana (per parlare solo di quelle che ci
sono geograficamente più vicino). Ma ormai siamo in una guerra
permanente delle oligarchie mondiali contro la vita. Sono perciò, in un
significato storicamente preciso, corpi di verità, storica e politica, quindi
umana.
In termini più generali, il corpo di dolore del migrante mostra
concretamente, con la massima evidenza, quella che è la dimensione fondamentale
del corpo: la vulnerabilità, e quindi la precarietà. Il corpo è
vulnerabile in quanto esposto agli altri. È vulnerabile perché è
relazionale. Vulnerabile vuol dire che può essere vulnerato, ferito. La ferita
può portare alla morte. Presupposto della vulnerabilità è la mortalità del
corpo. La sua finitezza, quindi, ma che è anche la ragione della sua unicità:
ciascuno è unico, perché vive una volta sola, fra nascita e morte. Ed esige il
riconoscimento di questa unicità – altrimenti gli si fa del male.
Ogni corpo è quindi precario, incerto, preoccupato dall’imprevedibilità del
tempo, entro cui si annida la morte. La manifestazione essenziale dei corpi è
l’esposizione agli altri corpi. Di questa esposizione il corpo infantile è la
prima manifestazione e il paradigma. Il corpo maschile, così come si è
storicamente costruito, nel dominio degli altri corpi a cominciare da quello
delle donne, ne è stato, finora, il rifiuto – impossibile e perciò violento,
perché la violenza non produce, al di là delle apparenze, ma distrugge
soltanto. La politica allora, se il suo fine è giungere alla relazione
autentica, alla socialità profonda, deve passare attraverso l’esperienza, il
recupero, dell’infanzia, deve passare attraverso l’esperienza del corpo
infantile, che ci abita sempre: il corpo totalmente esposto. I
migranti, accasciati lungo una strada, in una boscaglia…, in un vicolo
cittadino, sono corpi totalmente esposti.
Il corpo infantile mostra, dunque, quello che un corpo è: la sua coralità.
Il dato, antropologico, culturale, prima che naturale, per cui ogni
corpo è un flusso relazionale che scorre attraverso una soglia, un
confine, un va-e-vieni continuo dagli altri corpi, da una miriade di corpi. Il
corpo stesso è un continuo passaggio di confine: se si chiude al di qua del suo
confine, muore.
Il carattere paradigmatico della nascita e dell’infanzia, così come della
morte, è radicalmente rimosso nelle civiltà androcentriche,
cioè in (quasi) tutte, anche dove sembra che l’infanzia sia curata – rimozione
divenuta tendenzialmente suicidaria nell’attuale, che domina e devasta l’intera
terra.
E tuttavia senza un minimo di cura l’essere umano, anche l’essere vivente
in generale, non sopravvive o sopravvive in modalità negative. La mancanza di
cura o la sua inadeguatezza producono carenza relazionale,
rifiuto cioè della condizione fontale dei corpi, inversione del rapporto vitale
fra i corpi. La relazione fra i corpi diviene negativa: contrapposizione,
violenza. Si apre così – si è antropologicamente aperta – a partire
dall’infanzia, dalla fase essenziale della presa di forma dell’essere umano, la
strada maestra della storia: la via del potere, della violenza.
Il corpo migrante, che nella sua esposizione ci rimanda
alla condizione infantile, dunque alla condizione corporea originaria, che la
nostra civiltà ha cercato di rimuovere, producendo distruzioni di ogni genere.
Perciò i migranti, anche in piccolo numero, hanno la funzione di portare alla
luce sociale quella paura legata alle profondità inconsce dell’immaginario e
possono essere quindi usati per costruire immaginari su cui si reggono governi
e regimi autoritari. Bisogna aggiungere però che non esistono governi e
Stati democratici: la democrazia esiste, a qualche livello, solo se ci sono
forze sociali capaci di resistenza, di controllo e di progettazione.
Il migrante, quindi, il migrante profugo, più ancora, ci rimanda, da una
parte, al “peccato storico originale” della civiltà europea: il colonialismo,
il dominio feroce del resto del mondo; dall’altra, esibisce la precarietà del
corpo, il suo bisogno di cura, in una fase storica in cui anche molti cittadini
dell’UE cadono nella precarietà.
In tale contesto la figura di questo tipo di migrante si presta
opportunamente a diventare quell’altro necessario, quell’estraneo, straniero,
se non nemico – e qui c’è tutta la questione del terrorismo islamico –, di cui
il sistema di potere di una società statuale in crisi ha bisogno per
consolidarsi fittiziamente, per far accettare il peggioramento delle condizioni
di vita, chiudendo la gente nel vissuto individuale circondato dagli slogan
della sicurezza.
C’è qui il paradosso di situazioni storiche ben note, ma che funziona
sempre perché tocca la condizione umana nelle sue viscere. Il desiderio
disperato di sicurezza abbocca facilmente a ogni esca, che poi alimenta invece
l’insicurezza reale, lanciata non solo dai palazzi del potere istituzionale, ma
da tutti i micro-dispositivi di potere sparsi nella società. Ciò nasconde, da
una parte, l’insicurezza dovuta alla crisi sociale (povertà, disoccupazione,
ambiente, eccetera); ma, dall’altra, l’insicurezza profonda, dovuta alla non
elaborazione della precarietà costitutiva dell’essere umano e di ogni vivente.
È questo secondo livello d’insicurezza che ci deve far capire la stupefacente
facilità con cui moltissima gente aderisce alla retorica della sicurezza, come
una zecca aderisce alla pelle, al suo immaginario e alle sue proposizioni pur
così rudimentali.
Siamo immersi in questa dinamica antropologica e sociale profonda, che è la
base permanente del potere, di ogni potere.
Mi piace indicarla con un esempio in sé banale, tratto
dall’esperienza quotidiana: significativo appunto perché banale. Un amico, di
“ceto medio”, sufficientemente acculturato, “di sinistra”, alla richiesta
scherzosa di ospitare in casa sua un
rifugiato, esce di colpo dalla tonalità leggera della conversazione per
rompere in un rauco “no!”, di cui non appare nemmeno del tutto consapevole.
Sembra che il semplice balenare, pur in chiave scherzosa, della possibilità di
un impegno che avrebbe rotto gli abituali schemi di vita, abbia fatto superare
d’un balzo i freni inibitori che regolano le conversazioni amicali, facendo
emergere una paura profonda. Con questo semplice esempio, voglio accennare a
come il bisogno di schemi prevedibili d’esistenza, quindi di sicurezza,
sia una base essenziale del potere, che s’installa proprio nella
precarietà e vulnerabilità di ciascuno. Perché ciò che chiamiamo “potere” non è
altro che il tentativo, sempre disperato nel fondo, di governare, controllare,
comandare la vita per rimuoverne la vulnerabilità, la precarietà, l’intrinseca
mortalità. Voglio anche indicare, con questo esempio, come senza
dis-turbare la nostra normalità quotidiana, non può esserci impegno politico
autentico, perché è nella normalità che s’installa la normazione, la dipendenza
della nostra soggettività dal potere.
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