Da vari
decenni, il diritto penale ha incorporato – soprattutto da contributi di altre
discipline – diverse conoscenze circa alcune problematiche legate all’esercizio
della funzione sanzionatoria. Ad alcune di esse mi sono riferito nell’incontro
precedente (Discorso alla delegazione dell’Associazione
Internazionale di Diritto Penale, 23 ottobre de 2014).
Tuttavia,
malgrado questa apertura epistemologica, il diritto penale non è riuscito a
preservarsi dalle minacce che, ai nostri giorni, incombono sulle democrazie e
la piena vigenza dello Stato di diritto. D’altro canto, il diritto penale
spesso trascura i dati della realtà e in questo modo assume la fisionomia di un
sapere meramente speculativo.
Vediamo due
aspetti rilevanti del contesto attuale.
1. L’idolatria del mercato. La persona fragile,
vulnerabile, si trova indifesa davanti agli interessi del mercato divinizzato,
diventati regola assoluta (cfr. Evangelii
gaudium, 56; Laudato si’, 56). Oggi, alcuni settori economici
esercitano più potere che gli stessi Stati (cfr. Laudato si’, 196): una realtà che risulta
ancora più evidente in tempi di globalizzazione del capitale speculativo. Il
principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra
considerazione, conduce a un modello di esclusione – automatico! – che
infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi
sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i
costi ambientali. La prima cosa che dovrebbero chiedersi i giuristi oggi è che
cosa poter fare con il proprio sapere per contrastare questo fenomeno, che
mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità.
In concreto, la sfida presente per ogni penalista è quella di contenere
l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di
massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di
sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della
protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più
elementari garanzie penali e processuali.
2. I rischi dell’idealismo penale. Una delle maggiori sfide
attuali della scienza penale è il superamento della visione idealistica che
assimila il dover essere alla realtà. L’imposizione di una sanzione non può
giustificarsi moralmente con la pretesa capacità di rafforzare la fiducia nel
sistema normativo e nella aspettativa che ogni individuo assuma un ruolo nella
società e si comporti secondo ciò che da lui ci si attende. Il diritto penale,
anche nelle sue correnti normativiste, non può prescindere da dati elementari
della realtà, come quelli che manifesta l’operatività concreta della funzione
sanzionatoria. Ogni riduzione di questa realtà, lungi dall’essere una virtù
tecnica, contribuisce a nascondere i lineamenti più autoritari dell’esercizio
del potere.
Il danno
sociale dei delitti economici
Una delle
frequenti omissioni del diritto penale, conseguenza della selettività
sanzionatoria, è la scarsa o nulla attenzione che ricevono i delitti dei più
potenti, in particolare la macro-delinquenza delle corporazioni. Non esagero
con queste parole. Apprezzo che il vostro Congresso abbia preso in
considerazione questa problematica. Il capitale finanziario globale è
all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà ma anche contro le
persone e l’ambiente. Si tratta di criminalità organizzata responsabile, tra
l’altro, del sovra-indebitamento degli Stati e del saccheggio delle risorse
naturali del nostro pianeta. Il diritto penale non può rimanere estraneo a
condotte in cui, approfittando di situazioni asimmetriche, si sfrutta una
posizione dominante a scapito del benessere collettivo. Questo succede, per
esempio, quando si provoca la diminuzione artificiale dei prezzi dei titoli di
debito pubblico, tramite la speculazione, senza preoccuparsi che ciò influenzi
o aggravi la situazione economica di intere nazioni (cfr. Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni
per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema
economico-finanziario, 17). Si tratta di delitti che hanno la
gravità di crimini contro l’umanità, quando conducono alla fame, alla miseria,
alla migrazione forzata e alla morte per malattie evitabili, al disastro
ambientale e all’etnocidio dei popoli indigeni.
La tutela
giuridico-penale dell’ambiente
È vero che
la risposta penale arriva quando il delitto è stato commesso, che con essa non
si ripara il danno né si previene la reiterazione e che di rado ha effetti
dissuasivi. È vero pure che, per la sua selettività strutturale, la funzione
sanzionatoria ricade solitamente sui settori più vulnerabili. Non ignoro
neanche che c’è una corrente punitivista che pretende di risolvere attraverso
il sistema penale i più svariati problemi sociali. Invece, un elementare senso
della giustizia imporrebbe che alcune condotte, di cui solitamente si rendono
responsabili le corporazioni, non rimangano impunite. In particolare, tutte
quelle che possono essere considerate come “ecocidio”: la contaminazione
massiva dell’aria, delle risorse della terra e dell’acqua, la distruzione su
larga scala di flora e fauna, e qualunque azione capace di produrre un disastro
ecologico o distruggere un ecosistema. Dobbiamo introdurre – ci stiamo pensando
– nel Catechismo della Chiesa Cattolica il peccato contro l’ecologia, il
“peccato ecologico” contro la casa comune, perché è in gioco un dovere. In
questo senso, recentemente, i Padri del Sinodo per la Regione Panamazzonica
hanno proposto di definire il peccato ecologico come azione oppure omissione
contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente. È un peccato contro
le future generazioni e si manifesta negli atti e nelle abitudini di
inquinamento e distruzione dell’armonia dell’ambiente, nelle trasgressioni
contro i principi di interdipendenza e nella rottura delle reti di solidarietà
tra le creature (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica,
340-344). Come è stato segnalato nei vostri lavori, per
“ecocidio” si deve intendere la perdita, il danno o la distruzione di
ecosistemi di un territorio determinato, in modo che il suo godimento per parte
degli abitanti sia stato o possa vedersi severamente pregiudicato. Si tratta di
una quinta categoria di crimini contro la pace, che dovrebbe essere
riconosciuta tale dalla comunità internazionale. In questa circostanza, e per
vostro tramite, vorrei fare appello a tutti i leader e referenti nel settore
perché contribuiscano con i loro sforzi ad assicurare un’adeguata tutela
giuridica della nostra casa comune.
Circa alcuni
abusi di potere sanzionatorio
Per
concludere questa parte, vorrei riferirmi ad alcuni problemi che si sono
aggravati negli anni trascorsi dal nostro precedente incontro.
1. L’uso improprio della custodia
cautelare. Avevo
segnalato con preoccupazione l’uso arbitrario della carcerazione preventiva.
Purtroppo la situazione si è aggravata in diverse nazioni e regioni, dove il
numero di detenuti senza condanna già supera ampiamente il cinquanta per cento
della popolazione carceraria. Questo fenomeno contribuisce al deteriorarsi
delle condizioni di detenzione ed è causa di un uso illecito delle forze di
polizia e militari per questi fini. La reclusione preventiva, quando è imposta
senza che si verifichino le circostanze eccezionali o per un periodo eccesivo,
lede il principio per cui ogni imputato dev’essere trattato come innocente fino
a che una condanna definitiva stabilisca la sua colpevolezza.
2. L’involontario incentivo alla
violenza. In
diversi Paesi sono state attuate riforme dell’istituto della legittima difesa e
si è preteso di giustificare crimini commessi da agenti delle forze di sicurezza
come forme legittime del compimento del dovere. È importante che la comunità
giuridica difenda i criteri tradizionali per evitare che la demagogia punitiva
degeneri in incentivo alla violenza o in uno sproporzionato uso della forza.
Sono condotte inammissibili in uno Stato di diritto e, in genere, accompagnano
i pregiudizi razzisti e il disprezzo verso le fasce sociali di emarginazione.
3. La cultura dello scarto e quella
dell’odio. La cultura
dello scarto, combinata con altri fenomeni psico-sociali diffusi nelle società
del benessere, sta manifestando la grave tendenza a degenerare in cultura
dell’odio. Si riscontrano episodi purtroppo non isolati, certamente bisognosi
di un’analisi complessa, nei quali trovano sfogo i disagi sociali sia dei
giovani sia degli adulti. Non è un caso che a volte ricompaiano emblemi e
azioni tipiche del nazismo. Vi confesso che quando sento qualche discorso,
qualche responsabile dell’ordine o del governo, mi vengono in mente i discorsi
di Hiltler nel ’34 e nel ’36. Oggi. Sono azioni tipiche del nazismo che, con le
sue persecuzioni contro gli ebrei, gli zingari, le persone di orientamento
omossessuale, rappresenta il modello negativo per eccellenza di cultura dello
scarto e dell’odio. Così si faceva in quel tempo e oggi rinascono queste cose.
Occorre vigilare, sia nell’ambito civile sia in quello ecclesiale, per evitare
ogni possibile compromesso – che si presuppone involontario – con queste
degenerazioni.
4. Il lawfare. Si verifica periodicamente che si
faccia ricorso a imputazioni false contro dirigenti politici, avanzate di
concerto da mezzi di comunicazione, avversari e organi giudiziari colonizzati. In questo modo, con gli strumenti propri del lawfare,
si strumentalizza la lotta, sempre necessaria, contro la corruzione col fine di
combattere governi non graditi, ridurre i diritti sociali e promuovere un
sentimento di antipolitica del quale beneficiano coloro che
aspirano a esercitare un potere autoritario. E nello stesso tempo, è curioso
che il ricorso ai paradisi fiscali, espediente che serve a nascondere ogni
sorta di delitti, non sia percepita come un fatto di corruzione e di
criminalità organizzata. Analogamente, fenomeni massicci
di appropriazione di fondi pubblici passano inosservati o sono minimizzati come
se fossero meri conflitti di interesse. Invito tutti a riflettere a questo
riguardo.
Appello alla
responsabilità
Desidero
rivolgere un invito a tutti voi, studiosi del diritto penale, e a quanti, nei
diversi ruoli, sono chiamati ad assolvere funzioni concernenti l’applicazione
della legge penale. Tenendo presente che scopo fondamentale del diritto penale
è tutelare i beni giuridici di maggiore importanza per la collettività, ogni
compito e ogni incarico in questo ambito ha sempre una risonanza pubblica, un
impatto sulla collettività. Questo richiede e implica al tempo stesso una più
grave responsabilità per l’operatore di giustizia, in qualunque grado esso si
trovi, dal giudice, al funzionario di cancelleria, all’agente della forza
pubblica. Ogni persona chiamata ad assolvere un compito in questo ambito dovrà
tenere continuamente presente, da un lato, il rispetto della legge, le cui
prescrizioni sono da osservare con un’attenzione e un dovere di coscienza
adeguati alla gravità delle conseguenze. D’altro lato, occorre ricordare che la
legge da sola non può mai realizzare gli scopi della funzione penale; occorre
anche che la sua applicazione avvenga in vista del bene effettivo delle persone
interessate. Questo adeguamento della legge alla concretezza dei casi e delle
persone è un esercizio tanto essenziale quanto difficile. Affinché la funzione
giudiziaria penale non diventi un meccanismo cinico e impersonale, occorrono
persone equilibrate e preparate, ma soprattutto appassionate – appassionate! –
della giustizia, consapevoli del grave dovere e della grande responsabilità che
assolvono. Solo così la legge – ogni legge, non solo quella penale – non sarà
fine a sé stessa, ma al servizio delle persone coinvolte, siano essi i
responsabili dei reati o coloro che sono stati offesi. Al tempo stesso,
operando come strumento di giustizia sostanziale e non solo formale, la legge
penale potrà assolvere il compito di presidio reale ed efficace dei beni
giuridici essenziali della collettività. E dobbiamo andare, certamente, verso
una giustizia penale restaurativa.
Verso una
giustizia penale restaurativa
In ogni
delitto c’è una parte lesa e ci sono due legami danneggiati: quello del
responsabile del fatto con la sua vittima e quello dello stesso con la società.
Ho segnalato che tra la pena e il delitto esiste una asimmetria e che il compimento di un male non giustifica
l’imposizione di un altro male come risposta. Si tratta di fare giustizia alla
vittima, non di giustiziare l’aggressore. Nella visione cristiana del mondo, il
modello della giustizia trova perfetta incarnazione nella vita di Gesù, il
quale, dopo essere stato trattato con disprezzo e addirittura con violenza che
lo portò alla morte, in ultima istanza, nella sua risurrezione, porta un
messaggio di pace, perdono e riconciliazione. Questi sono valori difficili da
raggiungere ma necessari per la vita buona di tutti. E riprendo le parole che
ha detto la Professoressa Severino sulle carceri: le carceri devono avere
sempre una “finestra”, cioè un orizzonte. Guardare a un reinserimento. E si
deve, su questo, pensare a fondo al modo di gestire un carcere, al modo di
seminare speranza di reinserimento; e pensare se la pena è capace di portare lì
questa persona; e anche l’accompagnamento a questo. E ripensare sul serio
l’ergastolo. Le nostre società sono chiamate ad avanzare verso un modello di
giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro, perché là dove possibile siano
restaurati i legami intaccati dal delitto e riparato il danno recato. Non credo
che sia un’utopia, ma certo è una grande sfida. Una sfida che dobbiamo
affrontare tutti se vogliamo trattare i problemi della nostra convivenza civile
in modo razionale, pacifico e democratico.
È il discorso indirizzato dal Papa il 15 novembre 2019
ai partecipanti al
XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale
XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale
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