giovedì 12 dicembre 2019

dal Cile


La prima linea del Cile che resiste - Gloria Muñoz Ramírez

La prima linea dei cortei nella capitale cilena si è convertita nell’emblema delle mobilitazioni. Senza nulla da perdere, è composta dalle eroine e dagli eroi della protesta. Sui mezzi di comunicazione li chiamano vandali, superficiali, delinquenti. All’interno dei cortei sono applauditi, sono acclamate, quasi li sollevano sulla spalle. Esistono. Sono centinaia di uomini e donne, giovani in maggioranza, che fronteggiano i carabineros tutti i giorni. Si posizionano nei punti strategici per impedire che i gas lacrimogeni, gli spari delle munizioni e i getti d’acqua mista a sostanze chimiche degli idranti non arrivino al resto della mobilitazione pacifica. Sono le guardiane e i guardiani delle decine di migliaia di persone che stanno protestando nelle strade, da più di 40 giorni, contro di un sistema che li esclude.
L’incrocio tra le due strade Ramón Corvalán e Carabineros de Chile è uno degli iniqui campi di battaglia. Pietre contro camionette da cui si sparano munizioni che hanno accecato già più di 200 persone, o bombe lacrimogene idranti che sparano getti d’acqua con prodotti chimici urticanti che fanno bruciare la pelle per giorni. Il Cile è esperto in questo genere di miseria.
Le notti ribollono. Da una parte un gruppo di giovani disselcia la pavimentazione con i martelli per rifornire di pietre la prima linea. File di giovani con barricate di sacchi ricolmi di pezzi di cemento bloccano le strade e le lasciano a chi respinge gli attacchi frontali dei carabinieri. “Grazie fratelli”, si sente tra gli scontri ed il fumo. Ed è proprio così, la prima battaglia che è stata vinta è stata quella contro l’individualismo e l’ego, qui tutto è collettivo.

Decine, centinaia di persone aspettano i manifestanti che corrono con gli occhi iniettati di lacrimogeno. Gridano: “Acqua con bicarbonato! Acqua con bicarbonato!”. E le persone gli si avvicinano per farsi spruzzare il viso, per ricevere un respiro di sollievo, per essere soccorsi. Per ogni persona ferita se ne avvicinano quattro-cinque immediatamente. E’ la rottura degli argini.
La prima linea non si arresta. Al tramonto si riuniscono i manifestanti di fronte agli idranti e alle camionette disorientandoli con la luce verde di centinaia di laser puntati sui parabrezza. Lo spettacolo di luci e suoni inonda le strade. L’idrante retrocede. I ragazzi gridano di gioia.
Improvvisamente la fanteria dei carabinieri si materializza a piedi. Asserragliati nei veicoli ricevono l’ordine di attaccare e correre dietro ai giovani e di chiunque si trovino sulla traiettoria. Colpiscono e prendono a calci chiunque gli si trovi davanti, arrestano qualcuno mentre i suoi compagni cercano di liberarlo in una battaglia corpo a corpo. A volte ci riescono. Altre, il ragazzo o la ragazza si ritrovano ad aumentare il numero delle persone nei commissariati. Si parla già di più di 17mila detenuti in 40 giorni di protesta.

Nella prima linea arriva Claudia Aranda, giornalista e attivista a tempo pieno. Durante il nostro incontro riceve attraverso whatsapp l’immagine dell’ecografia del suo prossimo nipote. È felice. Da 40 giorni ha lasciato tutto e se ne è andata a vivere in un’occupazione per mantenersi a disposizione in qualsiasi momento. “La zia dell’acqua”, la chiamano le sue migliaia di nuovi nipoti in strada. “Reidratatevi ragazzi!”, grida con la sua tanica da cinque litri tra le mani. Nel suo zaino porta il laser, per quando è necessario disorientare i carabinieri, e il suo taccuino con la fotocamera per le sue cronache.
Ad un altro angolo dello scenario, gruppi di giovani provano a buttare giù un semaforo. Lo tirano con una corda per sradicarlo dal cemento e formare con il palo una barricata. Decine di incroci sono già senza semafori, motivo per cui un altro gruppo di volontari dirige il traffico, ricevendo come retribuzione una suonata di claxon dagli automobilisti che ugualmente gli regalano una bottiglia d’acqua o qualcosa da mettere sotto i denti.

Decine di medici, infermieri e psicologi presidiano i punti di soccorso. Arrivano qui dopo lunghe giornate di lavoro in ospedali pubblici e privati, e per ore soccorrono i feriti della rivolta. Dicono che sembra che giorno dopo giorno i carabinieri stiano mettendo prodotti chimici sempre più aggressivi nell’acqua che sparano dagli idranti, infatti negli ultimi giorni i ragazzi arrivano con pesanti ustioni della pelle.
Una giovane che lavora come organizzatrice di eventi è ora l’incaricata della logistica del centro di soccorso. Riceve e cataloga i sacchetti delle donazioni della gente: mascherine, analgesici, bende, sieri e una quantità senza fine di articoli che si ammassano ad un lato. La solidarietà, fino ad ora, è più grande dell’emergenza.

Nella prima fila i giovani si proteggono con scudi fatti con lastre sottratte alle protezioni dei negozi, con i coperchi dei tombini, con qualsiasi cosa abbiano a disposizione. Sono dei gladiatori. Ci sono donne e uomini “pompieri” il cui compito è di “affogare” i lacrimogeni con bottiglioni d’acqua con bicarbonato e soda caustica. Si fanno carico della parte peggiore, poiché i loro polmoni si riempio di tossicità. L’applauso dei loro compagni è l’unico compenso per ogni lacrimogeno disattivato.
Nelle manifestazioni non c’è fame. E ancora meno nella prima fila, infatti si organizzano pasti comuni che si distribuiscono gratis su carrelli recuperati dal supermercato. Lenticchie e patate non mancano mai. A volte arrivano contingenti di ciclisti con aiuti, altre volte sono loro che ne hanno bisogno.

Che succederebbe se non esistesse questa prima linea? Qualche giorno fa un corteo di maestre dell’asilo ha cercato di raggiungere la Piazza della Dignità, prima conosciuta come Piazza Italia e centro nevralgico delle mobilitazioni, e contro di loro la polizia si è scagliata con i gas lacrimogeni. La prima linea serve affinché queste, e molti altri come loro possano arrivare in piazza e manifestare pacificamente.
Fionde e baionette improvvisate sono le armi della prima fila. Barricate di pietre, lastre, copertoni, e qualsiasi cosa sia utile per ostacolare l’avanzata dei carabinieri, il cui compito è ogni tanto di rompere questa linea, attraversare le barricate e cercare di arrivare ai manifestanti. Dopo più di 40 giorni la meccanica è chiara. Rompono la linea, i giovani vengono riempiti di spari, si disperdono e poi riprendono il proprio posto. Fino al nuovo attacco. E così via.
“¡Encerrona! ¡Encerrona!”, gridano quando arrivano gli idranti da due lati. Non c’è molto da fare oltre che accosciarsi e proteggersi con i corpi. Allo stesso modo si avvertono quando uno di loro sta per lanciare una bottiglia molotov. “Mecha, mecha!”, gridano affinché i propri compagni aprano il campo. La bomba artigianale vola nell’aria e cade vicino ai carabinieri. Il giubilo si espande, poi questo dà del tempo per avvicinarsi ai carabinieri e continuare il combattimento con le pietre.

La battaglia è organizzata. Alcuni si scontrano, altri costruiscono le barricate, altri raccolgono sassi, alcuni portano cibo e acqua, e altri soccorrono i feriti. Tutto affinché il resto della mobilitazione contro un sistema che li ha privati delle necessità più elementari possa continuare senza troppe peripezie.
Nel mezzo dello scontro non mancano i tamburi della batucada o un sassofonista che si avvicina suonando “El derecho de vivir en paz” e inonda l’atmosfera con le sue note. Tramonta ed i blocchi si vanno spegnendo. In strade semioscure appaiono gruppi di carabinieri pattugliando. E tra le ombre, come fantasmi, si sente gridare: “¡Milicos de mierda! ¡Cabros de mierda! ¡Asesinos!”. Una ragazza con una pietra enorme tra le mani sfila insieme alla fila di carabinieri. Li insulta di fronte con la pietra nascosta. I carabinieri proseguono. E lei anche.


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