“Qui si impara ben poco, c’è
mancanza di insegnanti, e noi ragazzi dell’Istituto Bejamenta non riusciremo a
nulla, in altre parole, nella nostra vita futura saremo tutti qualcosa di molto
piccolo e molto subordinato. L’insegnamento che ci viene impartito consiste
sostanzialmente nell’inculcarci pazienza e ubbidienza: due qualità che
promettono poco o nessun successo. Successi interiori, magari sì: ma che
vantaggio potremo trarne? A chi danno da mangiare le conquiste spirituali? A me
piacerebbe esser ricco, andare in giro in carrozza e aver denaro da buttar via.
Ne ho parlato a Kraus, il mio compagno di scuola, ma lui non ha risposto che
con una sprezzante alzata di spalle e non mi ha degnato di una parola. Kraus ha
dei princìpi, sta ben saldo in sella, a cavalcioni della sua contentezza, e
questo è un cavallo su cui chi vuole andare di galoppo preferisce non salire.
Da quando mi trovo qui all’Istituto Benjamenta, sono già riuscito a diventarmi
enigmatico. Mi sono sentito anch’io invadere da un senso strano, finora
sconosciuto, di contentezza. Sono abbastanza ubbidiente, non al punto di Kraus,
che è imbattibile nel precipitarsi a eseguire zelantemente gli ordini. Sotto un
solo aspetto noi scolari, Kraus, Schacht, Schilinski, Fuchs, Pietrone, io,
eccetera, ci assomigliamo tutti: nel fatto di essere assolutamente poveri e in
sottordine. Siamo piccoli, piccoli fino a sentirci spregevoli. Chi ha in tasca
un marco da spendere, lo si guarda come un principe privilegiato. Chi, come me,
fuma sigarette, desta preoccupazioni per le sue abitudini spenderecce. Andiamo
vestiti in uniforme: ebbene, questa circostanza di portare un’uniforme ci umilia
e nello stesso tempo ci esalta. Abbiamo l’aspetto di uomini non liberi, e ciò
può essere una mortificazione; ma abbiamo anche un aspetto elegante, il che ci
preserva dalla profonda vergogna di coloro che se ne vanno attorno in
abbigliamenti personalissimi, ma strappati e sudici. A me, per esempio, il
vestire l’uniforme riesce assai piacevole, dato che sono sempre stato incerto
su come vestirmi. Ma anche questo aspetto mi riesce per ora enigmatico. Forse
in fondo a me c’è un essere estremamente volgare. O forse, invece, ho sangue
azzurro nelle vene. Ma una cosa so di certo: nella mia vita futura sarò un
magnifico zero, rotondo come una palla. Da vecchio sarò costretto a servire
giovani tangheri presuntuosi e maleducati, oppure farò il mendicante, oppure
andrò in malora”. (R. Walser, Jakob von Gunten, Adelphi)
Il capovolgimento è un concetto assai bizzarro. Indica un
cambio netto di prospettiva, ma anche una visione equivalente. Proprio in virtù
di questa sua stranezza, qualche volta può diventare un espediente
retorico versatile e potentemente efficace. La letteratura distopica
potrebbe esserne un esempio: la proiezione dei valori in una dimensione di
assoluto disvalore, offre infine una misura della realtà presente. In questo
senso, non sarà forse troppo improprio accostare al genere anche lo Jakob von
Gunten di Robert Walser. Non fosse che per un elemento che lo distingue e lo
rende un unico: l’ironia, ovvero un doppio capovolgimento.
Walser è leggero, la sua scrittura ci raggiunge poco a poco, come si fa una
passeggiata, così che possiamo sentircene ristorati anche noi: ogni frase, ogni
passo, è un contrappunto al ritmo del pensare. Leggere diventa una danza piena
di giravolte, una dama da cui ci si congeda con un inchino. Tra le pagine dei
suoi libri riverbera senza interruzioni la chimera dell’armonia, un equilibrio
fragile di sogno. Anche il luogo più desolato è fertile suolo per uno scrittore
così evanescente, eppure così sicuro nel labirinto delle parole. E perciò è
difficile dire dove ci troviamo esattamente quando giungiamo all’Istituto
Benjamenta. Neanche Jakob ce ne fornisce una chiara indicazione. Tuttavia non è
difficile sentirgli quell’aria familiare, sentirsi proprio accanto a lui, un
altro allievo caduto nell’enigma della giovinezza, assopito e sognante. Cosa
gli accadrà? Perché ha fatto la scelta di diventare il servo
integerrimo, proprio lui che la sua età e il suo animo rendono refrattario alle
imposizioni? L’educazione al rovescio di Jakob von Gunten è quella
parola che in certe circostanze è conveniente dire, ma non è sentita da chi la
pronuncia. È il simbolo di un’avversione placida e sublimata. Una rinuncia
consapevole di sé in un mondo soverchiante di proposte opportune. La
compostezza, parossistica e ridicola, che viene esibita sul nudo scenario della
ripetizione, suscita il riso, ma non può erompere in una risata. S’imprime come
un’acuta smorfia. Forse è questo chiaroscuro a dare un carattere di teatralità
all’opera. Istruzione e condotta ci portano al cuore della vana commedia dell’educazione,
al suo senso sociale, e storico.
Walser ci illustra tutto il complesso di regole di cui si compone, con
un’iperbole smisurata fatta di compiti e insulse occupazioni, ciascuna studiata
e orientata a formarci nello spirito come nella morale. Essa è l’ininterrotto
esercizio di un inutile sforzo, come potrebbe esserlo il respirare a comando.
Richiede una tensione costante dei muscoli, di ogni parte senziente, per
sostare in quella posa innaturale che è la soppressione del pensiero. Come in una catena
di montaggio ci si sfinisce a far nulla, ma qui i pezzi non si incastrano a
produrre: risuonano nel vuoto, vanamente. Il solo guadagno garantito da un tale
addestramento è fatto di un genuino e forte buon senso, una bolla d’aria che si
ingoia senza accorgersene, ma sentendosene subito corroborati. Non occorre
chiedere o domandare, la norma genera da sé la retta coscienza, già satura e
neutrale, un galateo fitto di regole che sta adagiato sul liscio pavimento
dell’uguale, su quell’appoggio sicuro in cui il basso e l’alto segnano la
stessa distanza e hanno smesso di sfidarci. In questo gioco senza partita Walser
ci insegna come, per funzionare meglio, la società debba costringersi a non
funzionare affatto, articolandosi in un miliardo di colpi che non vanno a
segno, ma che non si disperdono: insieme, in una tonda equivalenza di zeri
uguali a zero, essi formano il ricco armamentario che può emendarci da ogni
difetto e immunizzarci dal rischio dell’errore, renderci cioè
indistinguibili e fieri (o stupidi), come dentro a un’uniforme.
Una educazione solida e minuziosamente impartita è il sostegno più adatto
alla fragile schiena di chi si affaccia alla vita: la società potrà urtarlo,
umiliandone il carattere e le aspirazioni, ma chi avrà avuto la fortuna di
imparare la gratitudine che viene dall’ossequio, resterà ritto sulle sue gambe,
sopporterà, quasi senza avvertirli, ogni offesa ed ogni malanno, e avanzerà
senza timori tra i sentieri più oscuri del suo cuore deserto. La provocazione,
la personalità, le passioni più profonde dell’animo, portano tutte lo stigma
del disordine, dell’aspra dissonanza. Un’altra grazia è richiesta, quella del
sonno acquiescente. Lo stesso di cui fanno mostra gli insegnanti dell’Istituto
Benjamenta. Del resto, la disciplina non ha bisogno di troppe nozioni. Serve
piuttosto che si abbiano “idee chiare”, per risuonare come uno squillo di
tromba: “sì, signor direttore!”.
Potrebbe sembrare quasi un saggio sociologico, questo lungo diario, in
parte autobiografico, che ha fatto di Walser lo scrittore che conosciamo. Non
fosse che in esso una società manca. Anzi, si direbbe che ad essere messa
in scena è proprio la sua vuota parabola. Lo stesso Walser trascorse
parte della sua vita negli istituti e per il resto conobbe il mondo solo di
passaggio. Rinchiuso o altrove, senza un posto che potesse chiamare proprio.
Tranne che nella letteratura. Possiamo immaginarlo con la stessa aria
trasognata e assorta dei suoi personaggi, mentre percorre una delle molte
strade tutte uguali di un bosco innevato, condotto in nessun luogo da una
fantasticheria intensa e formidabile: così è la sua poetica. Nulla resta sullo
sfondo in questi paesaggi, è un’immaginazione di brulicante introversione,
esibita fuori dai suoi contorni, sul filo di un’ambiguità dolente, o comica,
non ha importanza del resto: è quella promessa di felicità buona solo per i
personaggi letterari, e per qualche lieto funambolo.
Amato da Kafka, Musil e Benjamin, autore magnifico della prosa breve,
appassionato di teatro e di musica, Walser resta il cantore del margine:
apprendisti, giovani spiantati e vagabondi, sono loro a dar forma ai suoi
racconti. Sono storie fantasiose, e niente affatto surreali. Chiunque può
indovinare la materia dietro a essi. E però ogni riferimento al mondo di là è
capovolto, quantomeno trasformato, come nell’irrequietezza svogliata di
Simon Tanner, o di nuovo nella restia deferenza di Jakob von Gunten. Ritratti
semplici e sempre cangianti. Solo il risentimento non lascia traccia in questi
scritti, non è anzi affatto contemplato: “Mi sembra quasi di essere separata
dalla vita come da un diaframma sottile ma impenetrabile allo sguardo. Però non
posso essere triste per questo; posso solo rifletterci su” (R. Walser, I
fratelli Tanner, Adelphi). E sebbene manchino i caratteri dell’esemplarità,
tanto che spesso non sono che figure tratteggiate, con delle storie
trascurabili, la bellezza di questi personaggi sta nel loro generoso
donarsi, senza mistificazioni: per chi li sa guardare, insegnano a guardare.
Sono come quegli occhiali che gettano luce ancor prima di aver fugato l’ombra:
non si vede meglio, non s’accumulano dettagli più nitidi. Tutto è bianco lì
fuori, e non resta che incamminarsi.
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