Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è
giapponese.
La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca.
Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi.
Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero5.
La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca.
Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi.
Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero5.
Costruire diversità
«Io è l’altro» scriveva Arthur Rimbaud, forzando non solo la sintassi, ma
anche l’idea di unità e di integrità dell’individuo, dell’io. Un io che
vedrebbe sgretolarsi quel guscio immaginario su cui costruiamo la nostra idea
di unità e di unicità, per riconfigurarsi come il risultato di uno scambio,
di un intreccio continuo e costante, che viene dal passato e
che continua nel presente. Per Rimbaud il soggetto era io, ma
potremmo declinarlo al plurale in noi, per scoprire che anche
questo noi, che spesso ci piace pensare come “naturale” e sul quale
spesso costruiamo narrazioni, ideologie e finanche politiche identitarie, è
invece un prodotto della storia e non della natura. Una
storia fatta innanzitutto con i piedi. Può apparire come una battuta, ma
non è così: a sostenerlo è il grande paleontologo e antropologo André
Leroi-Gourhan, quando scrive: «Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa, ma
non di essere cominciati dai piedi»6. È grazie ai piedi che i
nostri antichi antenati Sapiens hanno abbandonato la conca di
Afar (Etiopia) per colonizzare l’intero pianeta; è grazie ai piedi che hanno
incontrato sui loro cammini ambienti, climi, condizioni nuove che ponevano
nuove domande a cui dare risposte: così sono nate le prime differenze
culturali; ed è ancora grazie ai piedi che gli esseri umani si sono incontrati
e scontrati, scambiandosi idee e geni, al punto che se oggi gli scienziati
possono affermare l’inconsistenza dell’idea di razza applicata al genere umano,
poiché ciascuno di noi possiede un corredo genetico estremamente vario,
possiamo altrettanto affermare che anche ogni cultura rivela in sé una più o
meno grande varietà di elementi venuti dall’esterno, dall’altro.
Non esiste nessun noi definito in natura, così come non
esiste nessun altro, ma solo la costruzione che ogni gruppo umano
fa di ciò che per qualche motivo, in qualche forma reputa diverso. Quella che
consideriamo essere la nostra comunità naturale è spesso il frutto di una
narrazione, nemmeno sempre veritiera. In molti casi si tratta di quelle che
Jean Pouillon chiama «retro-proiezioni camuffate», per poi concludere che: «le
società che si dicono moderne non sono società che si disfano del loro passato,
esse lo manipolano in funzione dei loro bisogni presenti»7. Grazie a tali narrazioni si può
anche giungere a ipotizzare un popolo o una nazione, come scrive il
medievalista Walter Pohl, «senza che nella lingua, nella cultura o addirittura
nella discendenza, nel “sangue” degli uomini, sia cambiato qualcosa. Soltanto
una cosa è cambiata: la storia, o più precisamente l’immagine che gli uomini si
costruiscono della loro storia»8. Come nel 1984 orwelliano
si manipola il passato in funzione del presente.
Gli antichi greci chiamavano barbari coloro che non sapevano parlare bene
la lingua greca, gli stranieri, i lugbara dell’Uganda definiscono gli stranieri
“gente che cammina a testa in giù”, mentre la maggior parte degli etnonimi, i
nomi che ogni popolazione si attribuisce, significa “gli uomini”, “i
guerrieri”, “i migliori”, il che indica la tendenza etnocentrica di ogni
società a pensarsi migliore e a pensare gli altri meno coraggiosi, peggiori,
meno uomini se non, addirittura, non uomini.
Coma ha illustrato Benedict Anderson, ogni gruppo umano che vada al di là
della ristretta comunità in cui i rapporti sono “face to face” è una comunità
immaginata9. Immaginata in quanto il senso di
appartenenza che si prova per il proprio popolo, la propria nazione o nei
confronti di qualunque altro gruppo o aggregazione, non importa basata su cosa,
si fonda non sulla conoscenza diretta di tutti gli altri componenti del gruppo,
ma sull’idea che essi condividano con noi una serie di tratti che ci accomunano
e ci rendono unici. È da questo che nasce l’idea del noi, da una
presunta specificità che ci distingue dagli altri, da coloro che per qualche
motivo sono o, in molti casi, reputiamo essere diversi da noi. Perché, come
afferma Ernest Renan a proposito della nazione, per costruire
un’identità occorre una forte dose di memoria, ma anche una altrettanto forte
dose di oblio: «L’oblio, e dirò persino l’errore storico costituiscono un
fattore essenziale nella creazione di una nazione […]. Ora l’essenza di una
nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio
comune, ma anche nel fatto che tutti abbiano dimenticato molte altre cose.
Nessun cittadino francese sa se è Burgundo, Alano, Visigoto; ogni cittadino
francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo, i massacri del XIII
secolo nel Sud»10.
Dobbiamo minimizzare, se non scordare, ciò che ci unisce ed enfatizzare
quanto invece, del nostro passato, ci divide. Oppure accettare, come sostengono
Julian S. Huxley e Alfred C. Haddon, che «una nazione è una società unita da un
errore comune riguardo alle proprie origini e da una comune avversione nei
confronti dei vicini»11. Quei vicini che sono
sempre altri, ma è sempre così? Gli altri sono
davvero sempre e in tutto e per tutto diversi da noi?
Altro, other (inglese), autre (francese), otro (spagnolo), ander (tedesco),
ciascuno di questi termini rimanda a una dimensione che non ci è consueta, e
spesso l’altro è uno straniero, termine che condivide la radice con strano,
fuori dal comune, dalla norma e dalla normalità. Da altro derivano
anche il verbo alterare, rendere diverso, cambiare e la sua
coniugazione intransitiva alterarsi, cambiare di umore. In entrambi
i casi il significato è quasi sempre peggiorativo, indica un’uscita
dagli schemi della routine, da quella pericolosa abitudine che siamo soliti
pensare come naturale e nei confronti della quale ci metteva già in guardia il
buon Michel de Montaigne, perché essa: «è in verità una maestra di scuola
imperiosa e ingannatrice […] ci si manifesta con un viso furioso e tirannico,
sul quale noi non siamo più liberi neppure di alzare gli occhi. La vediamo ad
ogni momento forzare le regole di natura»12.
Altro è affine al latino ultra, al di là, ha la stessa radice
di altrove, suo corrispettivo spaziale di cui tratterà nel saggio
seguente Davide Papotti, e ha in comune la radice con alias, che in
latino significa altrimenti, ma che nel parlare comune si usa per
indicare un modo alternativo di chiamare una cosa o una persona. Il
nostro alias siamo noi, quando vogliamo apparire con
un’immagine diversa. Un cambiamento di nome, quindi non di sostanza, quasi ad
ammettere, sottovoce, che forse Rimbaud aveva ragione.
Separare per riunire
«Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne produce un tipo
particolare, secondo modalità uniche e irripetibili».
Sembra una parafrasi dell’incipit tolstojano di Anna Karenina,
ma queste parole di Zygmunt Bauman mettono in evidenza il processo di
produzione dello straniero come individuo che oltrepassa quei confini che
abbiamo creato e che talvolta mal sopportiamo. Si definisce «straniero»
– continua Bauman – chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche
del mondo e con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere
trasparente13.
Costruire l’altro, il diverso, è fondamentale per definire chi siamo noi o
meglio chi vogliamo essere, in che modo vogliamo apparire. Qualsiasi processo
di formazione di una identità collettiva si fonda su due operazioni
fondamentali e complementari: per definire, “recintare” il noi collettivo,
occorre tracciare una linea chiusa, che includa chi pensiamo debba fare parte
della nostra comunità, allo stesso modo questo gesto comporta una separazione.
Infatti, nel tracciare quella linea, noi “ritagliamo” il limite, la barriera, oltre
il quale inizia il diverso, l’altro da noi. L’identità non è pertanto
un dato ascritto, come sostengono i fautori delle “radici”, ma il prodotto di
una costruzione di tipo relazionale: per essere qualcuno o qualcosa, ho bisogno
del diverso. Solo così possiamo definirci.
Lo ha raccontato magistralmente, con la forza dei suoi versi, il poeta
greco Kostantinos Kavafis nella sua poesia Aspettando i barbari, in
cui descrive un’intera città con i suoi nobili, i sovrani, i dignitari di corte
che indossano i loro abiti migliori per accogliere i barbari che, si dice,
stiano arrivando. Hanno anche preparato i loro discorsi migliori, ma questi
stranieri non si fanno vedere. La poesia si conclude in modo disperato: «E ora,
che sarà di noi senza barbari? / Erano una soluzione quella gente».
I barbari servono a darci la misura della nostra presunta misura, senza di
loro non possiamo dirci civili. Ecco perché si tracciano confini,
si creano barriere: per definire il noi. Un noi che
per essere percepito come buono, spesso necessita di un altro cattivo.
È questo il meccanismo che sta alla base delle accuse di stregoneria:
identificare un nemico, un colpevole per spostare fuori dalla nostra comunità
la minaccia, incanalare verso l’esterno le pulsioni potenzialmente disgreganti
e pensarci finalmente buoni.
In un suo libro Umberto Eco racconta un curioso aneddoto: durante un
viaggio negli Stati Uniti, sale su un taxi guidato da un autista pakistano, con
il quale inizia a chiacchierare. Il taxista gli chiede da dove viene, dove si trova
l’Italia e, una volta chiaritesi le idee, gli domanda: «Qual è il vostro
nemico?». Eco rimane sorpreso dalla domanda. Già, si chiede, noi italiani
abbiamo un nemico? Altrettanto sorpreso rimane il taxista pakistano
nell’apprendere che esiste una nazione che non ha un nemico storico. Sarà
forse, dice Eco, perché abbiamo fin troppi nemici al nostro interno, «Però,
riflettendo meglio su quell’episodio, mi sono convinto che una delle disgrazie
del nostro paese, negli ultimi sessant’anni, è stata proprio quella di non
avere avuto veri nemici»14.
Il saggio di Eco prosegue inanellando una serie di citazioni storiche e
letterarie, che ci mostrano come si possa costruire il nemico in modi diversi:
per esempio sfruttando la diversità dello straniero, magari accentuandola,
perché «avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità
ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro
sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro»15.
In effetti, per aumentare la coesione di una comunità, in molti casi occorre
non soltanto evidenziarne gli elementi comuni, ma anche enfatizzare le
differenze rispetto agli altri. Questi altri vanno creati, modellati fino a
essere funzionali al progetto. Un altro ben costruito è
fondamentale, per cementare gli individui e per definire i confini del noi.
In molti casi l’immagine che ci facciamo degli altri non si fonda tanto
sulla reale conoscenza, ma sullo stereotipo. Lo stereotipo in fondo
è la declinazione retorica della caricatura: il disegnatore coglie un tratto
caratterizzante di un individuo, lo esaspera e riduce l’individuo a
quell’aspetto (un naso enorme, un seno accentuato ecc.); allo stesso modo lo
stereotipo riduce un individuo o una società ai suoi tratti che si presumono
essere caratteristici. Ogni stereotipo comporta comunque una distorsione
dell’immagine che non sempre volge al negativo: nel corso del seminario si è
parlato del turismo contemporaneo e dell’immaginario in cui i turisti si
muovono. Il viaggio è incontro, ma tale incontro,
a causa della brevità e della mancanza di tempo, spesso risulta essere viziato
o interrotto da equivoci, malintesi, e dalle aspettative precostruite con cui
tutti noi viaggiamo. Insieme con gli abiti, le medicine, le guide, il bagaglio
del turista contiene anche la sua visione del luogo e delle persone che sta per
incontrare16. Una visione che in questo caso
si tinge spesso di esotismo, altro modo, non cruento, di dare vita
a una diversità.
Questo tracciare confini per costruire identità separate finisce per dare
vita all’immagine che ogni società, ogni cultura sia una entità chiusa, pura,
incontaminata, legata indissolubilmente alle sue origini che ne
determinerebbero la specificità. In realtà dovremmo pensare alle
culture come a realtà in movimento, che si influenzano continuamente l’una con
l’altra. Se di divisioni vogliamo parlare, allora facciamolo in termini
di frontiera più che di confini. Nel parlare
comune raramente si evidenzia la differenza tra “confine” e “frontiera”, due
termini che vengono spesso usati come sinonimi, quando il primo indicherebbe un
limite da non valicare, mentre la frontiera richiama non una linea, ma una
fascia di territorio dove due diversità “si fanno fronte”, si incontrano. Il
confine è rigido, la frontiera fluttuante. Come scrive Franco La Cecla:
«Le frontiere sono il “faccia a faccia” tra due compagini, due culture, due
paesi […]. Le frontiere dovrebbero essere il luogo dove il confronto sostituisce
lo scontro, dove la relazione può essere appagata nella indifferenza della
terra di nessuno o nella differenza delle demarcazioni oltre le quali si trova
l’altro, lo straniero a noi»17.
Accade poi che queste diverse identità culturali, nonostante siano il
prodotto di una costruzione storica e di sguardi incrociati, vengano pensate
come naturali. Uno degli insegnamenti dell’antropologia è:
diffidare dall’idea di naturalezza, ciò che spesso ci appare naturale, in
realtà è solo il prodotto di abitudini consolidate nel tempo. Credere che ciò
che ci è consueto sia naturale può indurre a pensare che tutto
ciò che differisce non lo sia. Un’idea che è spesso madre dell’etnocentrismo e
che porta e vedere nel diverso una condizione inferiore, di barbarie. Lo aveva
già intuito Montaigne, quando scriveva: «Io ritengo che non vi è nulla di
barbaro e di selvaggio in quelle popolazioni […]. La realtà è che ognuno definisce
barbarie quello che non è nei suoi usi»18.
Due secoli dopo, Montesquieu inventava dei persiani in visita a Parigi per
innescare quel senso di spaesamento e di sguardo sull’alterità scevro dai
condizionamenti dell’abitudine, che serve a collocare gli usi di una comunità
nella mappa delle comunità tutte. Quei persiani ci osservano con occhi
stranieri, si stupiscono, provano meraviglia e disagio, ammirano e criticano
l’Occidente. Montesquieu utilizza i loro occhi disincantati e
stupiti a un tempo per esprimere, con sarcasmo e ironia, le sue critiche alla
nostra società. Così fa scrivere da uno di loro:
Il re di Francia è il principe più potente d’Europa. Non possiede miniere
d’oro come il re di Spagna suo vicino, ma ha più ricchezze di lui, perché le
ricava dalla vanità dei suoi sudditi, più inesauribile delle miniere […].
D’altronde questo re è un gran mago: esercita il suo potere anche sullo spirito
dei suoi sudditi, li fa pensare come vuole. Se nel suo tesoro c’è solo un
milione di scudi e gliene occorrono due, gli basta persuaderli che uno scudo ne
vale due, ed essi ci credono […]. Quanto ti dico di questo principe non deve
stupirti: c’è un altro grande mago più potente di lui, il quale domina sul suo
spirito non meno di quanto egli domini su quello degli altri. Questo mago, che
si chiama papa, ora gli fa credere che tre è uguale a uno, che il pane che
mangia non è pane, che il vino non è vino, e mille altre cose del genere19.
Ironico, ma mai arrogante, questo è lo spirito di Montesquieu e dei suoi
amici orientali. «Mi pare, Usbek, che noi giudichiamo le cose sempre in base a
un riferimento segreto a noi stessi. Non mi sorprende che i negri dipingano il
diavolo di un candore abbagliante e i loro déi neri come il carbone […]. È
stato detto molto bene che, se i triangoli si facessero un dio, gli darebbero
tre lati»20. Come ha scritto Claude Lévi-Strauss:
«il barbaro è anzitutto l’uomo che crede alla barbarie»21.
Cultura come fondamentalismo
Le identità, scrive Zygmunt Bauman, sono un grappolo di problemi più che
una questione unica: «ci si rivelano unicamente come qualcosa che va inventato
piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un “obiettivo”,
qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare tra offerte
alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto
attraverso altre lotte ancora»22. Sebbene la maggior parte
degli studiosi sociali si trovi d’accordo nel sostenere che le identità sono un
prodotto culturale, assistiamo a guerre, lotte, scontri politici in nome di
queste identità. Fasulle e inventate finché si vuole, ma attive sul piano
pratico. Non basta dire «è una costruzione culturale, non c’è nulla di
radicato, di assoluto, di dato» e rimanere a guardare. Fuori dalle aule
accademiche la pratica sembra correre su un binario parallelo a quello della
teoria.
Se da un lato possiamo affermare che non riscontriamo un’essenza
dell’identità, dall’altro non possiamo che constatare l’esistenza di una
pratica dell’identità. Sia che costituisca un elemento di attacco, sia che
serva a difendersi. Questa pratica si fonda su quello che Verena Stolcke ha
brillantemente definito, in un saggio su confini e retoriche d’esclusione
nell’Europa contemporanea, «fondamentalismo culturale»23. Il processo di unificazione del
vecchio continente opera contemporaneamente su due versanti: da un lato i
confini interni diventano via via più permeabili, dall’altro quelli esterni si
irrigidiscono sempre di più escludendo gli altri, gli
extracomunitari.
Al di là di ogni considerazione politica e morale, è inevitabile registrare
un crescente sentimento popolare di astio nei confronti degli immigrati,
alimentato dalla semplificazione (per non dire menzogna) secondo cui tutti i
mali verrebbero dalla presenza degli stranieri in quanto portatori di una
cultura diversa che minerebbe i nostri valori. A questo segue spesso
un’enfatizzazione del problema, presentato su scala maggiore rispetto ai dati
reali. In questo modo molti governanti europei tentano di celare dietro un
problema di incompatibilità culturale i disagi socio-economici derivati dalla
recessione e dagli aggiustamenti capitalistici che si fanno sempre più estremi.
Noi saremmo, pertanto, «la misura del benessere che “loro” minacciano di
distruggere perché sono stranieri e culturalmente differenti»24. Ne segue una visione
secondo la quale gli individui preferirebbero vivere tra i loro simili
piuttosto che in una società multiculturale, in quanto questa propensione
sarebbe naturale. Sebbene nessun teorico della xenofobia sia in
grado di spiegarne le cause, si dà per scontato che le persone abbiano una
naturale propensione a temere e rifiutare gli stranieri perché diversi. Una
visione molto utile a nascondere le cause socio-economiche che spesso stanno
alla base delle tensioni.
Ci sono molti modi di pensare l’altro, ma sostanzialmente c’è una
linea che divide due possibilità di costruire la diversità. Una linea che
percorre il confine, questa volta sì, netto, tra la revocabilità e
l’irrevocabilità della sua condizione. Abbiamo detto che i greci si
distinguevano dai barbari, ma se un barbaro imparava bene il greco e i costumi
della polis, poteva diventare un vero greco. Anche per gli antichi
romani valeva la stessa regola, tanto è vero che più di un imperatore era
straniero. Uno su tutti Adriano, nato in Spagna. Tanto per gli uni quanto per
gli altri ci si poteva emancipare da una condizione di estraneità, se non di
inferiorità. Questo perché la divisione veniva operata su un piano culturale
e tutto ciò che è culturale prevede la possibilità di scegliere e quindi di
cambiare.
Del tutto diversa la situazione quando il dibattito si sposta sul piano
della natura, dove ogni scelta diventa impossibile: in natura le cose hanno un
destino segnato, prevedibile. È questo il cammino che conduce al razzismo,
quello che prelude alle peggiori soluzioni.
Apparentemente, però, l’elemento di incompatibilità delle moderne politiche
dell’esclusione non è più la razza, ma la cultura. Quasi un ritorno
al passato. Nell’antichità, infatti, l’esclusione dall’Europa si fondava non
sulla razza, ma sulla religione: via gli infedeli che potevano minacciare
l’egemonia cristiana. Il razzismo scientifico del XIX secolo ha tentato
di legittimare le differenze sulla base della natura biologica. Oggi, il
problema del diverso da allontanare si sposta dal piano, ormai inaccettabile,
della razza intesa in senso genetico, a quello culturale, permettendo alla
destra xenofoba di ricostruirsi una rispettabilità politica. La volontà di
epurazione rimane, ma in questo caso abbiamo un razzismo senza razza. Una
nuova forma, quella che Paul Mercier ha definito «supertribalizzazione»25, un’espressione che pare assai
adatta a rappresentare quella forzatura etnico-culturale avviata dalle molte
élite politiche, che caratterizza numerosi movimenti attuali. La minaccia di
contaminazione non viene più applicata alla stirpe, ma alla cultura che, in
questa retorica fondamentalista, diventa sempre più solida, tangibile,
uniforme.
Etnia, identità, cultura sono diventati slogan, branditi da politici in
cerca di elettorato, che puntano sul “locale” e sui localismi, visti come
estrema difesa dall’invasione straniera. Ritorna così in voga l’immagine di una
presunta purezza culturale, da difendere dalle contaminazioni (da notare il
carico di negatività che accompagna questo termine di ambito medico) portate
dagli stranieri. Un’immagine che presupporrebbe una sorta di grado zero a cui fissare i
limiti oggettivi di ogni cultura, letta come unità indivisibile, unica e
impermeabile ad apporti esterni e pertanto contrapposta a tutto ciò che è
altro. Culture come gabbie, quindi, nelle quali gli individui sarebbero
costretti dalla nascita e dalle quali sarebbe impossibile evadere.
Una visione che si rivela attraverso le espressioni “scontro di culture” e,
suo corrispettivo simmetrico, “incontro di culture”, diventate slogan abusati e
buoni per ogni situazione. In realtà nessuno ha mai visto delle culture
scontrarsi o incontrarsi, a farlo sono donne, uomini, bambini, non culture e
ogni individuo incontra nella sua vita opzioni tra cui poter scegliere in
numero diverso a seconda della sua storia. Perché allora ingabbiare gli altri con
etichette identitarie create da noi? Come sostiene Eric Wolf:
«È un errore considerare l’emigrante come il portatore o il protagonista di
una cultura omogeneamente integrata che egli può mantenere o rifiutare nel suo
complesso […]. Non è più difficile per uno zulù o per un hawaiano imparare o
disimparare una cultura di quanto non lo sia per un abitante della Pomerania o
della Cina»26.
Il fondamentalismo culturale tende invece a presentare come naturali le
cause degli scompensi e delle discriminazioni socio-economiche esistenti tra
gli individui. Se pensiamo a tali squilibri come naturali, ci viene anche più
facile accettare che siano irrisolvibili (non possiamo sfidare la natura!).
Naturalizzare le forme culturali più distanti dalla nostra, scrive Pierre-André
Taguieff, implica però la disumanizzazione dell’altro27.
Fissare il movimento
«“Alla mia età, e con tanto di quel sangue mescolato, non so più con
sicurezza di dove sono” disse Delaura, “Né chi sono”. “Nessuno lo sa in questi
regni” disse Abrenuncio, “E credo che ci vorranno secoli per saperlo”»28.
Questo malinconico dialogo tra due personaggi di Gabriel García Márquez
riassume in modo intenso ed evocativo la tensione tra la ricerca di un’origine
certa, un punto zero della nostra cultura, a cui spesso attribuiamo il termine
identità, e il groviglio storico, culturale, sociale che la realtà propone
quotidianamente e a cui si tenta di dare ordine, con la creazione di contenitori,
utili a creare confini, limiti, divisioni, come ad arginare la presunta paura
di dissolversi in un magma indefinito oppure di essere “contaminati” dall’altro.
La realtà, oggi come in passato, non è costruita su opposti ben definiti,
facili da contrapporre, soprattutto per chi vuole trarre qualche vantaggio da
tali situazioni conflittuali. Ci troviamo di fronte, invece, a una sequenza di
quelle «immagini in movimento che incrociano spettatori deterritorializzati» di
cui parla Arjun Appadurai nel suo libro Modernità in polvere29. Il titolo italiano restituisce
ottimamente il senso dell’ambiguo gioco di parole che sta alla base
dell’originale: Modernity at large. “At large” significa infatti
“nel suo insieme”, ma anche “alla macchia”, “dispersa”. Per quale motivo,
dunque, questa modernità è in polvere o in fuga? Perché sono saltati i
confini che determinavano territori, culture, società. Perché oggi la realtà
è fatta di lavoratori turchi emigrati in Germania, che guardano film turchi nei
loro appartamenti tedeschi, di filippini appassionati di canzoni americane
d’epoca che ripropongono in versioni più “autentiche” degli originali,
nonostante la loro vita non sia affatto sincronizzata con quella degli Stati
Uniti. Perché, ci dice Appadurai, la globalizzazione ha prodotto una
frattura tra il luogo di produzione di una cultura e quello o quelli della sua
fruizione. L’immaginazione, grazie alla sempre maggiore rapidità e
onnipresenza dei mass media, è divenuta un fatto collettivo e si è
trasformata in un campo organizzato di pratiche sociali. Ne consegue una
frammentazione di universi culturali che mette in crisi ogni paradigma
tradizionale delle scienze sociali. I panorami sociali, etnici, culturali,
politici ed economici si fanno sempre più confusi e sovrapposti, le linee di
confine spezzettate e irregolari. Ma soprattutto questi panorami, attraversati
da continui flussi culturali globali, si riflettono l’uno nell’altro dando vita
a un caleidoscopio mutevole e sempre nuovo.
Appadurai riprende l’immagine proposta da Benedict Anderson secondo il
quale, grazie al «capitalismo-a-stampa» – cioè la diffusione, su scala
industriale, dell’editoria – e alla conseguente alfabetizzazione di
massa, e successivamente al capitalismo elettronico, è stata
possibile la creazione di quelle che lui ha definito «comunità immaginate»,
cioè gruppi di persone che non hanno mai interagito faccia a faccia, ma che
finiscono per condividere un’idea comune come, per esempio, il pensarsi
indonesiani, pur essendo lontani dall’Indonesia30.
La deterritorializzazione è una caratteristica del mondo moderno che, unita
alla sempre maggiore circolazione di informazioni, dà vita a una serie di
immaginari ogni volta più complessi, di ideologie e abitudini universali delle
quali si appropriano le comunità locali trasformandole in qualcosa che spesso risulta
diverso dall’originale. Caso esemplare è quello, riportato da Appadurai, del
cricket, che, dopo essere stato portato nell’India coloniale, ha via via perso
il suo status aristocratico di gioco delle classi agiate
inglesi per diventare, anche grazie all’azione dei media, un vero e
proprio simbolo dell’India popolare attuale. E il cricket giocato oggi dagli ex
figli dell’impero non è semplicemente un prodotto d’importazione, ma fa
riferimento a un universo morale tutto indiano.
Questa riflessione mette in evidenza come, al di là delle tre dimensioni
dello spazio e di quella del tempo che caratterizzano la nostra vita
«biologica», sia in una «quinta dimensione» – quella dell’immaginazione – che
l’umanità prende forma. Si tratta di quella «finzione» costruttiva
(poietica) di cui parla Francesco Remotti31 e che sta alla base della
costruzione dell’umanità. Umanità che spesso nasce non da realtà oggettive, ma
da un progetto comune, i cui fondamenti non sono per forza oggettivamente
riconoscibili, quantificabili e tantomeno coerenti con la storia della comunità
che vi si identifica.
Al disagio dello spazio tradizionale corrisponde anche una nuova concezione
temporale, spesso nata dalla pratica del consumo, che pur rimanendo
legata alle pratiche del corpo è oggi inserita in una sorta di bagno globale a
cui deve riferirsi. Ogni oggetto (di consumo o meno) ha una propria biografia
culturale legata alla cultura che lo ha prodotto, ma quando di quell’oggetto si
impadroniscono nuovi attori la sua biografia non coincide talvolta con la
storia di questi attori, e occorre pertanto rimodellarlo a proprio uso e
consumo. Il passato, ci dice ancora Appadurai, da spazio d’azione per la
memoria è diventato un deposito sincronico di scenari culturali, una specie di
archivio culturale del tempo cui fare ricorso come meglio si crede32.
Questa diaspora mondiale crea nuovi mercati i quali, a loro volta, creano
nuovi bisogni e nuovi gusti che nascono dalla necessità – da parte dei
fuoriusciti – di mantenere un contatto con la madrepatria, anche se talvolta
questa patria risulta inventata. Infatti, la cosiddetta globalizzazione non si
realizza con un’invasione indifferenziata di elementi comuni che conducono alla
omogeneizzazione. Il processo è più articolato e tali strumenti vengono
riproposti di volta in volta in discorsi che si basano sulle diverse sovranità
nazionali o locali.
Viviamo in un mondo «di opec, asean, Things Fall Apart,
e di Tongani che giocano contro i Washington Redskins», sostiene Clifford Geertz,
un mondo che «ha ancora i suoi compartimenti stagni, ma i passaggi fra di loro
sono molto più numerosi e meno attentamente protetti»33. A questa fluidità del quotidiano
si contrappone la natura stabilizzante dei poteri costituiti. Così come
i governi di più o meno tutte le parti del mondo detestano i nomadi, avviando
sistematiche azioni di sedentarizzazione se non di eliminazione, analogamente
temono e diffidano dei “nomadi culturali”, di chi non si pone in modo netto,
tale da essere facilmente classificato.
5. Da un manifesto tedesco degli anni
novanta del Novecento.
6. Leroi-Gourhan 1977, p. 78.
7. Pouillon 1975, p. 160 (cfr.
anche Pouillon 1977).
8. Pohl 2000, p. 2.
9. Anderson 1996.
10. Renan 1993, pp. 7-8.
11. Huxley-Haddon 2002, p. 15.
12. Montaigne 1986, p. 127.
13. Bauman 1999, p. 55.
14. Eco 2011, p. 10.
15. Eco 2011, p. 10.
16. Aime 2005.
17. La Cecla 2003, pp. 133-134.
18. Montaigne 1986, p. 231.
19. Montesquieu 2000, p. 94.
20. Montesquieu 2000, p. 141.
21. Lévi-Strauss 1967, p. 106.
22. Bauman 2003, p. 13.
23. Stolcke 1995.
24. Stolcke 1995, p. 3.
25. Mercier 1961, p. 64.
26. Wolf 1990, p. 502.
27. Taguieff 1999, p. 11.
28. García Márquez 1994, p. 156.
29. Appadurai 2012.
30. Anderson 1996.
31. Remotti 1996, p. 23.
32. Appadurai 1986.
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