venerdì 22 maggio 2020

L’altro - Marco Aime




Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese.
La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca.
Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi.
Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero5.

Costruire diversità
«Io è l’altro» scriveva Arthur Rimbaud, forzando non solo la sintassi, ma anche l’idea di unità e di integrità dell’individuo, dell’io. Un io che vedrebbe sgretolarsi quel guscio immaginario su cui costruiamo la nostra idea di unità e di unicità, per riconfigurarsi come il risultato di uno scambio, di un intreccio continuo e costante, che viene dal passato e che continua nel presente. Per Rimbaud il soggetto era io, ma potremmo declinarlo al plurale in noi, per scoprire che anche questo noi, che spesso ci piace pensare come “naturale” e sul quale spesso costruiamo narrazioni, ideologie e finanche politiche identitarie, è invece un prodotto della storia e non della naturaUna storia fatta innanzitutto con i piedi. Può apparire come una battuta, ma non è così: a sostenerlo è il grande paleontologo e antropologo André Leroi-Gourhan, quando scrive: «Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa, ma non di essere cominciati dai piedi»6È grazie ai piedi che i nostri antichi antenati Sapiens hanno abbandonato la conca di Afar (Etiopia) per colonizzare l’intero pianeta; è grazie ai piedi che hanno incontrato sui loro cammini ambienti, climi, condizioni nuove che ponevano nuove domande a cui dare risposte: così sono nate le prime differenze culturali; ed è ancora grazie ai piedi che gli esseri umani si sono incontrati e scontrati, scambiandosi idee e geni, al punto che se oggi gli scienziati possono affermare l’inconsistenza dell’idea di razza applicata al genere umano, poiché ciascuno di noi possiede un corredo genetico estremamente vario, possiamo altrettanto affermare che anche ogni cultura rivela in sé una più o meno grande varietà di elementi venuti dall’esterno, dall’altro.
Non esiste nessun noi definito in natura, così come non esiste nessun altro, ma solo la costruzione che ogni gruppo umano fa di ciò che per qualche motivo, in qualche forma reputa diverso. Quella che consideriamo essere la nostra comunità naturale è spesso il frutto di una narrazione, nemmeno sempre veritiera. In molti casi si tratta di quelle che Jean Pouillon chiama «retro-proiezioni camuffate», per poi concludere che: «le società che si dicono moderne non sono società che si disfano del loro passato, esse lo manipolano in funzione dei loro bisogni presenti»7. Grazie a tali narrazioni si può anche giungere a ipotizzare un popolo o una nazione, come scrive il medievalista Walter Pohl, «senza che nella lingua, nella cultura o addirittura nella discendenza, nel “sangue” degli uomini, sia cambiato qualcosa. Soltanto una cosa è cambiata: la storia, o più precisamente l’immagine che gli uomini si costruiscono della loro storia»8. Come nel 1984 orwelliano si manipola il passato in funzione del presente.
Gli antichi greci chiamavano barbari coloro che non sapevano parlare bene la lingua greca, gli stranieri, i lugbara dell’Uganda definiscono gli stranieri “gente che cammina a testa in giù”, mentre la maggior parte degli etnonimi, i nomi che ogni popolazione si attribuisce, significa “gli uomini”, “i guerrieri”, “i migliori”, il che indica la tendenza etnocentrica di ogni società a pensarsi migliore e a pensare gli altri meno coraggiosi, peggiori, meno uomini se non, addirittura, non uomini.

Coma ha illustrato Benedict Anderson, ogni gruppo umano che vada al di là della ristretta comunità in cui i rapporti sono “face to face” è una comunità immaginata9. Immaginata in quanto il senso di appartenenza che si prova per il proprio popolo, la propria nazione o nei confronti di qualunque altro gruppo o aggregazione, non importa basata su cosa, si fonda non sulla conoscenza diretta di tutti gli altri componenti del gruppo, ma sull’idea che essi condividano con noi una serie di tratti che ci accomunano e ci rendono unici. È da questo che nasce l’idea del noi, da una presunta specificità che ci distingue dagli altri, da coloro che per qualche motivo sono o, in molti casi, reputiamo essere diversi da noi. Perché, come afferma Ernest Renan a proposito della nazione, per costruire un’identità occorre una forte dose di memoria, ma anche una altrettanto forte dose di oblio: «L’oblio, e dirò persino l’errore storico costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione […]. Ora l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune, ma anche nel fatto che tutti abbiano dimenticato molte altre cose. Nessun cittadino francese sa se è Burgundo, Alano, Visigoto; ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo, i massacri del XIII secolo nel Sud»10.
Dobbiamo minimizzare, se non scordare, ciò che ci unisce ed enfatizzare quanto invece, del nostro passato, ci divide. Oppure accettare, come sostengono Julian S. Huxley e Alfred C. Haddon, che «una nazione è una società unita da un errore comune riguardo alle proprie origini e da una comune avversione nei confronti dei vicini»11. Quei vicini che sono sempre altri, ma è sempre così? Gli altri sono davvero sempre e in tutto e per tutto diversi da noi?
Altroother (inglese), autre (francese), otro (spagnolo), ander (tedesco), ciascuno di questi termini rimanda a una dimensione che non ci è consueta, e spesso l’altro è uno straniero, termine che condivide la radice con strano, fuori dal comune, dalla norma e dalla normalità. Da altro derivano anche il verbo alterare, rendere diverso, cambiare e la sua coniugazione intransitiva alterarsi, cambiare di umore. In entrambi i casi il significato è quasi sempre peggiorativo, indica un’uscita dagli schemi della routine, da quella pericolosa abitudine che siamo soliti pensare come naturale e nei confronti della quale ci metteva già in guardia il buon Michel de Montaigne, perché essa: «è in verità una maestra di scuola imperiosa e ingannatrice […] ci si manifesta con un viso furioso e tirannico, sul quale noi non siamo più liberi neppure di alzare gli occhi. La vediamo ad ogni momento forzare le regole di natura»12.
Altro è affine al latino ultra, al di là, ha la stessa radice di altrove, suo corrispettivo spaziale di cui tratterà nel saggio seguente Davide Papotti, e ha in comune la radice con alias, che in latino significa altrimenti, ma che nel parlare comune si usa per indicare un modo alternativo di chiamare una cosa o una persona. Il nostro alias siamo noi, quando vogliamo apparire con un’immagine diversa. Un cambiamento di nome, quindi non di sostanza, quasi ad ammettere, sottovoce, che forse Rimbaud aveva ragione.

Separare per riunire
«Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne produce un tipo particolare, secondo modalità uniche e irripetibili».
Sembra una parafrasi dell’incipit tolstojano di Anna Karenina, ma queste parole di Zygmunt Bauman mettono in evidenza il processo di produzione dello straniero come individuo che oltrepassa quei confini che abbiamo creato e che talvolta mal sopportiamo. Si definisce «straniero» – continua Bauman – chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo e con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente13.
Costruire l’altro, il diverso, è fondamentale per definire chi siamo noi o meglio chi vogliamo essere, in che modo vogliamo apparire. Qualsia­si processo di formazione di una identità collettiva si fonda su due operazioni fondamentali e complementari: per definire, “recintare” il noi collettivo, occorre tracciare una linea chiusa, che includa chi pensiamo debba fare parte della nostra comunità, allo stesso modo questo gesto comporta una separazione. Infatti, nel tracciare quella linea, noi “ritagliamo” il limite, la barriera, oltre il quale inizia il diverso, l’altro da noi. L’identità non è pertanto un dato ascritto, come sostengono i fautori delle “radici”, ma il prodotto di una costruzione di tipo relazionale: per essere qualcuno o qualcosa, ho bisogno del diverso. Solo così possiamo definirci.
Lo ha raccontato magistralmente, con la forza dei suoi versi, il poeta greco Kostantinos Kavafis nella sua poesia Aspettando i barbari, in cui descrive un’intera città con i suoi nobili, i sovrani, i dignitari di corte che indossano i loro abiti migliori per accogliere i barbari che, si dice, stiano arrivando. Hanno anche preparato i loro discorsi migliori, ma questi stranieri non si fanno vedere. La poesia si conclude in modo disperato: «E ora, che sarà di noi senza barbari? / Erano una soluzione quella gente».
I barbari servono a darci la misura della nostra presunta misura, senza di loro non possiamo dirci civili. Ecco perché si tracciano confini, si crea­no barriere: per definire il noi. Un noi che per essere percepito come buono, spesso necessita di un altro cattivo. È questo il meccanismo che sta alla base delle accuse di stregoneria: identificare un nemico, un colpevole per spostare fuori dalla nostra comunità la minaccia, incanalare verso l’esterno le pulsioni potenzialmente disgreganti e pensarci finalmente buoni.
In un suo libro Umberto Eco racconta un curioso aneddoto: durante un viaggio negli Stati Uniti, sale su un taxi guidato da un autista pakistano, con il quale inizia a chiacchierare. Il taxista gli chiede da dove viene, dove si trova l’Italia e, una volta chiaritesi le idee, gli domanda: «Qual è il vostro nemico?». Eco rimane sorpreso dalla domanda. Già, si chiede, noi italiani abbiamo un nemico? Altrettanto sorpreso rimane il taxista pakistano nell’apprendere che esiste una nazione che non ha un nemico storico. Sarà forse, dice Eco, perché abbiamo fin troppi nemici al nostro interno, «Però, riflettendo meglio su quell’episodio, mi sono convinto che una delle disgrazie del nostro paese, negli ultimi sessant’anni, è stata proprio quella di non avere avuto veri nemici»14.
Il saggio di Eco prosegue inanellando una serie di citazioni storiche e letterarie, che ci mostrano come si possa costruire il nemico in modi diversi: per esempio sfruttando la diversità dello straniero, magari accentuandola, perché «avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro»15.
In effetti, per aumentare la coesione di una comunità, in molti casi occorre non soltanto evidenziarne gli elementi comuni, ma anche enfatizzare le differenze rispetto agli altri. Questi altri vanno creati, modellati fino a essere funzionali al progetto. Un altro ben costruito è fondamentale, per cementare gli individui e per definire i confini del noi.
In molti casi l’immagine che ci facciamo degli altri non si fonda tanto sulla reale conoscenza, ma sullo stereotipo. Lo stereotipo in fondo è la declinazione retorica della caricatura: il disegnatore coglie un tratto caratterizzante di un individuo, lo esaspera e riduce l’individuo a quell’aspetto (un naso enorme, un seno accentuato ecc.); allo stesso modo lo stereotipo riduce un individuo o una società ai suoi tratti che si presumono essere caratteristici. Ogni stereotipo comporta comunque una distorsione dell’immagine che non sempre volge al negativo: nel corso del seminario si è parlato del turismo contemporaneo e dell’immaginario in cui i turisti si muovono. Il viaggio è incontro, ma tale incontro, a causa della brevità e della mancanza di tempo, spesso risulta essere viziato o interrotto da equivoci, malintesi, e dalle aspettative precostrui­te con cui tutti noi viaggiamo. Insieme con gli abiti, le medicine, le guide, il bagaglio del turista contiene anche la sua visione del luogo e delle persone che sta per incontrare16. Una visione che in questo caso si tinge spesso di esotismo, altro modo, non cruento, di dare vita a una diversità.
Questo tracciare confini per costruire identità separate finisce per dare vita all’immagine che ogni società, ogni cultura sia una entità chiusa, pura, incontaminata, legata indissolubilmente alle sue origini che ne determinerebbero la specificità. In realtà dovremmo pensare alle culture come a realtà in movimento, che si influenzano continuamente l’una con l’altra. Se di divisioni vogliamo parlare, allora facciamolo in termini di frontiera più che di confini. Nel parlare comune raramente si evidenzia la differenza tra “confine” e “frontiera”, due termini che vengono spesso usati come sinonimi, quando il primo indicherebbe un limite da non valicare, mentre la frontiera richiama non una linea, ma una fascia di territorio dove due diversità “si fanno fronte”, si incontrano. Il confine è rigido, la frontiera fluttuante. Come scrive Franco La Cecla:
«Le frontiere sono il “faccia a faccia” tra due compagini, due culture, due paesi […]. Le frontiere dovrebbero essere il luogo dove il confronto sostituisce lo scontro, dove la relazione può essere appagata nella indifferenza della terra di nessuno o nella differenza delle demarcazioni oltre le quali si trova l’altro, lo straniero a noi»17.
Accade poi che queste diverse identità culturali, nonostante siano il prodotto di una costruzione storica e di sguardi incrociati, vengano pensate come naturali. Uno degli insegnamenti dell’antropologia è: diffidare dall’idea di naturalezza, ciò che spesso ci appare naturale, in realtà è solo il prodotto di abitudini consolidate nel tempo. Credere che ciò che ci è consueto sia naturale può indurre a pensare che tutto ciò che differisce non lo sia. Un’idea che è spesso madre dell’etnocentrismo e che porta e vedere nel diverso una condizione inferiore, di barbarie. Lo aveva già intuito Montaigne, quando scriveva: «Io ritengo che non vi è nulla di barbaro e di selvaggio in quelle popolazioni […]. La realtà è che ognuno definisce barbarie quello che non è nei suoi usi»18.
Due secoli dopo, Montesquieu inventava dei persiani in visita a Parigi per innescare quel senso di spaesamento e di sguardo sull’alterità scevro dai condizionamenti dell’abitudine, che serve a collocare gli usi di una comunità nella mappa delle comunità tutte. Quei persiani ci osservano con occhi stranieri, si stupiscono, provano meraviglia e disagio, ammirano e criticano l’Occidente. Montesquieu utilizza i loro occhi disincantati e stupiti a un tempo per esprimere, con sarcasmo e ironia, le sue critiche alla nostra società. Così fa scrivere da uno di loro:
Il re di Francia è il principe più potente d’Europa. Non possiede miniere d’oro come il re di Spagna suo vicino, ma ha più ricchezze di lui, perché le ricava dalla vanità dei suoi sudditi, più inesauribile delle miniere […]. D’altronde questo re è un gran mago: esercita il suo potere anche sullo spirito dei suoi sudditi, li fa pensare come vuole. Se nel suo tesoro c’è solo un milione di scudi e gliene occorrono due, gli basta persuaderli che uno scudo ne vale due, ed essi ci credono […]. Quanto ti dico di questo principe non deve stupirti: c’è un altro grande mago più potente di lui, il quale domina sul suo spirito non meno di quanto egli domini su quello degli altri. Questo mago, che si chiama papa, ora gli fa credere che tre è uguale a uno, che il pane che mangia non è pane, che il vino non è vino, e mille altre cose del genere19.
Ironico, ma mai arrogante, questo è lo spirito di Montesquieu e dei suoi amici orientali. «Mi pare, Usbek, che noi giudichiamo le cose sempre in base a un riferimento segreto a noi stessi. Non mi sorprende che i negri dipingano il diavolo di un candore abbagliante e i loro déi neri come il carbone […]. È stato detto molto bene che, se i triangoli si facessero un dio, gli darebbero tre lati»20. Come ha scritto Claude Lévi-Strauss: «il barbaro è anzitutto l’uomo che crede alla barbarie»21.

Cultura come fondamentalismo
Le identità, scrive Zygmunt Bauman, sono un grappolo di problemi più che una questione unica: «ci si rivelano unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un “obiettivo”, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare tra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte ancora»22Sebbene la maggior parte degli studiosi sociali si trovi d’accordo nel sostenere che le identità sono un prodotto culturale, assistiamo a guerre, lotte, scontri politici in nome di queste identità. Fasulle e inventate finché si vuole, ma attive sul piano pratico. Non basta dire «è una costruzione culturale, non c’è nulla di radicato, di assoluto, di dato» e rimanere a guardare. Fuori dalle aule accademiche la pratica sembra correre su un binario parallelo a quello della teoria.
Se da un lato possiamo affermare che non riscontriamo un’essenza dell’identità, dall’altro non possiamo che constatare l’esistenza di una pratica dell’identità. Sia che costituisca un elemento di attacco, sia che serva a difendersi. Questa pratica si fonda su quello che Verena ­Stolcke ha brillantemente definito, in un saggio su confini e retoriche d’esclusione nell’Europa contemporanea, «fondamentalismo culturale»23. Il processo di unificazione del vecchio continente opera contemporaneamente su due versanti: da un lato i confini interni diventano via via più permeabili, dall’altro quelli esterni si irrigidiscono sempre di più escludendo gli altri, gli extracomunitari.
Al di là di ogni considerazione politica e morale, è inevitabile registrare un crescente sentimento popolare di astio nei confronti degli immigrati, alimentato dalla semplificazione (per non dire menzogna) secondo cui tutti i mali verrebbero dalla presenza degli stranieri in quanto portatori di una cultura diversa che minerebbe i nostri valori. A questo segue spesso un’enfatizzazione del problema, presentato su scala maggiore rispetto ai dati reali. In questo modo molti governanti europei tentano di celare dietro un problema di incompatibilità culturale i disagi socio-economici derivati dalla recessione e dagli aggiustamenti capitalistici che si fanno sempre più estremi.
Noi saremmo, pertanto, «la misura del benessere che “loro” minacciano di distruggere perché sono stranieri e culturalmente differenti»24Ne segue una visione secondo la quale gli individui preferirebbero vivere tra i loro simili piuttosto che in una società multiculturale, in quanto questa propensione sarebbe naturale. Sebbene nessun teorico della xenofobia sia in grado di spiegarne le cause, si dà per scontato che le persone abbiano una naturale propensione a temere e rifiutare gli stranieri perché diversi. Una visione molto utile a na­scon­de­re le cause socio-economiche che spesso stanno alla base delle ten­sioni.
Ci sono molti modi di pensare l’altro, ma sostanzialmente c’è una linea che divide due possibilità di costruire la diversità. Una linea che percorre il confine, questa volta sì, netto, tra la revocabilità e l’irrevocabilità della sua condizione. Abbiamo detto che i greci si distinguevano dai barbari, ma se un barbaro imparava bene il greco e i costumi della polis, poteva diventare un vero greco. Anche per gli antichi romani valeva la stessa regola, tanto è vero che più di un imperatore era straniero. Uno su tutti Adriano, nato in Spagna. Tanto per gli uni quanto per gli altri ci si poteva emancipare da una condizione di estraneità, se non di inferiorità. Questo perché la divisione veniva operata su un piano cul­tura­le e tutto ciò che è culturale prevede la possibilità di scegliere e quindi di cambiare.
Del tutto diversa la situazione quando il dibattito si sposta sul piano della natura, dove ogni scelta diventa impossibile: in natura le cose hanno un destino segnato, prevedibile. È questo il cammino che conduce al razzismo, quello che prelude alle peggiori soluzioni.
Apparentemente, però, l’elemento di incompatibilità delle moderne politiche dell’esclusione non è più la razza, ma la cultura. Quasi un ritorno al passato. Nell’antichità, infatti, l’esclusione dall’Europa si fondava non sulla razza, ma sulla religione: via gli infedeli che potevano minacciare l’egemonia cristiana. Il razzismo scientifico del XIX secolo ha tentato di legittimare le differenze sulla base della natura biologica. Oggi, il problema del diverso da allontanare si sposta dal piano, ormai inaccettabile, della razza intesa in senso genetico, a quello culturale, permettendo alla destra xenofoba di ricostruirsi una rispettabilità politica. La volontà di epurazione rimane, ma in questo caso abbiamo un razzismo senza razza. Una nuova forma, quella che Paul Mercier ha de­finito «supertribalizzazione»25, un’espressione che pare assai adatta a rappresentare quella forzatura ­etnico-culturale avviata dalle molte élite politiche, che caratterizza numerosi movimenti attuali. La minaccia di contaminazione non viene più applicata alla stirpe, ma alla cultura che, in questa retorica fondamentalista, diventa sempre più solida, tangibile, uniforme.
Etnia, identità, cultura sono diventati slogan, branditi da politici in cerca di elettorato, che puntano sul “locale” e sui localismi, visti come estrema difesa dall’invasione straniera. Ritorna così in voga l’immagine di una presunta purezza culturale, da difendere dalle contaminazioni (da notare il carico di negatività che accompagna questo termine di ambito medico) portate dagli stranieri. Un’immagine che presupporrebbe una sorta di grado zero a cui fissare i limiti oggettivi di ogni cultura, letta come unità indivisibile, unica e impermeabile ad apporti esterni e pertanto contrapposta a tutto ciò che è altro. Culture come gabbie, quindi, nelle quali gli individui sarebbero costretti dalla nascita e dalle quali sarebbe impossibile evadere.
Una visione che si rivela attraverso le espressioni “scontro di culture” e, suo corrispettivo simmetrico, “incontro di culture”, diventate slogan abusati e buoni per ogni situazione. In realtà nessuno ha mai visto delle culture scontrarsi o incontrarsi, a farlo sono donne, uomini, bambini, non culture e ogni individuo incontra nella sua vita opzioni tra cui poter scegliere in numero diverso a seconda della sua storia. Perché allora ingabbiare gli altri con etichette identitarie create da noi? Come sostiene Eric Wolf:
«È un errore considerare l’emigrante come il portatore o il protagonista di una cultura omogeneamente integrata che egli può mantenere o rifiutare nel suo complesso […]. Non è più difficile per uno zulù o per un hawaiano imparare o disimparare una cultura di quanto non lo sia per un abitante della Pomerania o della Cina»26.
Il fondamentalismo culturale tende invece a presentare come naturali le cause degli scompensi e delle discriminazioni socio-economiche esistenti tra gli individui. Se pensiamo a tali squilibri come naturali, ci viene anche più facile accettare che siano irrisolvibili (non possiamo sfidare la natura!). Naturalizzare le forme culturali più distanti dalla nostra, scrive Pierre-André Taguieff, implica però la disumanizzazione dell’altro27.

Fissare il movimento
«“Alla mia età, e con tanto di quel sangue mescolato, non so più con sicurezza di dove sono” disse Delaura, “Né chi sono”. “Nessuno lo sa in questi regni” disse Abrenuncio, “E credo che ci vorranno secoli per saperlo”»28.
Questo malinconico dialogo tra due personaggi di Gabriel García Márquez riassume in modo intenso ed evocativo la tensione tra la ricerca di un’origine certa, un punto zero della nostra cultura, a cui spesso attribuiamo il termine identità, e il groviglio storico, culturale, sociale che la realtà propone quotidianamente e a cui si tenta di dare ordine, con la creazione di contenitori, utili a creare confini, limiti, divisioni, come ad arginare la presunta paura di dissolversi in un magma indefinito oppure di essere “contaminati” dall’altro.
La realtà, oggi come in passato, non è costruita su opposti ben definiti, facili da contrapporre, soprattutto per chi vuole trarre qualche vantaggio da tali situazioni conflittuali. Ci troviamo di fronte, invece, a una sequenza di quelle «immagini in movimento che incrociano spettatori deterritorializzati» di cui parla Arjun Appadurai nel suo libro Modernità in polvere29. Il titolo italiano restituisce ottimamente il senso dell’ambiguo gioco di parole che sta alla base dell’originale: Modernity at large. “At large” significa infatti “nel suo insieme”, ma anche “alla macchia”, “dispersa”. Per quale motivo, dunque, questa modernità è in polvere o in fuga? Perché sono saltati i confini che determinavano territori, culture, società. Perché oggi la realtà è fatta di lavoratori turchi emigrati in Germania, che guardano film turchi nei loro appartamenti tedeschi, di filippini appassionati di canzoni americane d’epoca che ripropongono in versioni più “autentiche” degli originali, nonostante la loro vita non sia affatto sincronizzata con quella degli Stati Uniti. Perché, ci dice Appadurai, la globalizzazione ha prodotto una frattura tra il luogo di produzione di una cultura e quello o quelli della sua fruizione. L’immaginazione, grazie alla sempre maggiore rapidità e onnipresenza dei mass media, è divenuta un fatto collettivo e si è trasformata in un campo organizzato di pratiche sociali. Ne consegue una frammentazione di universi culturali che mette in crisi ogni paradigma tradizionale delle scienze sociali. I panorami sociali, etnici, culturali, politici ed economici si fanno sempre più confusi e sovrapposti, le linee di confine spezzettate e irregolari. Ma soprattutto questi panorami, attraversati da continui flussi culturali globali, si riflettono l’uno nell’altro dando vita a un caleidoscopio mutevole e sempre nuovo.
Appadurai riprende l’immagine proposta da Benedict Anderson secondo il quale, grazie al «capitalismo-a-stampa» – cioè la diffusione, su scala industriale, dell’editoria – e alla conseguente alfabetizzazione di massa, e successivamente al capitalismo elettronico, è stata possibile la creazione di quelle che lui ha definito «comunità immaginate», cioè gruppi di persone che non hanno mai interagito faccia a faccia, ma che finiscono per condividere un’idea comune come, per esempio, il pensarsi indonesiani, pur essendo lontani dall’Indonesia30.
La deterritorializzazione è una caratteristica del mondo moderno che, unita alla sempre maggiore circolazione di informazioni, dà vita a una serie di immaginari ogni volta più complessi, di ideologie e abitudini uni­versali delle quali si appropriano le comunità locali trasformandole in qualcosa che spesso risulta diverso dall’originale. Caso esemplare è quel­lo, riportato da Appadurai, del cricket, che, dopo essere stato portato nell’In­dia coloniale, ha via via perso il suo status aristocratico di gioco delle classi agiate inglesi per diventare, anche grazie all’azione dei media, un vero e proprio simbolo dell’India popolare attuale. E il cricket giocato oggi dagli ex figli dell’impero non è semplicemente un prodotto d’importazione, ma fa riferimento a un universo morale tutto indiano.
Questa riflessione mette in evidenza come, al di là delle tre dimensioni dello spazio e di quella del tempo che caratterizzano la nostra vita «biologica», sia in una «quinta dimensione» – quella dell’immaginazione – che l’umanità prende forma. Si tratta di quella «finzione» costruttiva (poietica) di cui parla Francesco Remotti31 e che sta alla base della costruzione dell’umanità. Umanità che spesso nasce non da realtà oggettive, ma da un progetto comune, i cui fondamenti non sono per forza oggettivamente riconoscibili, quantificabili e tantomeno coerenti con la storia della comunità che vi si identifica.
Al disagio dello spazio tradizionale corrisponde anche una nuova concezione temporale, spesso nata dalla pratica del consumo, che pur rimanendo legata alle pratiche del corpo è oggi inserita in una sorta di bagno globale a cui deve riferirsi. Ogni oggetto (di consumo o meno) ha una propria biografia culturale legata alla cultura che lo ha prodotto, ma quando di quell’oggetto si impadroniscono nuovi attori la sua biografia non coincide talvolta con la storia di questi attori, e occorre pertanto rimodellarlo a proprio uso e consumo. Il passato, ci dice ancora Appadurai, da spazio d’azione per la memoria è diventato un deposito sincronico di scenari culturali, una specie di archivio culturale del tempo cui fare ricorso come meglio si crede32.
Questa diaspora mondiale crea nuovi mercati i quali, a loro volta, crea­no nuovi bisogni e nuovi gusti che nascono dalla necessità – da parte dei fuoriusciti – di mantenere un contatto con la madrepatria, anche se talvolta questa patria risulta inventata. Infatti, la cosiddetta globalizzazione non si realizza con un’invasione indifferenziata di elementi comuni che conducono alla omogeneizzazione. Il processo è più articolato e tali strumenti vengono riproposti di volta in volta in discorsi che si basano sulle diverse sovranità nazionali o locali.
Viviamo in un mondo «di opec, asean, Things Fall Apart, e di Tongani che giocano contro i Washington Redskins», sostiene Clifford ­Geertz, un mondo che «ha ancora i suoi compartimenti stagni, ma i passaggi fra di loro sono molto più numerosi e meno attentamente protetti»33. A questa fluidità del quotidiano si contrappone la natura stabilizzante dei poteri costituiti. Così come i governi di più o meno tutte le parti del mondo detestano i nomadi, avviando sistematiche azioni di sedentarizzazione se non di eliminazione, analogamente temono e diffidano dei “no­madi culturali”, di chi non si pone in modo netto, tale da essere facilmente classificato.


5. Da un manifesto tedesco degli anni novanta del Novecento.
6. Leroi-Gourhan 1977, p. 78.
7. Pouillon 1975, p. 160 (cfr. anche Pouillon 1977).
8. Pohl 2000, p. 2.
9. Anderson 1996.
10. Renan 1993, pp. 7-8.
11. Huxley-Haddon 2002, p. 15.
12. Montaigne 1986, p. 127.
13. Bauman 1999, p. 55.
14. Eco 2011, p. 10.
15. Eco 2011, p. 10.
16. Aime 2005.
17. La Cecla 2003, pp. 133-134.
18. Montaigne 1986, p. 231.
19. Montesquieu 2000, p. 94.
20. Montesquieu 2000, p. 141.
21. Lévi-Strauss 1967, p. 106.
22. Bauman 2003, p. 13.
23. Stolcke 1995.
24. Stolcke 1995, p. 3.
25. Mercier 1961, p. 64.
26. Wolf 1990, p. 502.
27. Taguieff 1999, p. 11.
28. García Márquez 1994, p. 156.
29. Appadurai 2012.
30. Anderson 1996.
31. Remotti 1996, p. 23.
32. Appadurai 1986.
33. Geertz 1990, pp. 142-143.


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