Morte e
fascismo hanno sempre marciato insieme. L’estetica della morte ha annunciato
l’avvento dei fascismi in Europa e ha segnato il tempo della loro catastrofica
fine. Gli squadristi ante-marcia portavano sui loro labari neri il teschio con
sotto la scritta “Me ne frego” ad affermare nel disprezzo della morte propria
il diritto sovrano a disporre della vita altrui. Così i “proscritti” dei freikorps protonazisti.
I macellai dei Battaglioni “M” – quelli che servivano i tedeschi nel fare il
lavoro sporco nei mesi della guerra di liberazione – cantavano “fiocco nero
alla squadrista/ noi la morte/l’abbiam vista/con due bombe e in bocca un fior”.
Oppure, ancora, “Ce ne freghiamo se la Signora Morte/fa la civetta sul campo di
battaglia/Sotto ragazzi, facciamole la corte! /Diamole un bacio sotto la
mitraglia!”. Beh, forse mi sbaglio. Ma di quel fondo oscuro esistenziale sento
di nuovo un vago odore (vago, certo!), nell’alone funebre prodotto dal
coronavirus nel mondo e nella morte seriale che sta disseminando. Ne avverto il
retrogusto nelle esibizioni machiste di Bolsonaro in Brasile, nel menefreghismo
trumpiano di fronte al dilagare del morbo nelle sue città, nelle teorie
dell’”immunità di gregge” e nelle invocazioni del business must go costi
quel che costi da parte dei padroni nel mondo. E anche, si parva licet,
nei deliri sgarbiani sulla debolezza del virus e dunque sulla codardia di chi
lo teme.
Questa presenza morbosa (ossessiva) della morte – e la conseguente “retorica” ed “estetica della morte” – nella dimensione esistenziale fascista non è un aspetto accessorio, marginale. E’ un carattere essenziale del “tipo umano” fascista, ben radicato nel pessimismo antropologico e storico che ne costituisce il retroterra culturale. In quella “disperazione culturale” (penso a un libro ormai vecchio, ma insuperabile, come The politics of cultural dispair del tedesco Fritz Stern) che nasce dall’idea dell’assoluta intrascendibilità di una condizione umana devastata dalla desertificazione del moderno, rispetto alla quale l’unica via d’uscita da una vita inautentica, impantanata nella banalità spersonalizzante di una quotidianità anonima, appare il “vivere per la morte”, unico punto assoluto di caduta in cui sperimentare l’”autentico”. Non per niente Umberto Eco indica come l’undicesima caratteristica dell’“Ur-fascismo” – del fascismo-matrice, del paradigma fascista – la cultura della morte, “annunciata come la migliore ricompensa per una vita eroica”. “L’ Ur-Fascista – scrive, in quel brevissimo ma denso pamphlet intitolato Il fascismo eterno – è impaziente di morire”. Anche se – aggiunge – “nella sua impazienza gli riesce più di frequente far morire gli altri”. O comunque concepisce la “vita degna” come un continuo giocare con la morte, quasi che dall’uscirne ogni volta vivo sia il segno di una qualche superiorità esistenziale: morale da signore, per dirla con Nietzsche, contrapposta alla morale da schiavi di chi non si mette in gioco.
E’ oggi con un senso di orrore crescente, che mi par di vedere le tessere di quel mosaico che si chiama appunto “disperazione culturale” ricomporsi di nuovo in un quadro inquietante: la stessa sensazione di una condizione di vita inautentica (un vivere privo di futuro perché insostenibile); lo stesso senso di intrascendibilità, l’impossibilità del pensiero di un “andar oltre”, sebbene i presagi nefasti siano tutti drammaticamente presenti (lo stesso pessimismo storico); la stessa tentazione di un qualche risarcimento mortifero qui ed ora, nell’impossibilità di un’uscita in avanti reale in un futuro storicamente determinabile. E intorno – effetto della pandemia, come allora fu della guerra – la danza macabra di una morte seriale, anonima, impietosa nella propria casualità che satura l’atmosfera. E che diviene in qualche modo contagiosa, chiede e provoca l’emulazione esattamente come l’infezione che ne sta all’origine.
Che cos’è
l’esibizione macabra quotidiana di un “nuovo fascista” come Jair Bolsonaro, la
sua sfida al buonsenso e alla cautela, insistita, reiterata, da bullo da stadio
machista e arrogante quale è, nell’ostentare in pubblico il proprio volto senza
mascherina, quasi ad accusare di codardia chi si protegge, se non la forma
post-moderna di quella medesima estetica della morte? Che cosa sono le minacce
ai governatori che praticano il lockdown contro i suoi ordini?
Le frasi sprezzanti verso quei lavoratori recalcitranti ad andare a contagiarsi
in fabbrica (“E quem não quiser trabalhar que fique em casa,
porra” ovvero “Chi non ha voglia di lavorare stia a
casa, cazzo!”)? L’annuncio presidenziale di un barbecue nel giorno del lockdown e
in generale la guerra dichiarata dal presidente a tutte le autorità sanitarie
in nome dell’amore del rischio e del business, che è costata al
Brasile una strage continua (soprattutto di poveri: i 13.000 morti censiti
finora sono indicati da fonti indipendenti come sottostimati tra le 10 e le 15
volte). E intanto, mentre recita il suo squadristico “menefrego” a Brasilia, in
Amazonia prepara e permette il genocidio degli indigeni per contagio
(“trecentomila persone indifese, esposte deliberatamente al contagio, già questo
sarebbe abbastanza per parlare di crimine contro l’umanità” ha detto il grande
fotografo Salgado: ventimila cercatori d’oro che penetrano nella foresta, gli
evangelici che arrivano in elicottero e portano il morbo ovunque, “siamo
sull’orlo della catastrofe. Più ancora di cinquecento anni fa, quando le
malattie decimarono le popolazioni native… ora rischiamo l’estinzione totale”).
D’altra parte che cos’è il reiterato, ostentato, disprezzo di Donald Trump per chiunque mostri prudenza o timore di fronte alla marcia devastante del Covid-19? L’irrisione degli scienziati e dei politici che suggeriscono o mettono in pratica misure di tutela della vita, la sua personale guerra al povero Anthony Fauci reo solo di “sapere” mentre lui vorrebbe “osare”. Cosa esprimono le bande di teppisti armati che rispondendo alla sua chiamata assediano gli uffici dei governatori colpevoli di voler salvare vite, se non una replica post-novecentesca dello squadristico “me ne frego”? Di un dissennato, irragionevole ma potentissimo desiderio di mostrarsi “più forte della morte” e ottenere da questo l’investitura da Signore. Ovunque c’è uno strato, più o meno ampio a seconda del grado di re-imbarbarimento del Paese, che trova nella sfida del virus il “campo d’onore” nel quale misurare se stesso e trovare una mortifera conferma di un Io traballante. Le più recenti immagini del Presidente impudicamente a volto scoperto, unico senza mascherina, a marcare la differenza tra il Superuomo e gli ometti comuni (ultima esibizione proprio in una fabbrica di mascherine) sono la rappresentazione plastica di quell’estetica della morte tragicamente ritornante.
D’altra parte che cos’è il reiterato, ostentato, disprezzo di Donald Trump per chiunque mostri prudenza o timore di fronte alla marcia devastante del Covid-19? L’irrisione degli scienziati e dei politici che suggeriscono o mettono in pratica misure di tutela della vita, la sua personale guerra al povero Anthony Fauci reo solo di “sapere” mentre lui vorrebbe “osare”. Cosa esprimono le bande di teppisti armati che rispondendo alla sua chiamata assediano gli uffici dei governatori colpevoli di voler salvare vite, se non una replica post-novecentesca dello squadristico “me ne frego”? Di un dissennato, irragionevole ma potentissimo desiderio di mostrarsi “più forte della morte” e ottenere da questo l’investitura da Signore. Ovunque c’è uno strato, più o meno ampio a seconda del grado di re-imbarbarimento del Paese, che trova nella sfida del virus il “campo d’onore” nel quale misurare se stesso e trovare una mortifera conferma di un Io traballante. Le più recenti immagini del Presidente impudicamente a volto scoperto, unico senza mascherina, a marcare la differenza tra il Superuomo e gli ometti comuni (ultima esibizione proprio in una fabbrica di mascherine) sono la rappresentazione plastica di quell’estetica della morte tragicamente ritornante.
In visita
alla fabbrica di mascherine Honeywell senza mascherina – I Signori e gli
altri…
D’altra
parte che cos’è qui da noi quella squilibrata nei toni e irresponsabile nei
contenuti “Lettera a Mattarella”, sottoscritta da 74
personalità rappresentative di quello che è stato descritto come il “Gotha
atlantico neo-con”, contro l’”Orco filantropico” che in nome del contenimento
della pandemia e del salvataggio del maggior numero possibile di vite umane
sacrificherebbe brutalmente la libertà, se non un’ obliqua, non-detta ma
implicita assunzione in “non cale” della morte, accettata, messa in
conto, accolta (quella altrui) come condizione della pienezza della vita
(propria). L’idea, perversa, che la vita “ornata” (e onorata) degli uni – dei
forti, degli Herren, dei Signori – per esser vissuta appieno, possa
(e debba) presupporre l’esposizione alla morte della “vita nuda” degli altri.
L’abbandono al rischio delle vite di scarto, le vite-non-vite dei fragili, dei
vecchi, dei malati cronici, dei confinati nei cronicari, la cui sopravvivenza
non dev’essere di ostacolo al pieno dispiegarsi della libertà dei sani, dei
giovani, dei produttivi, dei dinamici, delle “eccellenze”… E poi Salvini:
Salvini (16 marzo) che a volto scoperto passeggia
per Roma con la fidanzata in pieno confinamento; Salvini (27 aprile) che senza mascherina invoca
“dopo 47 giorni di reclusione basta! Fateci uscire, fateci guadagnare, fateci
lavorare”; Salvini (30 aprile) che ancora una volta senza
nessuna protezione, annunzia l’occupazione delle aule parlamentari per
rivendicare date certe e riaperture rapide, mentre le immagini dei manipoli
leghisti accampati nell’aula (“sorda e grigia”?) fanno il giro del mondo…
E’ difficile
immaginare, quando il velo funebre della pandemia si solleverà, in quale mondo
ci troveremo a vivere. In quale società. In quale politica. Certo è vero che un
indizio non vale una prova, ma se il buon giorno si vede dal mattino temo che
dovremo mettere in conto che questa cultura della morte continuerà ad aggirarsi
tra di noi mettendo la propria ipoteca sui modelli di governo e di comando che
regoleranno i nostri sistemi di relazioni, se non sapremo “riaprire il tempo”.
Non solo immaginare ma avviare una qualche forma di trascendimento
dell’esistente che ci salvi dalla “disperazione culturale”. Se dovesse
sciaguratamente prevalere il “tutto come prima”, cadremmo in un’infinitamente
peggio di prima, di cui il Novecento ci ha già offerto esempi terrificanti.
In un
luminoso documento del collettivo “Malgrado tutto” intitolato Piccolo
manifesto in tempi di pandemia, accanto alla denuncia del
pericolo (“l’esperienza che viviamo offre al biopotere un terreno di
sperimentazione senza precedenti: la possibilità di disciplinare e controllare
le popolazioni di interi paesi e continenti”), contiene una ricetta salvifica
nel riconoscimento della nostra fragilità condivisa (“capiamo che non si tratta
di essere forti o deboli, vincenti o perdenti, ma che esistiamo, tutte e tutti,
attraverso questa fragilità che ci permette di provare la nostra appartenenza
al comune”).
Bene,
costruire questa “comunità dei fragili” per la vita, in alternativa alle tetre
“Compagnie della morte” dei forti, è la via.
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