(intervista
di Nicola Mirenzi)
A un certo punto, è diventata insopportabile: “L’idea di mandare in galera
una persona mi tormentava, mettendomi davanti a interrogativi insolubili e
angosciosi. Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile
con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana, la mia
interpretazione della Costituzione. Più che pensare, in realtà sentivo: sentivo
tutta l’ingiustizia della prigione. Era ormai intollerabile. Perciò, dopo anni
passati a pensarci, ne ho tratto tutte le conseguenze”.
Gherardo Colombo si è dimesso dalla magistratura nel marzo del 2007, dopo
trentatré anni di servizio, prima come giudice, poi come pubblico ministero di
inchieste celebri (la Loggia P2, il delitto Ambrosoli, i fondi neri dell’Iri,
Mani Pulite), infine come giudice della corte di Cassazione. La sua conversione
è cominciata molti anni fa, presentandosi sotto la forma di una ritrosia: “Ho
chiesto l’ergastolo una sola volta nella mia vita. E quando ho saputo che il
giudice l’aveva rifiutato, ho tirato un sospiro di sollievo. Ero felice che non
mi avesse ascoltato”. Oggi, dopo numerose letture e altrettante riflessioni, è
arrivato a una conclusione radicale: “Ritengo il carcere, così com’è, non in
coerenza con la Costituzione. L’articolo 27 della Costituzione dice che ’le
pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’.
Eppure, basta mettere piede in qualsiasi penitenziario italiano, salvo rare e
parziali eccezioni, per rendersi conto che le condizioni in cui vivono i
detenuti lo contraddicono scandalosamente”.
Il pensiero di Colombo sull’argomento è racchiuso in un libro da poco
aggiornato e ripubblicato, Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve
a nulla (Ponte alle Grazie). Nel quale ricostruisce il concetto di pena che si
è affermato nelle società occidentali. Racconta la possibilità dischiusa e non
esplorata di un’altra idea di giustizia, presente già nell’Antico Testamento e,
ancora di più, nel Nuovo. E che poi è simile a quella che risuona nella
Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e nella nostra Carta
costituzionale, ed è un invito alla trasformazione: “Il carcere così com’è
oggi, in Italia, è da abolire. Non faccio nessuna fatica a dirlo. Conosco
l’obiezione e perciò aggiungo: abolire il carcere non significa lasciare chi è
pericoloso libero di fare del male agli altri”.
Com’è
possibile conciliare le due cose?
È possibile mettendo le persone pericolose nella condizione di non
esercitare la propria pericolosità. Adottando misure che limitino la loro
libertà, ma garantendo il loro diritto allo spazio vitale, alla salute, alla
dignità, all’affettività. Andando il più possibile verso misure alternative al
carcere.
È
realistico?
Nemmeno io riuscivo a concepire una società senza la pena del carcere,
quando ho iniziato a fare il magistrato. Credevo che la pena, inflitta
rispettando tutte le garanzie del condannato, avesse una forza educativa. Non
sbagliavo. Semplicemente, non mi ero mai chiesto a cosa educasse.
E a
cosa educa?
In una società senza perdono, la pena educa solo a obbedire. Insegna a
rispettare le regole dicendo che non rispettarle costa molto caro. Anziché mostrare
che la regola risponde a un principio di ragione.
Lei
quando ha cominciato a dubitare?
All’inizio facevo il giudice di dibattimento. Mi occupavo di sequestri di
persona, reati puniti con pene molto alte. L’idea di doverle infliggere mi
metteva a disagio. Dopo tre anni, infatti, chiesi di essere trasferito
all’ufficio istruzione. Quantomeno, per allontanare da me l’obbligo di mandare
in carcere un’altra persona.
Come
andò?
Credevo che fare le inchieste, rivelare cosa c’era dietro il delitto
Ambrosoli, le trame della P2, i fondi neri per l’Iri, nonché le tangenti di
Mani Pulite, sarebbe servito ai cittadini per esercitare meglio la democrazia,
per aiutarli a scegliere con più consapevolezza. Non fu così. Nemmeno dopo aver
scoperto le malefatte peggiori successe niente.
Ma
come? Tangentopoli fu un terremoto politico.
Ma finì perché lo decisero i cittadini. La maggior parte di essi preferì
continuare a vivere dentro un humus impregnato dalla corruzione, che in uno
incentrato sul rispetto delle regole.
Che
conclusioni ne trasse?
Che le inchieste non assolvevano al compito che gli attribuivo, così come
l’idea della pena non corrispondeva a quella che avevo studiato all’università.
Perché
rimase nella magistratura?
Perché il mio percorso – la mia “conversione” – non era ancora completato.
In quegli anni, cominciai a leggere Eugen Wienset, un gesuita tedesco che aveva
reinterpretato l’idea della pena nelle Sacre scritture. Sosteneva che nei testi
biblici esiste un’idea della giustizia non retributiva. Ossia, una concezione
della giustizia che non ripaga il male del delitto con il male della punizione,
ma punta alla riconciliazione di chi ha sbagliato con la comunità, attraverso
il perdono.
La
conquistò?
Mi guidò a sciogliere un nodo che era rimasto irrisolto nella mia vita. Il
problema di come relazionarmi con le persone che avevano ucciso miei colleghi,
alcuni di essi molto cari.
Chi?
Il giudice Guido Galli, in particolare. Prima Linea lo uccise nel 1980. Lo
avevo incontrato la mattina. Nel pomeriggio, lo assassinarono nel corridoio
dell’Università Statale, sparandogli tre colpi di pistola. Furono anni molto
dolorosi. Molti magistrati morirono ammazzati. I loro panni erano i miei.
Eppure, nonostante l’immenso dolore faticavo a considerare la pena per chi li
aveva uccisi utile e giusta.
Non è
quello che dice la Costituzione?
Sono convinto che oggi, dopo l’esperienza dei gulag, i padri costituenti
non userebbero più la parola rieducazione per definire il fine della pena. Lo
spirito della Costituzione è informato da una concezione che supera l’idea
dell’obbedienza. La persona che la nostra Carta vuole formare è un cittadino
adulto, responsabile, dotato di spirito critico e discernimento. Sono i
presupposti della democrazia. Il carcere va nella direzione opposta. Insegna a
sottomettersi all’autorità. Per questo è incompatibile con la Costituzione.
Su cosa
si baserebbe una società senza carcere?
Sull’idea del recupero della relazione con chi commette il reato. Senza la
disponibilità a ri-accogliere nella collettività chi ha sbagliato, il tessuto
sociale strappato dalla trasgressione della norma non si ricucirà mai. Questo
significa il perdono: recuperare il rapporto. Non cancellare il male che è
stato fatto. Riconoscendo il dolore della vittima e, per quanto possibile, riparandolo.
Fermo restando, lo ripeto, che è necessario mettere chi può fare del male agli
altri nelle condizioni di non farlo.
Si può
imporre il perdono per legge?
Non si tratta di cambiare una legge: si tratta di cambiare una cultura,
un’educazione, di introdurre trasformazioni politiche, sociali, economiche.
Non è
troppo augurarsi la palingenesi?
Cos’altro propone la Costituzione, se non questo? È la Costituzione che
prevede, per esempio, che tutti possano accedere all’istruzione, aver garantita
la propria salute, ricevere una retribuzione dignitosa. Tutto sta nel modo in
cui la si concepisce. Un monumento da celebrare o un programma da attuare? Per
me è la seconda.
Lei è
cristiano?
Sono cristiano filosoficamente, mentre teologicamente ho un problema che
qui è superfluo considerare: credere o non credere a Dio.
Che
significa?
Che mi riconosco completamente in molti passi del Vangelo. In particolare
nel discorso della Montagna, così come lo riporta il testo di Matteo: là dove
Gesù rifiuta la legge dell’occhio per occhio dente per dente e parla di una
giustizia completamente diversa.
E però
si conclude dicendo: “Siate perfetti”.
E allora?
Lei che
ha scritto un libro sul Grande Inquisitore di Dostoevskij sa che a Cristo
rimprovera proprio questo: non si può chiedere agli uomini di essere perfetti.
È vero che gli esseri umani sono un miscuglio di contraddizioni e debolezze
che fanno fatica a stare insieme. Il Grande Inquisitore conosce bene la natura
umana, sa che l’uomo è fragile, che la libertà inquieta. Eppure qual è la sua
soluzione? Dominare gli uomini. Indurli a deporre ai suoi piedi la libertà e
offrirgli in cambio una custodia. Mantenendoli bambini, bisognosi di chinare la
testa. Insegnandogli solo a obbedire. È quello che fa il carcere. Ecco perché è
necessario abolirlo.
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