Yahya Hassan, di
poesia si muore - Francisco
Soriano
Le dinamiche della prematura morte di
Yahya Hassan, poeta, non sono ancora chiare. La scomparsa è stata annunciata
dal suo editore, che ha definito come un “disastro” l’ellissi tragica di questo
scrittore di 24 anni, morto una settimana fa a Copenhagen. Yahya aveva scritto
versi incredibili e travolgenti, irriverenti e fecondi di spudorata onestà, che
gli erano costati aggressioni fisiche, minacce di morte e una scorta che gli
era stata assegnata al fine di garantirgli incolumità fisica. Il caso Yahya
Hassan non si esaurisce certo nel silenzio della sua misteriosa morte che pone
interrogativi, ma anche risposte che suscitano enorme indignazione.
La biografia di Yahya è storia di dolore,
di una sofferenza che risiede in quell’altrove che non è affatto abitato da
sirene e sogni concilianti, atmosfere apollinee e canti di primavera. Nasce nel
1995, ad Arhus, sulla costa orientale della penisola dello Jutland ma, in
realtà, è figlio legittimo di quell’avamposto di profughi disperati e figli di
una terra di confine e di confini che si chiama Palestina. I suoi genitori
infatti sono apolidi palestinesi. Yahya non è solo un giovane musulmano di
seconda generazione che risiede in qualche sobborgo delle luminose città
europee: è soprattutto un poeta che a 18 anni ha scritto una raccolta di poesie
che ha venduto in pochi mesi 120.000 copie nella sola Danimarca (mai nessuno
aveva suscitato tanto interesse prima di lui in terra danese), ed è stato
tradotto in venti lingue e in italiano, nel 2014.
In una delle sue poesie recita: NON
AVEVAMO PROGETTI // PERCHÉ ALLAH LI AVEVA PER NOI. Affermare ciò,
sarcasticamente, è condanna all’ostracismo, alla vergogna, al dissidio, alla
vendetta. Yahya comincia in questo percorso di lotta a combattere con le armi
della poesia, con le parole cocenti che penetrano la corteccia identitaria di
un popolo in fuga che si sente oppresso. Sono soprattutto le parole di un
musulmano che tradisce la sua fede percepita come monolitica identificazione
del bene che trionferà sul male. Tuttavia, fra le giovani generazioni di figli
di immigrati, soprattutto donne, non è l’unico giovane musulmano a ribellarsi
alla propria cultura vista nell’ottica del patriarcato e dell’egemonia del
potere come pratica imprescindibile delle regole divine. Infatti, la questione
diventa politica ed etica, sociale e religiosa. Per la comunità mussulmana,
Yahya rappresenta il pericoloso esempio di un “intemperante”, che ha sempre
scatenato polemiche e violenze: TU VUOI LA PREGHIERA DEL VENERDI FINO AL
PROSSIMO VENERDI // TU VUOI IL RAMADAN FINO AL PROSSIMO RAMADAN // E TRA LE
PREGHIERE DEL VENERDI E I RAMADAN // TU GIRI CON IL COLTELLO IN TASCA.
Yahya ha uno stile moderno, scrive come un rapper, talvolta incastona
voci del sottobosco urbano a parole raffinate di un vocabolario “alto”. In
questo si legge anche la sua scelta apolide, il canto di guerra che rinnega la
religione del padre, il padrone che torna a casa e picchia col bastone i figli.
Yahya vede la sorella che sembra saltellare leggera sotto la gragnuola di botte
e poi la madre, indifesa, a subire l’ennesimo oltraggio. La donna scappa, che
importa, per il padre-padrone ne arriva un’altra, una “nuova” in bella posa
dalla Tunisia. Non è tutto. Yahya rilascia un’intervista che oltraggia il
pudore religioso e arriva, puntuale, la fatwa contro di
lui: è il sigillo dell’infedele, l’ateo, il blasfemo. Solo la morte poteva
dirimere la forza trasgressiva e il coraggio di questo “folle”.
Il dibattito intorno a questo poeta
diventa dunque tema fondamentale e complesso in Danimarca. Alla fiera del libro
di Copenhagen è lo scrittore di punta, lunghe file attendono le sue parole e i
suoi autografi, il suo libro si esaurisce in poche ore. Yahya non è solo un
poeta, è un combattente. La scrittura è tema dirompente nella letteratura
danese, scrive solo in stampatello maiuscolo e dice, in un’intervista, che la
scelta di questa modalità è per dare il senso di immediatezza, imprimere
nettezza. L’utilizzo delle parole del giovane Yahya diventano a questo punto la
sua scelta identitaria, si tatua la parola “ord” sul dorso della mano: il
termine danese che significa “parola”, perché le parole sono la parte più
essenziale nel mondo di oggi. Intanto, abbandona il genere di
scrittura tipico del mondo musicale rap e sceglie la poesia che ritiene come l’unico modo con il quale può relazionarsi con la vita.
Nella sua disputa con gli islamici residenti in Danimarca, Yahya traccia la sua
critica senza mezzi termini, tacciandoli di incoerenza e, soprattutto, di
incapacità ad accettare quel percorso di secolarizzazione che renderebbe questa
religione forse più tollerante verso il prossimo. Per antonomasia, il poeta è
permeato da valori indistruttibili come l’onestà, l’educazione, la capacità di
verificare con le parole il dominio della bellezza e dell’armonia. Nelle sue
opere poetiche però, il verso è incitamento alla pratica collettiva che
desidera civiltà, è scrittura militante che odia l’indifferenza e parla chiaro
in faccia agli ipocriti. Alla domanda se non pensa che nella raccolta di poesie
si percepisca un evidente senso di smarrimento, religioso e sociale, così
risponde: Io non mi sento un musulmano. Così come non mi
sento danese. E nemmeno un semplice poeta. Secondo lei sembro un danese?
L’origine conta. I miei genitori sono palestinesi. Mi sento palestinese. Uso il
danese per scrivere, ma in famiglia parlo l’arabo. Più che altro, mi sento un
essere umano. […] Quello che critico
dell’Islam può essere detto anche di altre religioni, sia ben chiaro. Ma spesso
la mia ex religione, a differenza di altre, purtroppo non riesce a uniformarsi
alla modernità. E per questo trovo ipocrita quando i musulmani integralisti
cercano rifugio in un Paese di “infedeli”. Trovo ipocrita campare sul welfare
danese se non si condividono i principi di quel Paese. Trovo ipocrita, come
racconto nel libro, andare in moschea il venerdì, non mangiare maiale e poi
picchiare moglie e figli. Yahya diventa inesorabilmente preda
di nemici piuttosto trasversali; critica gli islamisti e le destre
nazionaliste, svergogna i fascisti populisti e gli indifferenti che non
intravedono negli schieramenti, strutturati su valori ed etiche che si fondano
su secoli di confronto, la possibilità di far parte di una lotta politica
sincera e costruttiva: I musulmani danesi sono molto
indottrinati. Che non significa essere terroristi, ci mancherebbe. Ma gli viene
inculcata una visione del mondo molto tradizionalista, trasmessa di padre in
figlio. E a volte risale a secoli fa. Colpa delle vessazioni subite per
lunghissimo tempo, certo: campi profughi, povertà, violenze, nessuna
istruzione. I problemi delle vecchie generazioni arrivano da lontano. Ma i
giovani nati in Danimarca, come me, a volte neanche parlano arabo e non
conoscono la storia del loro popolo. Così si crea una frattura insanabile. […]
Le minacce di morte e la violenza purtroppo fanno parte della nostra società,
non sono certo iniziate con il mio libro. Mi spiace solo che molti musulmani
colti e capaci non si ribellino a tutto questo. […] Disprezzo i politici populisti di destra. Così come disprezzo
i musulmani di destra. I fascisti sono sempre fascisti. Però, allo stesso
tempo, rivendico il diritto di esprimere la mia opinione attraverso la poesia.
Restando nel campo dei suoi “oppositori trasversali”, Yahya pone
l’accento su questioni che riguardano prettamente il tema dell’integrazione nei
Paesi europei. Dopo aver ben descritto le ipocrisie del mondo a cui aveva
appartenuto per origine e condizioni parla, con la dura nitidezza che lo contraddistingue, del
sistema scolastico danese che lo ha espulso alla stregua di guardiani camuffati da educatori: TELECAMERE AL
CANCELLO // GLI EDUCATORI MI CONFISCANO I VESTITI // E MI DANNO UN COMPLETO
NERO // LE PRIME DUE SETTIMANE RESTO ISOLATO NELLA MIA CELLA // LO CHIAMANO
ADATTAMENTO. Dunque, lo scrittore è vittima delle violenze del padre e della
sua cultura dispotica ma anche della moderna società danese che, quasi
contraddicendo i propri valori sui diritti, lo discrimina come soggetto
difficile e lo esclude: il racconto a tinte fosche lo si trova nella
poesia Dittatura educativa. Il tentativo di Yahya è quello di
cambiare, mutare il sociale con il suo punto di vista facendo della letteratura
la sua barricata. Lo stratagemma della mancanza di segni di interpunzione e
l’apparente mancanza di connessioni sintattiche fra le frasi fanno di lui un
poeta originale, ma non il preconizzatore di una nuova poesia. Tuttavia,
accostarlo a un rapper è fuorviante e lui stesso dice di essersi sbarazzato, ad
un certo punto, di questa modalità espressiva: Yahya è molto più intriso di
medioriente di quello che sembra e le sue fulminee metafore e ossimori ne sono
la prova provata.
L’esperienza e l’esperimento che Yahya fa
della lingua utilizzata nelle sue poesie era nell’operazione coraggiosa di
mescolare forme di socioletto al linguaggio appena più erudito, con
l’inserzione di termini arabi che ben si insinuano nel contesto lirico creando
dei veri e propri artifici sonori. In questo è innegabile il suo background di
compositore di testi musicali a forte impatto multiculturale da sobborgo urbano
e periferico, sociale ed economico. Dice di sé con il dovuto sarcasmo: UN
GIORNO SONO UN POETA SANO E BEN INTEGRATO // ME CHE SCRIVO MAIL A LARS
SKINNEBACH A PABLO LLAMBIAS A SIMON PASTERNAK // IL GIORNO DOPO SONO ACCUSATO
DI FURTO D’AUTO E RAPINA IN STRADA E FURTO CON SCASSO // ME CHE SONO SOTTOPOSTO
A INTERROGATORIO DI GARANZIA. A questo punto non è assolutamente irragionevole
ritenere che le poesie di Yahya Hassan abbiano rappresentato per la Danimarca,
ormai multiculturale per le ondate di migrazioni soprattutto dal medioriente,
un nuovo standard linguistico. Come spesso accade molti hanno cercato di
affiancarlo ai grandi poeti del passato, evocando addirittura il nome di
Whitman o, in certi sprazzi rabbiosi e iperbolici, piuttosto Artaud. Sta di
fatto che il suo stile gridato, la rabbia urlata in faccia con brevi parentesi
di declamata vocazione al ricercato gergo della strada tipico di una certa
poesia beat, ne hanno fatto un interprete di rilievo della nuova poesia danese.
La sua scrittura è credibile, anche se troppo giovane e forse con una cultura
informe per poter ambire a una forma poetica ben definita, Hassan è talmente
viscerale e coinvolgente che si ama perché smaschera, chiarisce, rifugge la
retorica, spiega l’ipocrisia. Ed ecco che lo scenario si fa duro, incombe la
tragedia di un girovagare fra comunità di recupero e riformatori, anni spietati
e crudeli che fanno della sua biografia un maledetto che si è riscattato.
Un riscatto che forse non è bastato a
condurlo al di fuori dell’orrore della violenza e della intolleranza. Tuttavia,
a chi dice che di poesia si può morire, Yahya Hassan ha risposto con l’eterna
eco delle sue parole.
INFANZIA
CINQUE FIGLI IN FILA E UN PADRE CON LA MAZZA
POLIPIANTO E UNA POZZA DI PISCIO
SI TIRA FUORI LA MANO A TURNO
È QUESTIONE DI PREVEDIBILITÀ
QUEL RUMORE QUANDO ARRIVANO I COLPI
LA SORELLA CHE SALTA VELOCE
SU UN PIEDE POI SULL’ALTRO
IL PISCIO È UNA CASCATA SULLA GAMBA
PRIMA FUORI UNA MANO POI L’ALTRA
SE PASSA TROPPO TEMPO I COLPI VANNO A CASO
UN COLPO UN GRIDO UN NUMERO 30 O 40 A VOLTE 50
E UN ULTIMO COLPO SUL CULO USCENDO DALLA PORTA
PRENDE IL FRATELLO PER LE SPALLE LO RADDRIZZA
CONTINUA A COLPIRE E CONTARE
ABBASSO LO SGUARDO E ASPETTO IL MIO TURNO
MAMMA ROMPE PIATTI PER LE SCALE
E INTANTO AL JAZEERA TRASMETTE
BULLDOZER IPERCINETICI E MEMBRA ARRABBIATE
LA STRISCIA DI GAZA SOTTO IL SOLE
LE BANDIERE CHE VENGONO BRUCIATE
SE UN SIONISTA NON RICONOSCE LA NOSTRA ESISTENZA
SE POI DAVVERO ESISTIAMO
QUANDO SINGHIOZZIAMO ANGOSCIA E DOLORE
QUANDO BOCCHEGGIAMO IN CERCA D’ARIA O DI SENSO
A SCUOLA NON SI PUÒ PARLARE ARABO
A CASA NON SI PUÒ PARLARE DANESE
UN COLPO UN GRIDO UN NUMERO
POLIPIANTO E UNA POZZA DI PISCIO
SI TIRA FUORI LA MANO A TURNO
È QUESTIONE DI PREVEDIBILITÀ
QUEL RUMORE QUANDO ARRIVANO I COLPI
LA SORELLA CHE SALTA VELOCE
SU UN PIEDE POI SULL’ALTRO
IL PISCIO È UNA CASCATA SULLA GAMBA
PRIMA FUORI UNA MANO POI L’ALTRA
SE PASSA TROPPO TEMPO I COLPI VANNO A CASO
UN COLPO UN GRIDO UN NUMERO 30 O 40 A VOLTE 50
E UN ULTIMO COLPO SUL CULO USCENDO DALLA PORTA
PRENDE IL FRATELLO PER LE SPALLE LO RADDRIZZA
CONTINUA A COLPIRE E CONTARE
ABBASSO LO SGUARDO E ASPETTO IL MIO TURNO
MAMMA ROMPE PIATTI PER LE SCALE
E INTANTO AL JAZEERA TRASMETTE
BULLDOZER IPERCINETICI E MEMBRA ARRABBIATE
LA STRISCIA DI GAZA SOTTO IL SOLE
LE BANDIERE CHE VENGONO BRUCIATE
SE UN SIONISTA NON RICONOSCE LA NOSTRA ESISTENZA
SE POI DAVVERO ESISTIAMO
QUANDO SINGHIOZZIAMO ANGOSCIA E DOLORE
QUANDO BOCCHEGGIAMO IN CERCA D’ARIA O DI SENSO
A SCUOLA NON SI PUÒ PARLARE ARABO
A CASA NON SI PUÒ PARLARE DANESE
UN COLPO UN GRIDO UN NUMERO
YAHYA HASSAN (Rizzoli, 2014), trad. it. B. Berni
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