martedì 19 maggio 2020

in ricordo di Yahya Hassan




Yahya Hassan, di poesia si muore - Francisco Soriano

Le dinamiche della prematura morte di Yahya Hassan, poeta, non sono ancora chiare. La scomparsa è stata annunciata dal suo editore, che ha definito come un “disastro” l’ellissi tragica di questo scrittore di 24 anni, morto una settimana fa a Copenhagen. Yahya aveva scritto versi incredibili e travolgenti, irriverenti e fecondi di spudorata onestà, che gli erano costati aggressioni fisiche, minacce di morte e una scorta che gli era stata assegnata al fine di garantirgli incolumità fisica. Il caso Yahya Hassan non si esaurisce certo nel silenzio della sua misteriosa morte che pone interrogativi, ma anche risposte che suscitano enorme indignazione.
La biografia di Yahya è storia di dolore, di una sofferenza che risiede in quell’altrove che non è affatto abitato da sirene e sogni concilianti, atmosfere apollinee e canti di primavera. Nasce nel 1995, ad Arhus, sulla costa orientale della penisola dello Jutland ma, in realtà, è figlio legittimo di quell’avamposto di profughi disperati e figli di una terra di confine e di confini che si chiama Palestina. I suoi genitori infatti sono apolidi palestinesi. Yahya non è solo un giovane musulmano di seconda generazione che risiede in qualche sobborgo delle luminose città europee: è soprattutto un poeta che a 18 anni ha scritto una raccolta di poesie che ha venduto in pochi mesi 120.000 copie nella sola Danimarca (mai nessuno aveva suscitato tanto interesse prima di lui in terra danese), ed è stato tradotto in venti lingue e in italiano, nel 2014.
In una delle sue poesie recita: NON AVEVAMO PROGETTI // PERCHÉ ALLAH LI AVEVA PER NOI. Affermare ciò, sarcasticamente, è condanna all’ostracismo, alla vergogna, al dissidio, alla vendetta. Yahya comincia in questo percorso di lotta a combattere con le armi della poesia, con le parole cocenti che penetrano la corteccia identitaria di un popolo in fuga che si sente oppresso. Sono soprattutto le parole di un musulmano che tradisce la sua fede percepita come monolitica identificazione del bene che trionferà sul male. Tuttavia, fra le giovani generazioni di figli di immigrati, soprattutto donne, non è l’unico giovane musulmano a ribellarsi alla propria cultura vista nell’ottica del patriarcato e dell’egemonia del potere come pratica imprescindibile delle regole divine. Infatti, la questione diventa politica ed etica, sociale e religiosa. Per la comunità mussulmana, Yahya rappresenta il pericoloso esempio di un “intemperante”, che ha sempre scatenato polemiche e violenze: TU VUOI LA PREGHIERA DEL VENERDI FINO AL PROSSIMO VENERDI // TU VUOI IL RAMADAN FINO AL PROSSIMO RAMADAN // E TRA LE PREGHIERE DEL VENERDI E I RAMADAN // TU GIRI CON IL COLTELLO IN TASCA.  Yahya ha uno stile moderno, scrive come un rapper, talvolta incastona voci del sottobosco urbano a parole raffinate di un vocabolario “alto”. In questo si legge anche la sua scelta apolide, il canto di guerra che rinnega la religione del padre, il padrone che torna a casa e picchia col bastone i figli. Yahya vede la sorella che sembra saltellare leggera sotto la gragnuola di botte e poi la madre, indifesa, a subire l’ennesimo oltraggio. La donna scappa, che importa, per il padre-padrone ne arriva un’altra, una “nuova” in bella posa dalla Tunisia. Non è tutto. Yahya rilascia un’intervista che oltraggia il pudore religioso e arriva, puntuale, la fatwa contro di lui: è il sigillo dell’infedele, l’ateo, il blasfemo. Solo la morte poteva dirimere la forza trasgressiva e il coraggio di questo “folle”.
Il dibattito intorno a questo poeta diventa dunque tema fondamentale e complesso in Danimarca. Alla fiera del libro di Copenhagen è lo scrittore di punta, lunghe file attendono le sue parole e i suoi autografi, il suo libro si esaurisce in poche ore. Yahya non è solo un poeta, è un combattente. La scrittura è tema dirompente nella letteratura danese, scrive solo in stampatello maiuscolo e dice, in un’intervista, che la scelta di questa modalità è per dare il senso di immediatezza, imprimere nettezza. L’utilizzo delle parole del giovane Yahya diventano a questo punto la sua scelta identitaria, si tatua la parola “ord” sul dorso della mano: il termine danese che significa “parola”, perché le parole sono la parte più essenziale nel mondo di oggi. Intanto, abbandona il genere di scrittura tipico del mondo musicale rap e sceglie la poesia che ritiene come l’unico modo con il quale può relazionarsi con la vita. Nella sua disputa con gli islamici residenti in Danimarca, Yahya traccia la sua critica senza mezzi termini, tacciandoli di incoerenza e, soprattutto, di incapacità ad accettare quel percorso di secolarizzazione che renderebbe questa religione forse più tollerante verso il prossimo. Per antonomasia, il poeta è permeato da valori indistruttibili come l’onestà, l’educazione, la capacità di verificare con le parole il dominio della bellezza e dell’armonia. Nelle sue opere poetiche però, il verso è incitamento alla pratica collettiva che desidera civiltà, è scrittura militante che odia l’indifferenza e parla chiaro in faccia agli ipocriti. Alla domanda se non pensa che nella raccolta di poesie si percepisca un evidente senso di smarrimento, religioso e sociale, così risponde: Io non mi sento un musulmano. Così come non mi sento danese. E nemmeno un semplice poeta. Secondo lei sembro un danese? L’origine conta. I miei genitori sono palestinesi. Mi sento palestinese. Uso il danese per scrivere, ma in famiglia parlo l’arabo. Più che altro, mi sento un essere umano[…] Quello che critico dell’Islam può essere detto anche di altre religioni, sia ben chiaro. Ma spesso la mia ex religione, a differenza di altre, purtroppo non riesce a uniformarsi alla modernità. E per questo trovo ipocrita quando i musulmani integralisti cercano rifugio in un Paese di “infedeli”. Trovo ipocrita campare sul welfare danese se non si condividono i principi di quel Paese. Trovo ipocrita, come racconto nel libro, andare in moschea il venerdì, non mangiare maiale e poi picchiare moglie e figli. Yahya diventa inesorabilmente preda di nemici piuttosto trasversali; critica gli islamisti e le destre nazionaliste, svergogna i fascisti populisti e gli indifferenti che non intravedono negli schieramenti, strutturati su valori ed etiche che si fondano su secoli di confronto, la possibilità di far parte di una lotta politica sincera e costruttiva: I musulmani danesi sono molto indottrinati. Che non significa essere terroristi, ci mancherebbe. Ma gli viene inculcata una visione del mondo molto tradizionalista, trasmessa di padre in figlio. E a volte risale a secoli fa. Colpa delle vessazioni subite per lunghissimo tempo, certo: campi profughi, povertà, violenze, nessuna istruzione. I problemi delle vecchie generazioni arrivano da lontano. Ma i giovani nati in Danimarca, come me, a volte neanche parlano arabo e non conoscono la storia del loro popolo. Così si crea una frattura insanabile. […] Le minacce di morte e la violenza purtroppo fanno parte della nostra società, non sono certo iniziate con il mio libro. Mi spiace solo che molti musulmani colti e capaci non si ribellino a tutto questo[…] Disprezzo i politici populisti di destra. Così come disprezzo i musulmani di destra. I fascisti sono sempre fascisti. Però, allo stesso tempo, rivendico il diritto di esprimere la mia opinione attraverso la poesia.  Restando nel campo dei suoi “oppositori trasversali”, Yahya pone l’accento su questioni che riguardano prettamente il tema dell’integrazione nei Paesi europei. Dopo aver ben descritto le ipocrisie del mondo a cui aveva appartenuto per origine e condizioni parla, con la dura nitidezza che lo contraddistingue, del sistema scolastico danese che lo ha espulso alla stregua di guardiani camuffati da educatori: TELECAMERE AL CANCELLO // GLI EDUCATORI MI CONFISCANO I VESTITI // E MI DANNO UN COMPLETO NERO // LE PRIME DUE SETTIMANE RESTO ISOLATO NELLA MIA CELLA // LO CHIAMANO ADATTAMENTO. Dunque, lo scrittore è vittima delle violenze del padre e della sua cultura dispotica ma anche della moderna società danese che, quasi contraddicendo i propri valori sui diritti, lo discrimina come soggetto difficile e lo esclude: il racconto a tinte fosche lo si trova nella poesia Dittatura educativa. Il tentativo di Yahya è quello di cambiare, mutare il sociale con il suo punto di vista facendo della letteratura la sua barricata. Lo stratagemma della mancanza di segni di interpunzione e l’apparente mancanza di connessioni sintattiche fra le frasi fanno di lui un poeta originale, ma non il preconizzatore di una nuova poesia. Tuttavia, accostarlo a un rapper è fuorviante e lui stesso dice di essersi sbarazzato, ad un certo punto, di questa modalità espressiva: Yahya è molto più intriso di medioriente di quello che sembra e le sue fulminee metafore e ossimori ne sono la prova provata.
L’esperienza e l’esperimento che Yahya fa della lingua utilizzata nelle sue poesie era nell’operazione coraggiosa di mescolare forme di socioletto al linguaggio appena più erudito, con l’inserzione di termini arabi che ben si insinuano nel contesto lirico creando dei veri e propri artifici sonori. In questo è innegabile il suo background di compositore di testi musicali a forte impatto multiculturale da sobborgo urbano e periferico, sociale ed economico. Dice di sé con il dovuto sarcasmo: UN GIORNO SONO UN POETA SANO E BEN INTEGRATO // ME CHE SCRIVO MAIL A LARS SKINNEBACH A PABLO LLAMBIAS A SIMON PASTERNAK // IL GIORNO DOPO SONO ACCUSATO DI FURTO D’AUTO E RAPINA IN STRADA E FURTO CON SCASSO // ME CHE SONO SOTTOPOSTO A INTERROGATORIO DI GARANZIA. A questo punto non è assolutamente irragionevole ritenere che le poesie di Yahya Hassan abbiano rappresentato per la Danimarca, ormai multiculturale per le ondate di migrazioni soprattutto dal medioriente, un nuovo standard linguistico. Come spesso accade molti hanno cercato di affiancarlo ai grandi poeti del passato, evocando addirittura il nome di Whitman o, in certi sprazzi rabbiosi e iperbolici, piuttosto Artaud. Sta di fatto che il suo stile gridato, la rabbia urlata in faccia con brevi parentesi di declamata vocazione al ricercato gergo della strada tipico di una certa poesia beat, ne hanno fatto un interprete di rilievo della nuova poesia danese. La sua scrittura è credibile, anche se troppo giovane e forse con una cultura informe per poter ambire a una forma poetica ben definita, Hassan è talmente viscerale e coinvolgente che si ama perché smaschera, chiarisce, rifugge la retorica, spiega l’ipocrisia. Ed ecco che lo scenario si fa duro, incombe la tragedia di un girovagare fra comunità di recupero e riformatori, anni spietati e crudeli che fanno della sua biografia un maledetto che si è riscattato.
Un riscatto che forse non è bastato a condurlo al di fuori dell’orrore della violenza e della intolleranza. Tuttavia, a chi dice che di poesia si può morire, Yahya Hassan ha risposto con l’eterna eco delle sue parole.

INFANZIA
CINQUE FIGLI IN FILA E UN PADRE CON LA MAZZA
POLIPIANTO E UNA POZZA DI PISCIO
SI TIRA FUORI LA MANO A TURNO
È QUESTIONE DI PREVEDIBILITÀ
QUEL RUMORE QUANDO ARRIVANO I COLPI
LA SORELLA CHE SALTA VELOCE
SU UN PIEDE POI SULL’ALTRO
IL PISCIO È UNA CASCATA SULLA GAMBA
PRIMA FUORI UNA MANO POI L’ALTRA
SE PASSA TROPPO TEMPO I COLPI VANNO A CASO
UN COLPO UN GRIDO UN NUMERO 30 O 40 A VOLTE 50
E UN ULTIMO COLPO SUL CULO USCENDO DALLA PORTA
PRENDE IL FRATELLO PER LE SPALLE LO RADDRIZZA
CONTINUA A COLPIRE E CONTARE
ABBASSO LO SGUARDO E ASPETTO IL MIO TURNO
MAMMA ROMPE PIATTI PER LE SCALE
E INTANTO AL JAZEERA TRASMETTE
BULLDOZER IPERCINETICI E MEMBRA ARRABBIATE
LA STRISCIA DI GAZA SOTTO IL SOLE
LE BANDIERE CHE VENGONO BRUCIATE
SE UN SIONISTA NON RICONOSCE LA NOSTRA ESISTENZA
SE POI DAVVERO ESISTIAMO
QUANDO SINGHIOZZIAMO ANGOSCIA E DOLORE
QUANDO BOCCHEGGIAMO IN CERCA D’ARIA O DI SENSO
A SCUOLA NON SI PUÒ PARLARE ARABO
A CASA NON SI PUÒ PARLARE DANESE
UN COLPO UN GRIDO UN NUMERO
YAHYA HASSAN (Rizzoli, 2014), trad. it. B. Berni

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