L’esercito
nei quartieri popolari e in periferia, con violenze della polizia. Non è
sicurezza, ma un ordine che si ricrea. È il tentativo del capitalismo di
risolvere le contraddizioni tra produzione e riproduzione sociale anche
recuperando il tema coloniale e ricombinando le segmentazioni delle linee
razziali per l’organizzazione del mercato del lavoro, per l’estrazione di
ricchezza dai corpi, per l’imposizione di nuove forme di subalternità e
segregazione. Innumerevoli gli esempi.
SI PENSI
ALLA FRANCIA che ha
approvato lo stato d’urgenza sanitario. «Si ispira – ha dichiarato il primo
ministro Édouard Philippe – alla legge del 3 aprile 1955», quando la Quarta
Repubblica tentò di disarticolare la rivoluzione algerina. Prevedeva il
coprifuoco, le perquisizioni senza mandato, gli arresti domiciliari, il divieto
di riunione e, più avanti, di ritrovo nei luoghi religiosi, la creazione di
perimetri di sicurezza. Per lo storico Léopold Lambert la legge approvata da
Mendes-France è «un regime esacerbato di strutture coloniali che continuano ad
esistere». Fu usata contro l’insurrezione in Nuova Caledonia nel 1985 e per
spegnere la rivolta del 2005 nelle periferie. Il nuovo dispositivo ha isolato
le banlieue, in cui si muore di più, ha fatto 5 morti e provocato rivolte in 30
comuni.
È POSSIBILE
LEGGERE l’impiego
della colonialità
lungo tracciati planetari. Di New York hanno già scritto in
molti: i neri muoiono due volte più dei bianchi. E a seguire i latinos. Le
posizionalità delle due categorie, rispetto all’accesso alla sanità, sono il
risultato dell’eredità di fenomeni storici con periodizzazioni e geografie
differenti: la schiavitù e la condizione dei neri negli Usa da un lato;
dall’altro, il confine nord-sud delle Americhe, tra eredità coloniali e
imperialismo.
In America
Latina sono numerose le sommosse in carcere – oltre 300 i contagi a Santiago
del Cile. In Salvador, i detenuti sono ammassati come schiavi nei cortili.
Situazioni disastrose anche in Perù, Repubblica Dominicana e in Colombia, nelle
zone più povere e in periferia, nelle favelas brasiliane.
IN MEDIO
ORIENTE la
pandemia si sovrappone ad altre tensioni politiche, sociali, economiche, con
effetti esplosivi, come in Libano dove è stato imposto il coprifuoco e dove si
sono svolte manifestazioni contro il carovita e la corruzione dei politici. In
Palestina i blocchi delle autorità coloniali israeliane, dalla West Bank a
Gaza, potrebbero avere effetti devastanti.
E poi, c’è
la questione dei rifugiati. Prima sono stati tacciati di essere gli untori e
ora sono pericolosamente confinati nei campi. Dalla Giordania alla rotta
balcanica alle isole greche. In Africa, estrattivismo, deforestazione, land
grabbing hanno corrotto interi ecosistemi, rendendo impossibile l’accesso
all’acqua per 395 milioni di persone e ai servizi sanitari per 704 milioni. Il
controllo sociale è imposto recuperando modelli di governo coloniale: si pensi
alle misure militari dalla Nigeria al Burkina Faso.
A INIZIO
EPIDEMIA, in Italia
la colpa era dei «gialli». Poi c’è chi, come Libero, se l’è presa
con i neri perché non si sarebbero ammalati come i bianchi e per l’apertura dei
porti a 274 migranti. A Pasquetta, dopo che Di Maio ha dichiarato l’Italia
«luogo non sicuro« per lo sbarco, e Libia e Malta hanno fatto finta di nulla,
si sono contati 11 morti su un barcone alla deriva. Tornati a Tripoli, i 51
superstiti sono stati gettati in prigione.
E poi c’è il
dibattito sulla regolarizzazione per l’agricoltura: Igiaba Scego e Leila El
Houssi hanno parlato di un déjà-vu di coloniale memoria, del
«migrante» ridotto a «bestia da soma». Anche Ranabir Samaddar, in
un’intervista, parlando dei lavoratori migranti indiani come corpi due volte
alieni – a casa e nel paese dove lavorano – provoca un’eco che ricorda la
«doppia assenza» di Sayad e la «zona di non essere» di Fanon.
DICE BENE
MIKE DAVIS: «il
capitalismo è il responsabile della crisi». E se, come chiarito da Naomi Klein,
«il capitalismo sta già stilando la lista dei desideri», accanto agli
autoritarismi (Netanyahu, Bolsonaro, Trump, Orbán) compaiono nuove riformulazioni
delle gerarchie della razza legate al lavoro e alla cittadinanza.
Su queste
traiettorie si stanno già ricostruendo i contesti post-pandemia, attraverso un
archivio di discorsi, immagini e pratiche.
Il
colonialismo è tutt’altro che rimosso: si può non conoscere la storia, ma
ricordare bene il lessico della razza.
La mappa
delle genealogie razziali al lavoro mostra un mondo in divenire che può essere
interpretato con uno sguardo intersezionale. La proposta più convincente –
incrociando razza, genere e classe – arriva da Angela Davis che invita le tante
soggettività a un nuovo ciclo di lotte e alla solidarietà internazionale
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