lunedì 18 maggio 2020

Quella colonialità che riemerge nella gestione del covid - Gabriele Proglio


L’esercito nei quartieri popolari e in periferia, con violenze della polizia. Non è sicurezza, ma un ordine che si ricrea. È il tentativo del capitalismo di risolvere le contraddizioni tra produzione e riproduzione sociale anche recuperando il tema coloniale e ricombinando le segmentazioni delle linee razziali per l’organizzazione del mercato del lavoro, per l’estrazione di ricchezza dai corpi, per l’imposizione di nuove forme di subalternità e segregazione. Innumerevoli gli esempi.
SI PENSI ALLA FRANCIA che ha approvato lo stato d’urgenza sanitario. «Si ispira – ha dichiarato il primo ministro Édouard Philippe – alla legge del 3 aprile 1955», quando la Quarta Repubblica tentò di disarticolare la rivoluzione algerina. Prevedeva il coprifuoco, le perquisizioni senza mandato, gli arresti domiciliari, il divieto di riunione e, più avanti, di ritrovo nei luoghi religiosi, la creazione di perimetri di sicurezza. Per lo storico Léopold Lambert la legge approvata da Mendes-France è «un regime esacerbato di strutture coloniali che continuano ad esistere». Fu usata contro l’insurrezione in Nuova Caledonia nel 1985 e per spegnere la rivolta del 2005 nelle periferie. Il nuovo dispositivo ha isolato le banlieue, in cui si muore di più, ha fatto 5 morti e provocato rivolte in 30 comuni.
È POSSIBILE LEGGERE l’impiego della colonialità lungo tracciati planetari. Di New York hanno già scritto in molti: i neri muoiono due volte più dei bianchi. E a seguire i latinos. Le posizionalità delle due categorie, rispetto all’accesso alla sanità, sono il risultato dell’eredità di fenomeni storici con periodizzazioni e geografie differenti: la schiavitù e la condizione dei neri negli Usa da un lato; dall’altro, il confine nord-sud delle Americhe, tra eredità coloniali e imperialismo.
In America Latina sono numerose le sommosse in carcere – oltre 300 i contagi a Santiago del Cile. In Salvador, i detenuti sono ammassati come schiavi nei cortili. Situazioni disastrose anche in Perù, Repubblica Dominicana e in Colombia, nelle zone più povere e in periferia, nelle favelas brasiliane.
IN MEDIO ORIENTE la pandemia si sovrappone ad altre tensioni politiche, sociali, economiche, con effetti esplosivi, come in Libano dove è stato imposto il coprifuoco e dove si sono svolte manifestazioni contro il carovita e la corruzione dei politici. In Palestina i blocchi delle autorità coloniali israeliane, dalla West Bank a Gaza, potrebbero avere effetti devastanti.
E poi, c’è la questione dei rifugiati. Prima sono stati tacciati di essere gli untori e ora sono pericolosamente confinati nei campi. Dalla Giordania alla rotta balcanica alle isole greche. In Africa, estrattivismo, deforestazione, land grabbing hanno corrotto interi ecosistemi, rendendo impossibile l’accesso all’acqua per 395 milioni di persone e ai servizi sanitari per 704 milioni. Il controllo sociale è imposto recuperando modelli di governo coloniale: si pensi alle misure militari dalla Nigeria al Burkina Faso.
A INIZIO EPIDEMIA, in Italia la colpa era dei «gialli». Poi c’è chi, come Libero, se l’è presa con i neri perché non si sarebbero ammalati come i bianchi e per l’apertura dei porti a 274 migranti. A Pasquetta, dopo che Di Maio ha dichiarato l’Italia «luogo non sicuro« per lo sbarco, e Libia e Malta hanno fatto finta di nulla, si sono contati 11 morti su un barcone alla deriva. Tornati a Tripoli, i 51 superstiti sono stati gettati in prigione.
E poi c’è il dibattito sulla regolarizzazione per l’agricoltura: Igiaba Scego e Leila El Houssi hanno parlato di un déjà-vu di coloniale memoria, del «migrante» ridotto a «bestia da soma». Anche Ranabir Samaddar, in un’intervista, parlando dei lavoratori migranti indiani come corpi due volte alieni – a casa e nel paese dove lavorano – provoca un’eco che ricorda la «doppia assenza» di Sayad e la «zona di non essere» di Fanon.
DICE BENE MIKE DAVIS: «il capitalismo è il responsabile della crisi». E se, come chiarito da Naomi Klein, «il capitalismo sta già stilando la lista dei desideri», accanto agli autoritarismi (Netanyahu, Bolsonaro, Trump, Orbán) compaiono nuove riformulazioni delle gerarchie della razza legate al lavoro e alla cittadinanza.
Su queste traiettorie si stanno già ricostruendo i contesti post-pandemia, attraverso un archivio di discorsi, immagini e pratiche.
Il colonialismo è tutt’altro che rimosso: si può non conoscere la storia, ma ricordare bene il lessico della razza.
La mappa delle genealogie razziali al lavoro mostra un mondo in divenire che può essere interpretato con uno sguardo intersezionale. La proposta più convincente – incrociando razza, genere e classe – arriva da Angela Davis che invita le tante soggettività a un nuovo ciclo di lotte e alla solidarietà internazionale

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