1 - Le parole della
Ministro della Scuola confondono gli studenti (e non solo)
“Voglio rassicurare i genitori e i
ragazzi: il rischio che gli studenti possano perdere l’anno scolastico non
c’è”, scrive su facebook la ministra della scuola Azzolina a fine
febbraio (qui)
“anche se tutti saranno promossi,
ci saranno anche le insufficienze, i 5 e i 4”, dice in un’intervista la
ministra della scuola Azzolina a metà aprile (qui)
“per tutti è garantito il passaggio
alla classe successiva, ma poi a settembre per chi ha conseguito valutazioni
non sufficienti la strada sarà impervia”. dice la ministra della scuola Lucia
Azzolina a fine aprile, rivolgendosi agli studenti durante una diretta in un
sito internet (qui)
Una domanda: che gli studenti
sarebbero tutti stati promossi non sarebbe stato meglio dirlo il 5 giugno? E
un’altra: la Ministra ha una strategia, o parla a braccio?
Forse prima sarebbe meglio
pensare (bene), e poi parlare, nel mondo reale funziona così.
Inoltre la ministra ha creato i
promossi ope Covid-19 (effetto collaterale: anche quelli che alla fine del
primo quadrimestre avevano la media del 2, e che avrebbero continuato a non
fare niente saranno promossi, si fa il loro bene, naturalmente, quando si sa
che l’anno prossimo dovranno fare 2 anni in uno. Qualcuno sarebbe tranquillo se
dessero la patente a chi non sa guidare?)
2 – Effetti
indesiderati (solo chi non sa niente di scuola poteva non prevederli)
Dice la legge che “…per
procedere alla valutazione finale di ciascuno studente, è richiesta la
frequenza di almeno tre quarti dell'orario annuale…”(DPR 22 giugno 2009 , n.
12), con numerose deroghe, come è giusto.
Non ho mai capito la logica della
norma su citata. Da sempre chi a scuola viene poco, salvo miracoli, e con
eccezione per i geni (che non sono la maggioranza) non passerà l’anno
scolastico. È una norma di cui non si sentiva il bisogno, anche perché
l’interpretazione degli studenti (parlo delle superiori) è stata, da allora,
"fino al 25% di assenze non c’è problema", molti se le fanno tutte, o
quasi, quelle assenze, prima non l’avrebbero fatto.
Oggi fra coloro i quali si
presentano alle videolezioni, molto o pochi, dipende dalle classi, appena
connessi spengono la videocamera e giocano con il loro telefonino, attività
nella quale eccellono (avranno un futuro assicurato, nei call center). Però
sono stati presenti, hanno "preso" la presenza, che gran passo per la
scuola e per l’umanità, queste videolezioni.
È nata la scuola del futuro?
3 - Chi comanda a
scuola si chiama Registro Elettronico
Da quando è apparso nelle aule, nei
computer delle aule, a volte nei computer privati degli insegnanti ha reso la
vita facilissima. Quando si accende il computer a volte passano 5 minuti altre
volte di più, solo per connettersi, e poi per mettere la firma, le assenze, i
contenuti delle lezioni, i compiti assegnati, ci vorrà del tempo, rubato alla
lezione con gli alunni, naturalmente. Il registro cartaceo non è più di moda.
Tutto quello che è tecnicamente possibile si fa, senza discussione.
Ma la cosa più grave è un’altra, le
società che li producono e li gestiscono, contenendo tutti i dati sono società
private (chissà se c'entrerà il fatto che negli anni al Ministero della pubblica
istruzione hanno cancellato l'aggettivo pubblica?).
Funziona così: ogni scuola, nella
sua autonomia, decide a chi affidare il servizio, ci sono diverse società che
lo fanno. In più ogni tanto cambiano qualcosa, costringendo tutti ad adattarsi,
anche se va peggio (non sempre, lo ammetto, ma anche gli orologi rotti segnano
l’ora giusta due volte al giorno).
C’è un modo di dire perfetto per
questi casi: “se il solo strumento che possedete è un martello, vedrete in ogni
problema un chiodo”; l’informatica (comprensiva di software) è il martello, la
scuola è il chiodo, se non si era capito.
Domanda: è possibile che fra le
centinaia di dirigenti pagati profumatamente (agli occhi dei lavoratori dei
singoli istituti) nessuno abbia pensato a un registro elettronico programmato
dal Ministero, o da una società ad esso riconducibile, uguale per tutte le
scuole? Forse che nell’Amministrazione Finanziaria ogni sede usa il programma
che vuole?
Domande: il registro elettronico è
una concessione alle esigenze dei genitori di poter controllare i figli perché
non si fidano di loro?
Quando vedono un numeretto che
misura una prestazione dell’erede stanno tranquilli così, finisce lì, o vanno a
scuola, o scrivono una mail al docente per chiedere il perché e il percome del
numeretto? Come quando ritirano le analisi del sangue ci sono numeretti, ma
vanno comunque dal medico.
Forse il registro elettronico
svolge la funzione del carabiniere, serve per controllare i figli e i
professori, domanda, provare a parlare non servirebbe di più, non sarebbe
meglio?
4 – “Si può portare
il cavallo alla fontana, ma non lo si può convincere
a bere"
diceva spesso Keynes. Puoi provare
a fare le cose più belle del mondo, in classe, quella vera, a volte riesci a
interessare gli alunni, che sono stati costretti a depositare gli smartphone in
un cassetto della cattedra, o in una scatola (a volte viene depositato un
telefono non funzionante, spesso gli studenti hanno due telefonini).
Ma con le videolezioni come fai? Se
riesci a vedere gli studenti in viso quasi sempre gli occhi sono rivolti verso
il basso, sul telefonino.
Diceva Frank Zappa: “Una delle mie
tesi filosofiche preferite è che la gente sarà d'accordo con te solo se è già
d'accordo con te. Non riesci a cambiare la mente degli altri.”
A scuola succede lo stesso, gli
studenti possono imparare se vanno a scuola con l’idea, il bisogno, la voglia
di imparare.
Altrimenti niente può vincere il
fascino dello smartphone, terribile e sottostimata arma di distrazione di massa
(non solo tra i giovani).
Battere lo smartphone a scuola è la
missione impossibile.
Forse non tutti sanno che esiste
una patologia che si chiama nomofobia (acronimo di No Mobile), per la quale si
va in cura nei SerD (vedi qui e qui).
Naturalmente chi ha questa patologia, se glielo dice, ride, giovani e genitori,
come quando per chi beve troppo spesso si sorride dicendo un bicchiere ogni
tanto cosa potrà fare, o come quando uno è troppo spesso “fatto” si sorride
dicendo drogarsi ogni tanto non può fare così male.
A quando l’intervento dei SerD
nella scuola per la nomofobia?
In un libro intitolato
“Demenza Digitale“, di Manfred Spitzer, che dovrebbe far riflettere sui
computer (e non solo) a scuola (e non solo), l’autore afferma:
“chi è favorevole all’introduzione
dei media digitali nelle scuole usando soldi pubblici, deve prima dimostrare
l’effetto positivo di questa misura. Gli studi a disposizione ci inducono a
pensare che portatili e lavagne interattive nelle scuole ostacolino il processo
di apprendimento e quindi danneggino gli alunni”
”i computer elaborano informazioni.
Da qui si deduce erroneamente che i computer siano strumenti ideali di
apprendimento. Invece, proprio il fatto di sottrarci il lavoro mentale, i
computer non sono adatti per imparare meglio. L’apprendimento presuppone una
lavoro mentale autonomo: più a lungo, e sopratutto in modo più approfondito, si
elabora un contenuto, meglio lo si impara”
“il cervello di un adulto è
sostanzialmente diverso da quello ancora in via di sviluppo di un bambino.
Questo semplice fatto viene praticamente ignorato da tutti gli esperti che si
occupano del tema dei media digitali in ambito educativo”
“l’aspetto più ingannevole nel
concetto di competenza mediatica è che per utilizzare internet non è necessaria
alcuna capacità specifica. Ciò che serve è invece una solida cultura di base o
generale. Chi già ne dispone potrà trovare molti contenuti su internet e
informarsi in maniera approfondita. Chi invece non conosce (ancora) niente non
diventerà più colto tramite i media digitali. Perché è necessario avere
conoscenze preliminari di un determinato contenuto per poterlo approfondire.
Chi non è convinto può provare a inserire in un motore di ricerca un contenuto
di cui non sa assolutamente nulla. Si accorgerà ben presto che Google non è in
grado aiutarlo. Vale invece il contrario: più so, prima trovo in rete i
dettagli che mi erano sconosciuti.” (da
qui)
5 - dice una delle leggi di Murphy:
5 - dice una delle leggi di Murphy:
chi sa insegnare insegna.
chi non ha mai insegnato (o non sa insegnare) insegna agli insegnanti come insegnare.
6 - un paradosso della didattica a distanza
Non succede sempre, ma succede.
Il fatto è questo: coloro i quali, nella tradizionale aula, diciamolo, non erano granchè nella funzione didattica e docente, nella didattica a distanza (dove si esercitano le stesse funzioni, che con un cambio di vocale diventano finzioni) diventano straordinari.
Alcuni ricercatori sono all'opera per capirci qualcosa, e anche i linguisti specializzati in slittamento vocalico sono al lavoro.
6 - un paradosso della didattica a distanza
Non succede sempre, ma succede.
Il fatto è questo: coloro i quali, nella tradizionale aula, diciamolo, non erano granchè nella funzione didattica e docente, nella didattica a distanza (dove si esercitano le stesse funzioni, che con un cambio di vocale diventano finzioni) diventano straordinari.
Alcuni ricercatori sono all'opera per capirci qualcosa, e anche i linguisti specializzati in slittamento vocalico sono al lavoro.
7 – E adesso un po’ di
fantascuola.
E se ipotizzassimo che fra qualche
anno le scuole (magari solo quelle secondarie superiori, tranne i licei di
vecchi stampo, per un numero di studenti programmato, per diventare le future
classi dirigenti) diventassero luoghi nei quali dalle LIM (lavagne interattive
multimediali) trasmettessero delle videoconferenze ministeriali con risposte
preconfezionate, si mette una crocetta e via, se si sbaglia non importa, si
potranno rifare i test mettono croci finché non si raggiunge la sufficienza
(succede già oggi, in certe attività)?
I genitori devono lavorare, come
farebbero a lasciare gli studenti a casa? Gli studenti apprenderebbero qualche
nozione, non ne servono tante per far parte delle classi non dirigenti, e
passerebbero il tempo, e imparerebbero a essere sottomessi.
Come tutte le cose impossibili, non
verrà realizzata, ma se smette di essere impossibile?
Tante domande, direbbe Bertolt
Brecht.
(ogni riferimento alla realtà non è
casuale, parlando della scuola secondaria superiore)
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Concorsi ed Esame di Stato: per Azzolina inizia
la “fase 6 - the walking dead”
Esami di Stato e concorsi in presenza, l’uno-due della ministra Azzolina in
tre giorni ci porta direttamente nella “fase 6 - the walking dead” della
pandemia, per cui da un lato docenti ed alunni dopo quattro mesi di chiusura
delle scuole e Didattica rigorosamente a Distanza dovranno tornarci
per un Esame di Stato di cui non si sente alcuna necessità, dall’altro più
di 80mila precari dovranno sostenere una prova computer
based nella calura agostana, ammassati in centinaia, se non migliaia, in
aule, palestre o, perché no, palazzetti dello sport. Una scelta
incomprensibile, frutto dell’assenza totale di coraggio che avrebbe dovuto
portare il ministro a bandire un concorso per titoli e servizi, nonché
concludere l’anno scolastico con uno scrutinio finale senza Esame di Stato.
Immaginiamo già le scene da serie horror, in cui studenti, insegnanti e candidati del concorso, bardati di mascherine di ordinanza, protetti da parafiati, che speriamo le scuole abbiano i soldi per acquistare, forse in realtà chiusi in una scuola fantasma, cercheranno di scampare agli “zombi sopravvissuti” che tentano di entrare.
Immaginiamo già le scene da serie horror, in cui studenti, insegnanti e candidati del concorso, bardati di mascherine di ordinanza, protetti da parafiati, che speriamo le scuole abbiano i soldi per acquistare, forse in realtà chiusi in una scuola fantasma, cercheranno di scampare agli “zombi sopravvissuti” che tentano di entrare.
La verità è che il ministro dovrebbe dimettersi il prima
possibile per consentire finalmente una gestione razionale del mondo della
scuola di fronte alla più grave crisi mai avvenuta dalla fondazione della
Repubblica. La sfida della salute pubblica è troppo importante per tutti per
consentire al ministro Azzolina di continuare a perseverare nei suoi
errori.
È arrivato il momento di chiudere quest’anno scolastico tribolato senza alcun esame di Stato, consentendo inoltre ai precari di arrivare in cattedra il primo settembre con un concorso per titoli e servizi, concentrando le forze del ministero, degli Uffici Scolastici, dei dirigenti, di docenti ed ATA sull’anno scolastico 2020/2021, perchè dovremo garantire il diritto allo studio in una scuola pubblica statale che chiede investimenti in edilizia scolastica e molti più docenti e personale Ata, al fine di garantire scuole sicure, distanziamento sociale, salute pubblica, permettendo a tutti noi di superare la DaD, che - lo ribadiamo ancora - non è didattica, e consentire che si svolga in piena sicurezza un anno scolastico in presenza.
È arrivato il momento di chiudere quest’anno scolastico tribolato senza alcun esame di Stato, consentendo inoltre ai precari di arrivare in cattedra il primo settembre con un concorso per titoli e servizi, concentrando le forze del ministero, degli Uffici Scolastici, dei dirigenti, di docenti ed ATA sull’anno scolastico 2020/2021, perchè dovremo garantire il diritto allo studio in una scuola pubblica statale che chiede investimenti in edilizia scolastica e molti più docenti e personale Ata, al fine di garantire scuole sicure, distanziamento sociale, salute pubblica, permettendo a tutti noi di superare la DaD, che - lo ribadiamo ancora - non è didattica, e consentire che si svolga in piena sicurezza un anno scolastico in presenza.
Per questo USB organizza una assemblea pubblica l’8 maggio alle ore
16:00, sul tema del precariato e della ripresa dell’anno
scolastico, in diretta sulla nostra pagina FB e sui nostri siti, per ragionare
insieme sulle forme della necessaria mobilitazione.
Contro gli
insegnanti: la nuova linea della ministra Azzolina - Giovanni Carosotti
Sarebbe
stato un bene fosse proseguito quel clima di attesa e di sospensione del
giudizio che, in un primo momento, sembrava dovesse prevalere tra tutte le
parti che in questi anni si sono confrontate, anche molto polemicamente, sui
destini della scuola italiana; anche in considerazione della opportunità di non
strumentalizzare a proprio favore una situazione drammatica, che non
coinvolge certo solo la scuola. Sembrava opportuno, semmai, confrontarsi a
emergenza conclusa, in base alle esperienze acquisite, per valutare quanto
della propria cultura professionale fosse stato messo in gioco e quali
considerazioni trarne. È durato però poco. Come già testimoniato da Roars, la tentazione di strumentalizzare il ricorso
obbligato alla “didattica a distanza” ha sedotto alcuni in modo irresistibile,
con l’obiettivo –che sembra centrato- di condizionare l’azione di governo verso
svolte autoritarie che si vorrebbero irreversibili.
Ad alzare
pericolosamente i toni –ma a nostro parere con intenzione voluta, visto
gli effetti che sembra avere prodotto presso il MIUR- è stato un comunicato firmato da una ventina di Dirigenti
Scolastici. Avendo già destinato un’analisi accurata a questo testo, nella
parte finale di un intervento dedicato proprio alle conseguenze
e alle problematicità della “didattica a distanza”, a
quello rimandiamo per non appesantire ulteriormente la presente
nota. Il documento auspica in ogni caso una
torsione decisamente autoritaria nell’organizzazione del lavoro
scolastico, che prevede un potere pressoché totale dei Dirigenti Scolastici
(esplicitamente rivendicato dai firmatari) sui docenti, ai quali viene negato
il diritto di scegliere «che cosa insegnare»; essi vengono concepiti quali
semplici esecutori («operatori» è l’espressione che prediligono i documenti
ministeriali) di procedure e pratiche decise in altri contesti. Senza tenere
conto di quanto queste pratiche siano contestate e non esista alcuna ragione
scientifica per imporle in modo assoluto; laddove c’è un dibattito in corso, il
vero interesse degli studenti –che tali Dirigenti non si sa per quale motivo
pretenderebbero di rappresentare in modo esclusivo- è che sia preservato un
pluralismo delle proposte metodologiche che garantisca un continuo confronto
sui risultati ottenuti, nel rispetto del lavoro di tuti. E invece, secondo
questi dirigenti:
«Formazione
obbligatoria, per tutti, valutazione per competenze, uso di tecnologie nella
didattica. Sono anni che ci riempiamo la bocca con queste parole, adesso è il
momento di metterle in pratica, tirarsi su le maniche e fare comunità»
Laddove la
comunità è intesa come allineamento (questo verbo viene
esplicitamente utilizzato poco dopo) totale alle loro prescrizioni. Il
testo si caratterizza peraltro in una evidente insofferenza verso l’art. 33
della Costituzione, del quale i Dirigenti in questione vorrebbero offrire
un’interpretazione autentica (chiedono a chi non la pensa come loro di
«informarsi bene») che ci appare quanto meno problematica e piuttosto
semplificata.
«In
ultimo chiediamo a chi urla ai quattro venti invocando la libertà di
insegnamento, di informarsi bene. Il docente non è libero di
insegnare oppure no. E nemmeno di scegliere cosa insegnare. Il
docente si allinea al PTOF della sua scuola, si
attiene alle Indicazioni Nazionali, organizza il suo lavoro in
raccordo con i documenti della scuola in cui esercita il suo
ruolo, e alle disposizioni che il Ministero emana, come in
quest’ultimo caso»
Una
posizione, a nostro parere, decisamente reazionaria, sia per come concepisce le
relazioni interne alla comunità scolastica, sia perché in contrasto con quei
valori civili che la Costituzione assegna alla scuola della Repubblica. Ma,
come detto, rimandiamo per un’analisi più accurata all’articolo sopra citato.
Ecco però
comparire su “Orizzonte Scuola” un articolo che ci informa di come «il Ministro
Azzolina» abbia «firmato il decreto con cui conferisce incarico di consulenza
ad esperti di innovazione didattica e formazione». Ci si aspetterebbe che di
tale gruppo di consulenti facessero parte esponenti delle diverse opzioni in
gioco, in modo da offrire al ministro un ampio numero di soluzioni possibili
rispetto a un quadro mai così problematico come quello offerto dalla situazione
odierna. Invece a costituire questo gruppo troviamo –stando alle informazioni
dell’articolo- solo dei sostenitori dell’innovazione didattica a senso unico:
vi compare un docente in pensione di matematica e scienze, il prof. Giuseppe
Paschetto, il cui merito sarebbe quello di essere rientrato tra i 50 finalisti
(i «super insegnanti») scelti dalla VarkeyFoundation per
il Global Teacher Prize. Possibile come scelta, in
un contesto di rispetto reciproco. Ma ovviamente in tendenza con quella linea
di politica internazionale distruttrice della scuola fondata sui valori
culturali, ben rappresentata da una linea a nostro parere fortemente demagogica come quella del Global Teacher Prize.
Ad
affiancarlo, proprio la prima firmataria del documento dei Presidi, la
Dirigente Scolastica Amanda Ferrario. Che peraltro, a certificare una decisa
continuità con i ministeri precedenti, aveva già collaborato con il ministro Bussetti.
Ci saremmo
aspettati che quel documento così eccessivo ed estremista, soprattutto per la
leggerezza e l’insofferenza con cui liquida il riferimento all’articolo 33
della Costituzione, avesse costituito un motivo di imbarazzo per il ministero.
Sicuramente non mancherebbero personalità di più alto profilo intellettuale, e
di maggiore competenza costituzionale, che meriterebbero di essere chiamate a
questo lavoro di consulenza. La ministra, dunque, con questo decreto, riteniamo
assuma quel documento quale linea guida rispetto alle trasformazioni che
intende imporre alla scuola. Una soluzione che suona, a nostro avviso, come una
dichiarazione di guerra verso i docenti e verso la loro professionalità.
Ancora una
volta si è scelto
di non ritenere i docenti quali principali attori
della vita scolastica e primi interlocutori del ministero; si
prendono delle decisioni alle loro spalle che ne condizionano pesantemente
l’esercizio libero della loro professionalità, approfittando anche
della loro attuale condizione di isolamento, che rende difficile
una risposta organizzata e un confronto collegiale. Un bel ringraziamento
rispetto allo sforzo che stanno compiendo per salvare l’anno scolastico e
offrire risorse ai loro studenti. Sarebbe anzi da argomentare –ma non è il caso
di farlo qui, e in parte ci abbiamo provato nell’articolo citato sopra- quanto
proprio questa emergenza renda indisponibili e inefficaci le forme di
innovazione didattica più radicali, incapaci nella loro vuota formalità di dare
un senso compiuto a un’esperienza così drammatica e straniante quale quella che
gli studenti stanno attualmente vivendo.
Una parabola
sicuramente negativa –e nei modi così radicali inattesa- della politica
scolastica del Movimento 5 Stelle, che ha scelto di agire in piena continuità
con le scelte conservatrici di questi ultimi anni inaugurate con la Legge 107;
di assecondare le indicazioni delle associazioni più inclini a sacrificare la
scuola e la formazione degli studenti a un’ideologia economicistica dal corto
respiro. All’interno di quel movimento ci sarebbero ancora delle voci critiche;
sarebbe bene emergessero offrendo agli insegnanti una sponda nella loro volontà
di evitare una tale deriva.
da
qui
da Ferdydurke - Witold Gombrowicz
”… Ma hanno il tatto, l’esperienza e la consapevolezza per una missione importante come l’insegnamento?”
“Sono i migliori cervelli della capitale,” replicò il preside. “Non ce n’è uno che abbia un’idea sua. Se proprio a qualcuno dovesse venirgliene una, ci penserei io a far sloggiare l’idea o l’ideatore. Sono nullità innocue, insegnano solo quello che c’è nei programmi scolastici! No, no, nessun pericolo che gli venga un’idea originale".
(da qui)
da Ferdydurke - Witold Gombrowicz
”… Ma hanno il tatto, l’esperienza e la consapevolezza per una missione importante come l’insegnamento?”
“Sono i migliori cervelli della capitale,” replicò il preside. “Non ce n’è uno che abbia un’idea sua. Se proprio a qualcuno dovesse venirgliene una, ci penserei io a far sloggiare l’idea o l’ideatore. Sono nullità innocue, insegnano solo quello che c’è nei programmi scolastici! No, no, nessun pericolo che gli venga un’idea originale".
(da qui)
I conti non tornano, la scuola
smart pensata per pochi - Jacopo
Rosatelli
Il rientro a
scuola sarà complesso. Nei ragionamenti sulla fase due si evocano lezioni nei
giardini degli istituti o nei musei, aule rimodulate, mix virtuosi di didattica
online e in presenza: bello e impossibile. O meglio, possibile solo per chi ha
risorse, spazi adatti, contesti accoglienti: insomma, per chi è avvantaggiato,
e magari anche prima del virus riusciva a fare scuola in maniera «creativa».
L’entusiasmo per le magnifiche sorti e progressive generate dalla crisi ignora
che il sistema già fatica a funzionare in condizioni normali. Dilaga il
precariato, mancano presidi e direttori amministrativi: non è certo l’ideale
per affrontare tutti gli adempimenti che la riapertura imporrà. Se si
considera, inoltre, che nei migliori dei casi le procedure di nomina dei
supplenti si portano via l’intero settembre, immaginare quel che può accadere
in tempi di coronavirus dà i brividi.
Ammettiamo
tuttavia che il precariato, per magia, scompaia. Che l’intero organico – dal
troppo spesso dimenticato personale amministrativo, tecnico e ausiliario sino
ai dirigenti – sia coperto da titolari di ruolo. Le prime settimane, afferma la
ministra, saranno dedicate «a chi è rimasto indietro». Giusto. Posto che, per
essere efficaci nel poco tempo disponibile, i corsi di recupero dovranno essere
intensivi, viene da chiedersi: ha senso sottoporre alunni con difficoltà di
apprendimento a uno sforzo eccezionale con l’ansia di rimettersi in fretta «al
pari degli altri»? Probabilmente no. Ma nemmeno ripartire ignorando le carenze.
I risvolti pedagogico-didattici del recupero a settembre mostrano già la
magnitudine dei problemi.
Tra le
ipotesi per la ripresa circolano doppi turni e riduzione dei gruppi-classe per
evitare il «pollaio». Se si dovranno mantenere davvero le distanze (e
trascurando cosa significhi obbligare persone in età scolare a stare distanti),
ogni classe andrà divisa. Delle due l’una: o si raddoppiano i docenti (e le
aule) o si dimezzano le ore a scuola di ciascun allievo, perché le ore del
singolo insegnante restano le stesse. Tertium non datur. Si fa un
po’ in presenza e il resto si continua online? A prescindere dal fatto che non
tutto si può fare online – dalla ginnastica al laboratorio di cucina -,
proviamo a fare un esempio concreto. Matematica alle medie, quattro ore per
classe: il docente farebbe due ore con ciascuna metà classe, le altre due
online con l’intero gruppo. Ma i conti non tornano: quell’insegnante farebbe in
tutto sei ore. Pagato per quattro, però. E anche volendo ammettere – senza
concedere – che il corpo docente faccia un enorme straordinario vista
l’eccezionalità della situazione, si porrebbe il problema delle risorse per pagare
le ore eccedenti.
Gli scenari
sono facili a dirsi, ma chi prefigura la scuola smart ha
spesso in mente contesti privilegiati e non ha sufficiente considerazione del
lavoro necessario. Si deve fare di tutto per tornare in classe, ma i voli
pindarici sulla fase due tradiscono scarsa dimestichezza con la realtà, se non
la volontà di pretendere dalla scuola senza riconoscerle nulla. Quel che serve,
invece, è che si imposti, ascoltando associazioni e sindacati, un anno che
faccia i conti, tristemente ma realisticamente, con orari ridotti per gli
alunni. Capendo, subito, come porvi rimedio, usando le risorse in modo
perequativo e attivando ogni supporto del territorio per evitare che i costi
della frequenza diminuita si scarichino su famiglie lavoratrici e genitori
single. Alla scuola il compito costituzionale di impegnarsi per attivare le
capacità di bambini e ragazzi in quella che sarà una sorta di «alternanza
scuola/casa» in cui le condizioni della casa non dovranno fare alcuna
differenza.
Il
“fattore umano” della scuola - Luigi Ballerini
Chissà come si
divertivano. Titola così un racconto di Isaac Asimov ambientato nel 2157.
L’autore immagina un dialogo fra l’undicenne, Margie, e suo fratello Tommy,
tredicenne, a casa, mentre aspettano di iniziare le lezioni. Il ragazzo sta
sfogliando un libro cartaceo che desta la curiosità della sorella per il fatto
di avere parole statiche, così diverso dal loro telelibro che invece contiene
migliaia di testi. Tommy è venuto anche a sapere che il loro bisnonno non aveva
un robot-maestro a casa, ma che a quell’epoca tutti i ragazzi si radunavano in
un posto chiamato scuola. Un posto scomodo che si perdeva tempo per raggiungere
e per giunta abitato da imperfetti insegnanti umani che ne sapevano molto meno
degli attuali maestri meccanici. La sorellina, nella chiosa del racconto,
mentre in sala è alle prese con il robot di matematica è sorpresa da un
pensiero: “L’insegnante meccanico faceva lampeggiare sullo schermo: – Quando
addizioniamo le frazioni 1/2 + 1/4… Margie stava pensando ai bambini di quei
tempi, e a come dovevano amare la scuola. Chissà, stava pensando, come si
divertivano!”.
Di là
dall’intuizione di Asimov di immaginare nel 1954 il lettore di ebook e certe
tentazioni come l’homeschooling, viene suggerito bene il quid costitutivo della
scuola: il fattore umano. Dal suo passato, proiettandoci in un futuro
attualizzato dalle nuove circostanze, Asimov ci richiama il proprio della
scuola: essere innanzitutto un luogo di rapporto. È questo ciò che
improvvisamente è venuto a mancare in queste settimane, un luogo abitato,
scandito da tempi e normato da regole che lungi dall’essere costrizioni e
restrizioni sono le forme perché la vita scorra in ordine e in modo fruttuoso.
All’improvviso è venuta meno una tale occasione di rapporto con i pari e con
gli adulti, assieme a tutti gli altri “fuori” così preziosi per la vita di un
adolescente: non esiste infatti ambito che ne sia rimasto escluso, da quello
sportivo a quello ricreativo a quello della coltivazione delle diverse
passioni. Tutti chiusi dentro, in un dentro che c’è sempre stato, ma mai in
modo così propriamente esclusivo e prepotente.
Quello che il
lockdown ha fatto ai ragazzi e alle loro famiglie è stato in fondo evidenziare
e talora far esplodere ciò che in realtà era già presente. Dove le cose
andavano bene, stanno continuando a farlo, magari in modo più zoppicante o
altrimenti più soddisfacente, ad esempio con riscoperte fratellanze e
sorellanze. Dove la vita invece era già faticosa, al limite, tenuta
all’equilibrio dalla possibilità di avere vie di fuga, tutto è diventato più
difficile, fino a insopportabile. La stessa dinamica si vede applicata alla
scuola: gli adolescenti che già lavoravano in classe e a casa per lo più
continuano a farlo, chi non lavorava o si applicava poco c’è il rischio che
abbia smesso definitivamente.
La scuola in
presenza era, è, democratica: lo è nella sua obbligatorietà, lo è nel suo
cercare di porre tutti gli studenti nelle medesime condizioni, quantomeno
logistiche e di fruizione. La scuola a distanza non lo è affatto, o non lo è
ancora; piuttosto stiamo toccando con mano quanto sia lontana dall’equità. Il
cosiddetto digital divide ha realmente diviso la popolazione scolastica: non
c’è parità nella disponibilità dei dispositivi digitali, nella possibilità di
connessione, nelle abitazioni e nemmeno nelle situazioni familiari. Gli
insegnanti sanno bene che non tutti gli studenti si connettono alle lezioni e
che alcuni lo fanno solo in audio e non in video.
Prima di trarre
conclusioni affrettate, però, conviene fare alcune considerazioni: qualcuno sta
davvero facendo il furbo, si connette per fare presenza, poi toglie il video e
gioca con la consolle portatile o continua a dormire, ma altri provano un senso
di vergogna, sono a disagio nel mostrarsi in video ai compagni, ritengono che
la loro casa sia impresentabile, temono imbarazzanti intrusioni di genitori e
fratellini, altri ancora non riescono e basta, perché avere davanti una persona
che guarda negli occhi e richiama all’attenzione non è come stare davanti a uno
schermo con uno che a sua volta fissa uno schermo.
Insegnare oggi, a
distanza, chiede di tenere conto di tutte queste possibili interferenze. Siamo
in qualche modo anche costretti a tornare al cuore della scuola, che
temporaneamente smaterializzata come istituto ha bisogno di restare come
istituzione, preziosissima istituzione: la scuola per un giovane è innanzitutto
rapporto, rapporto con i pari e rapporto con adulti che lo mettono al lavoro
mettendosi a loro volta al lavoro. C’è una reciprocità che non va persa a
distanza. E come tutti gli incontri, la scuola è innanzitutto fatta di
appuntamenti. Mai come in questi tempi ce n’è bisogno. Appuntamento significa
che qualcuno mi invita, che io aderisco, mi preparo per esserci e quando ci
sono contribuisco in prima persona. La prima urgenza oggi è garantire che la
scuola accada e che con essa la giornata sia scandita da appuntamenti cui
essere convocati, capaci di sollecitare il pensiero e mettere in moto il
soggetto. Non possiamo solo preoccuparci della didattica e dei famigerati
programmi che peraltro non esistono più da almeno dieci anni, è veramente il
tempo del rapporto. Per questo la scuola a distanza non è assegnare compiti o
mandare video preregistrati, è innanzitutto esserci. Esserci perché i ragazzi
continuino a imparare, in un percorso dove sono accompagnati in una dinamica di
impegno e responsabilità condivise.
Non possiamo
permetterci di lasciare dei giovani indietro, dobbiamo cercare soprattutto chi
si perde e non risponde. Oggi personalizzare l’insegnamento significa anche
andare a cercarli, ascoltarli, identificare i punti di difficoltà personali e
familiari, esercitare la creatività per trovare le condizioni più favorevoli
perché tornino a darsi scuola e apprendimento. Moltissimi insegnanti si stanno
già muovendo così, non per generosità o eroismo, ma in quanto professionisti
che tengono al loro lavoro e alla riuscita dei propri studenti. A loro vada
tutto il nostro riconoscimento, che tendiamo così a lesinare in tempi normali.
Anch’essi, però, non devono essere lasciati soli. Professionalità e passione
per potersi esprimere al pieno hanno bisogno di idee e strumenti adeguati alle
mutate condizioni. Torneranno di vantaggio anche a medio termine, quando per
ripensare una nuova normalità dovremo necessariamente riconsiderare che cosa
abbiamo imparato nell’emergenza.
La scuola non è
sacrificabile - Lucia Tozzi
La scuola è stata la prima a chiudere per
il Covid-19. Nelle prime regioni colpite il provvedimento è
arrivato in due giorni. Bar, ristoranti, luoghi culturali, eventi, negozi,
uffici, località turistiche hanno avuto più di due settimane di tregua, dalle
conseguenze tragiche, alimentata da enfatici appelli alla resistenza in nome
della produttività e del consumo e alla sdrammatizzazione del rischio.
Fabbriche e cantieri sono andati avanti ancora più a lungo, e molte aziende
(fino al cinquanta per cento) non hanno mai chiuso, comprese quelle di armi,
nonostante il pesantissimo regime di clausura e distanziamento fisico imposto
alla popolazione.
La prospettiva è incerta, perché i dati e
le informazioni che dovrebbero dimostrare l’efficacia o meno di determinate
politiche in diversi paesi sono inaffidabili, sospetti. Ma appare sempre più
probabile che la
diffusione del contagio continui molto più a lungo di
quanto sia lontanamente sostenibile mantenere un regime di chiusura così
severo. Anche paesi più solidi dell’Italia non riescono a elaborare
risposte chiare sull’assetto futuro delle misure di contenimento, ma qui in
particolare sta prendendo forma la spinta ad allentare il più presto possibile
i vincoli che bloccano produzione, commercio e turismo (e quindi le persone che
li fanno girare), e a tenere stretta la morsa sul resto della popolazione. Le
persone potranno – o dovranno – progressivamente muoversi non in funzione del
ripristino delle libertà e dei diritti fondamentali, ma solo in funzione del
contributo che sarà loro richiesto di dare all’economia, in veste di lavoratori
o consumatori. In particolare la scuola, ferma dal 22 febbraio in Lombardia e
progressivamente nel resto d’Italia, sembra pacificamente destinata a
essere l’ultima a riaprire. Il principale argomento a favore di questa chiusura
è la didattica a distanza, attivata velocemente a tutti i livelli ed equiparata
in toto alla scuola, intesa come luogo fisico.
DISEGUAGLIANZA PROGRAMMATA
Chiunque insegni, abbia figli o abbia chiesto a docenti e studenti si rende conto che, nonostante gli ammirevoli sforzi compiuti dalla grande maggioranza delle persone coinvolte – insegnanti, studenti e genitori – l’e-learning non può essere considerato altro che una soluzione di pura emergenza, e non è accettabile prolungarlo oltre l’estate, a meno che la letalità del virus non costringa a tenere chiuse anche tutte le altre attività. E questo non perché in casi circoscritti non possa dare buoni risultati, ma perché produce diseguaglianza. La scuola pubblica italiana, nonostante tutti i suoi problemi e i tagli pluridecennali, ha tuttora la funzione di costruire e fornire pari opportunità per tutti gli studenti. Senza alcun bisogno di ricorrere ai discutibili risultati dei test Invalsi, sappiamo che da anni le diseguaglianze nella scuola, tra ricchi e poveri, tra famiglie presenti e assenti, tra studenti del nord e del sud, dei centri urbani e delle periferie, continuano ad aumentare. Ma la didattica a distanza non fa che peggiorare la situazione, perché è strutturalmente inadeguata a colmarle. E non solo, come si vuole far credere, a causa del digital divide. L’Istat rileva che un terzo degli studenti italiani non possiede computer, ma la gara di social washing tra aziende, associazioni e politici che regalano device non arginerà l’esclusione vissuta dai bambini o ragazzi che abitano in case affollate, con famiglie che non sono in grado di supportarli, o che hanno problemi di attenzione, di iperattività, di qualunque altro tipo. L’abisso tra questi studenti e quelli con madri, padri, nonni dedicati, insegnanti privati assoldati per supplire con lezioni di musica, matematica, inglese, latino online e offline, si approfondisce ogni settimana, e ha dei costi sociali enormi. Gli insegnanti, anche i più ottimisti e volenterosi, sono sottoposti a uno sforzo che non trova conforto nei risultati: la relazione umana diretta con una classe è irriproducibile su una piattaforma spesso anche difettosa, e l’inevitabile presenza, occulta o manifesta, dei genitori è inibitoria e poco dignitosa per chi lavora.
Chiunque insegni, abbia figli o abbia chiesto a docenti e studenti si rende conto che, nonostante gli ammirevoli sforzi compiuti dalla grande maggioranza delle persone coinvolte – insegnanti, studenti e genitori – l’e-learning non può essere considerato altro che una soluzione di pura emergenza, e non è accettabile prolungarlo oltre l’estate, a meno che la letalità del virus non costringa a tenere chiuse anche tutte le altre attività. E questo non perché in casi circoscritti non possa dare buoni risultati, ma perché produce diseguaglianza. La scuola pubblica italiana, nonostante tutti i suoi problemi e i tagli pluridecennali, ha tuttora la funzione di costruire e fornire pari opportunità per tutti gli studenti. Senza alcun bisogno di ricorrere ai discutibili risultati dei test Invalsi, sappiamo che da anni le diseguaglianze nella scuola, tra ricchi e poveri, tra famiglie presenti e assenti, tra studenti del nord e del sud, dei centri urbani e delle periferie, continuano ad aumentare. Ma la didattica a distanza non fa che peggiorare la situazione, perché è strutturalmente inadeguata a colmarle. E non solo, come si vuole far credere, a causa del digital divide. L’Istat rileva che un terzo degli studenti italiani non possiede computer, ma la gara di social washing tra aziende, associazioni e politici che regalano device non arginerà l’esclusione vissuta dai bambini o ragazzi che abitano in case affollate, con famiglie che non sono in grado di supportarli, o che hanno problemi di attenzione, di iperattività, di qualunque altro tipo. L’abisso tra questi studenti e quelli con madri, padri, nonni dedicati, insegnanti privati assoldati per supplire con lezioni di musica, matematica, inglese, latino online e offline, si approfondisce ogni settimana, e ha dei costi sociali enormi. Gli insegnanti, anche i più ottimisti e volenterosi, sono sottoposti a uno sforzo che non trova conforto nei risultati: la relazione umana diretta con una classe è irriproducibile su una piattaforma spesso anche difettosa, e l’inevitabile presenza, occulta o manifesta, dei genitori è inibitoria e poco dignitosa per chi lavora.
SCUOLE E CONTAGIO
L’altro grande argomento a favore della chiusura a oltranza delle scuole è la presunta impossibilità di imporre distanze di sicurezza ai bambini, il che si tradurrebbe in una diffusione molto più rapida del contagio rispetto agli altri spazi chiusi popolati da soli adulti. Ma ci sono molte evidenze che contraddicono questa ipotesi: «Deve essere chiara una cosa – afferma Ernesto Burgio, uno dei medici che si è espresso in maniera più chiara sul tema – essendo un virus respiratorio, il novanta per cento dei contagi avvengono tra persone che hanno un rapporto diretto, che hanno un’esposizione ravvicinata, in ambienti chiusi. Cioè: famiglia, luoghi di lavoro e purtroppo ospedali». E anche tutti gli altri spazi al chiuso densamente popolati, come palestre, piscine, negozi, bar, ristoranti, centri commerciali, supermercati, luoghi dello spettacolo, musei, località turistiche, mezzi di trasporto collettivo, fiere ed eventi. Mascherine, sanificazioni e distanziamento sono palliativi per la condivisione, soprattutto prolungata, di ambienti chiusi. E chiudere solo le scuole nelle prime due settimane in Lombardia non è servito a molto, con il resto che continuava ad andare.
L’altro grande argomento a favore della chiusura a oltranza delle scuole è la presunta impossibilità di imporre distanze di sicurezza ai bambini, il che si tradurrebbe in una diffusione molto più rapida del contagio rispetto agli altri spazi chiusi popolati da soli adulti. Ma ci sono molte evidenze che contraddicono questa ipotesi: «Deve essere chiara una cosa – afferma Ernesto Burgio, uno dei medici che si è espresso in maniera più chiara sul tema – essendo un virus respiratorio, il novanta per cento dei contagi avvengono tra persone che hanno un rapporto diretto, che hanno un’esposizione ravvicinata, in ambienti chiusi. Cioè: famiglia, luoghi di lavoro e purtroppo ospedali». E anche tutti gli altri spazi al chiuso densamente popolati, come palestre, piscine, negozi, bar, ristoranti, centri commerciali, supermercati, luoghi dello spettacolo, musei, località turistiche, mezzi di trasporto collettivo, fiere ed eventi. Mascherine, sanificazioni e distanziamento sono palliativi per la condivisione, soprattutto prolungata, di ambienti chiusi. E chiudere solo le scuole nelle prime due settimane in Lombardia non è servito a molto, con il resto che continuava ad andare.
Con la differenza che, stando ai dati
dell’Istituto Superiore di Sanità, il segmento di popolazione sotto i
cinquant’anni corre un rischio molto più basso di contrarre il virus in maniera
grave (in tutta Italia 178 su 14.860 decessi al
6 aprile), e in particolare i bambini risultano estremamente resistenti in
tutte le statistiche mondiali. Il professore Russel Viner dell’istituto
pediatrico dell’University College London spiega che «la chiusura
delle scuole è efficace nei casi in cui il virus è caratterizzato da bassa
trasmissibilità e da alti tassi di infezione tra i bambini: esattamente
l’opposto del Covid-19. Abbiamo dati limitati sull’effetto della
chiusura delle scuole sull’epidemia, ma da quello che sappiamo il
suo impatto è presumibilmente piccolo rispetto
ad altre misure come l’isolamento dei casi positivi e ha senso solo se
associato ad altre misure di contenimento». La riapertura delle scuole avrebbe
quindi un impatto più leggero sul servizio sanitario rispetto alla riapertura
di strutture commerciali o produttive, a una condizione fondamentale: che dal
contagio scolastico vengano protette le fasce di popolazione fragile, vale a
dire che il personale scolastico sopra i cinquant’anni, o con problemi di
salute, venga sostituito da supplenti per qualche mese, e che i bambini vengano
isolati dai nonni.
PIANIFICAZIONE NECESSARIA
Quello che in altri paesi con un welfare pubblico più solido e meno appoggiato sulla solidarietà familiare sembra un discorso razionale, su cui eventualmente dibattere per valutarne i pro e i contro, in Italia assume una sfumatura irreale e tragica: separare i nipoti dai nonni è un tabù, anche se si tratta di salvare la vita della fascia più a rischio. Non solo le istituzioni, ma persino molti genitori preferiscono separare i bambini dagli altri bambini, privarli della socialità, piuttosto che dividerli dai nonni. Nella comparazione tra costi e benefici, la compromissione della salute mentale di bambini e ragazzi privati di una socialità minima e spinti a vivere sempre di più qualunque rapporto con l’esterno attraverso i device, vale meno dell’irreale pretesa di mantenersi completamente sterili dal contagio. Eppure sono molti gli studi scientifici che attestano la sproporzione tra i vantaggi di un lockdown prolungato e i danni e rischi che produce su bambini e adolescenti, oltre che sugli adulti.
Quello che in altri paesi con un welfare pubblico più solido e meno appoggiato sulla solidarietà familiare sembra un discorso razionale, su cui eventualmente dibattere per valutarne i pro e i contro, in Italia assume una sfumatura irreale e tragica: separare i nipoti dai nonni è un tabù, anche se si tratta di salvare la vita della fascia più a rischio. Non solo le istituzioni, ma persino molti genitori preferiscono separare i bambini dagli altri bambini, privarli della socialità, piuttosto che dividerli dai nonni. Nella comparazione tra costi e benefici, la compromissione della salute mentale di bambini e ragazzi privati di una socialità minima e spinti a vivere sempre di più qualunque rapporto con l’esterno attraverso i device, vale meno dell’irreale pretesa di mantenersi completamente sterili dal contagio. Eppure sono molti gli studi scientifici che attestano la sproporzione tra i vantaggi di un lockdown prolungato e i danni e rischi che produce su bambini e adolescenti, oltre che sugli adulti.
È un assurdo ripiegamento nella sfera
ristretta familiare che si spiega in parte con l’ossessione per la sicurezza,
penetrata a fondo in ogni meandro del tessuto sociale e culturale di questo
paese, ben oltre le sfere che alimentano il successo leghista. Ma la cieca
adesione a delle regole basilari, riassumibili in slogan emozionali, è anche la
conseguenza di anni e anni di denigrazione e distruzione della critica. Se a Milano i
più accaniti persecutori dei runner e dei bambini a passeggio sono gli stessi
che pochi giorni prima avevano gridato entusiasti #milanonsiferma, quelli che
oggi accettano con la più passiva rassegnazione (o addirittura sostengono) la
necessità di tenere le scuole chiuse per mesi, o anche anni se il vaccino tarda
a comparire, sono quelli che più sbraitavano fino a poco fa sull’inefficienza
e “scarsa competitività” della scuola pubblica italiana, spesso senza
alcun rispetto per il lavoro e i risultati spesso sorprendenti ottenuti da una
delle classi di insegnanti più malpagata e vessata a livello mondiale.
In altri paesi le scuole si preparano a
riaprire: Taiwan, Norvegia, Giappone, Danimarca, Francia, persino
in Cina. In altri si comincia almeno a discutere seriamente
dell’argomento, e si costruiscono strategie per minimizzare il rischio al
rientro: turni ridotti e differiti, eliminazione della ricreazione e dei
momenti di assembramento, supplenze extra per sostituire il personale più a
rischio, ottimizzazione nell’uso dello spazio nelle aule in rapporto al numero
di studenti, sanificazioni. Sono misure che richiedono moltissima
organizzazione e devono essere finanziate.
È quello che dovremmo fare anche noi,
perché se si rimandano discussione e pianificazione il rischio è che non ci
saranno le condizioni per riaprire neanche a settembre. Il momento di
affrontare la questione è ora, per difendere il diritto allo studio sancito
dalla Costituzione, e assicurare a chi ne è escluso quell’elemento democratico
fondamentale che è l’accesso a uno spazio comune, lo spazio di un’aula “in carne e ossa”.
La didattica on line accentua gli aspetti classisti della scuola - Giuseppe Caliceti
Occorre prendere atto del fatto che la scuola on line accentua gli aspetti classisti che hanno ammorbato la nostra
scuola pubblica negli ultimi decenni, cioè ben prima che arrivasse l’epidemia.
Non solo perché la scuola on line non arriva a tutti – si calcola siano più del
6 per cento del totale gli studenti isolati, esclusi. Ma anche perché, spesso e
volentieri, tende a riproporre gli aspetti più regressivi, sorpassati e
deleteri dell’educazione e della formazione: i compiti, l’interrogazione a tu
per tu studente-professore, l’insegnamento frontale. Cioè quello che serve a
salvare la forma e la burocrazia (i voti) di fronte alle famiglie degli utenti.
Il famoso pezzo di carta.
È probabile che la didattica on line,
nei suoi step di ricerca più avanzati, si coniughi con una didattica e una
teoria pedagogica spettacolari. Purtroppo non accade così, oggi, in Italia. E
non accadrà neppure se, disgraziatamente, anche il prossimo anno scolastico i
docenti e gli studenti si troveranno costretti a continuare solo con la scuola
a distanza. Forse si riuscirebbero solo a evitare le classi pollaio: dove le proteste di migliaia di
famiglie e docenti non sono mai arrivate, riuscirà ad arrivare il virus.
Benchmarking
deleterio
Ma sarebbe importante se, come già
chiesto da più parti nei mesi scorsi, il sistema di Scuole in Chiaro,
dove compaiono anche i dati delle prove Invalsi ed il RAV, cambi. Insieme a
tutto il sistema di valutazione. Perché non è un aiuto per le famiglie, ma la
forma più perversa e deleteria di benchmarking.
Questo momento così particolare può far ripensare a tutta la gestione del Sistema
Nazionale di Valutazione. O può, al contrario, grazie proprio alla cosiddetta
didattica on line e a questa pedagogia di guerra, rendere il mondo della scuola
un luogo dove, ancora di più, si accentueranno l’esclusione sociale, culturale e pedagogica.
Con un ricatto che, sottilmente, viene fatto a docenti, famiglie degli
studenti, sindacati. Un ricatto molto semplice in tempi di crisi: «O così, o
niente. Sempre meglio di niente».
La scuola dei corpi e quella degli schermi -
Come per tutti i
beni comuni, anche l’importanza della scuola viene riscoperta in momenti
difficili come questo; per il suo essere tessuto connettivo tra i giovani e tra
le generazioni, legame sociale ed esistenziale. Molte famiglie hanno saputo di
più della scuola dei loro figli, con le lezioni online che entrano nelle case,
rispetto a mille colloqui o alle malinconiche riunioni degli organi collegiali.
E quel tenere vivo
il legame con la scuola è un balsamo per ansia e solitudine. Non per tutti,
purtroppo; e questo è un punto decisivo per il futuro. La forza empatica delle
lezioni dal vivo, corpi, fiati, gesti, sorrisi, suggerimenti è una ricchezza
insostituibile, ovviamente. La scuola non è la stessa senza il suo «corpo a
corpo» quotidiano; ma strumentazioni, competenze, facilità di accesso (a
cominciare da wifi e fibra ottica per tutti gli angoli del Paese), sono
necessari non certo per sostituire (come qualcuno forse vorrebbe) ma per
arricchire la didattica, integrarla; o anche perché, di fronte a nuove
emergenze, come per le mascherine ai medici, non si spenga la luce della scuola
e non si debba sempre ricominciare da capo.
Ma sia chiaro:
questa è un’emergenza, la scuola è un’altra cosa. Anche per questo ci sembra
saggio non riprodurre dinamiche di valutazione che andrebbero cambiate in
circostanze normali, figuriamoci adesso. È un tema importante oggi, lo sarà
ancor più domani, quando non dovremo ragionare solo degli strumenti, ma di una
pedagogia inedita prima dell’era digitale; quando si cercherà di capire come
cambia davvero il modo di imparare e di pensare, non solo di comunicare; come
governarla nel senso della libertà e dell’eguaglianza.
Forse questa
vicenda tragica ha fatto emergere quanto la scuola e l’insegnamento siano
relazioni complesse, che non si rinnovano solo con gli strumenti tecnologici,
ma a partire dall’umanità concreta dei giovani e dei bambini, delle giovani e
delle bambine. Le loro fragilità e ricchezza viva sono il nucleo di ogni
relazione educativa. Oggi la battaglia decisiva si gioca negli ospedali; e
l’ammirazione per medici e infermieri, come errori, fragilità e ingiustizie
devono diventare un programma per il poi. Ma – in una forma meno tragica –
davanti ai computer di casa, nelle classi virtuali, si gioca un’altra battaglia
decisiva.
È cominciata già
coi provvedimenti restrittivi (perché adolescenti e giovani erano, naturalmente
ma pericolosamente, i più riottosi alla distanza e alla rinuncia), e ora
abbiamo milioni di adolescenti e bambini tra quattro mura – e fino a quando? –
che più di tutti soffrono questa situazione. Fare scuola, anche se
virtualmente, significa tantissimo: impegnare il tempo insieme, socializzare le
proprie paure e farci i conti, scrivere e leggere, tenere vivo il lumicino
della scuola in una normalità stravolta; percepire il futuro e desiderarlo,
assai più di prima, e non essere schiacciati dal presente da incubo. Una
comunità formativa, se non è questo, in questo momento, a cosa serve?
Ma in casa, ora,
si sperimenta anche un rovesciamento possibile: la dimensione digitale come
strumento di legame con la realtà che sta fuori, non solo bolla virtuale. Ciò
che spesso isola i ragazzi dai rapporti reali, oggi li tiene vivi, li fa
discutere con gli insegnanti anche di ospedali pubblici, di tasse che vanno
pagate, di solidarietà verso i più deboli. Dare un senso allo stare in casa non
è la stessa battaglia delle corsie d’ospedale, certo, ma ci aiuta ad essere
uniti e consapevoli.
La scuola lo fa
sempre, ma oggi lo scoprono in molti e lo capiscono meglio anche tanti ragazzi.
Non, dunque, fare dell’emergenza la norma, ma al contrario, cogliere ciò che
oggi ci manca e farne una priorità della democrazia, senza mediazioni. De
Cristofaro, sottosegretario all’Istruzione, ha scritto: «Ognuno di noi può
contare moltissimo nel mettere le basi per il mondo che verrà…Più democrazia o
autoritarismo. Oggi li vedo possibili entrambi…Sta a noi, anche in condizioni
di forzato isolamento, spingere affinché lo sbocco sia uno e non l’altro».
Bene. La scuola
della Costituzione da questa esperienza deve saper trovare la spinta per
tornare ad essere centrale nella coscienza non dei soli docenti. E, come per la
sanità pubblica e l’importanza dello Stato, bisognerà saper trasformare
l’esperienza in coscienza civile e averne memoria.
A distanza: valutare se, valutare cosa&come, valutare perché - Emanuela Bandini
Ammettiamolo,
siamo tutti in crisi.
È in crisi chi, come se nulla fosse cambiato, si domanda come poter garantire la “validità” di interrogazioni e verifiche svolte attraverso lo schermo (“e se copiano?”, “e se in casa qualcuno suggerisce?”, “ah, io voglio che inquadrino la scrivania, per controllare che non abbiano libri e appunti!”); ma è in crisi soprattutto chi si domanda quale sia il senso della valutazione, di qualunque tipo di valutazione, nelle attuali condizioni (didattiche, certamente, ma soprattutto sociali, sanitarie, psicologiche, economiche di molte famiglie).
È in crisi chi, come se nulla fosse cambiato, si domanda come poter garantire la “validità” di interrogazioni e verifiche svolte attraverso lo schermo (“e se copiano?”, “e se in casa qualcuno suggerisce?”, “ah, io voglio che inquadrino la scrivania, per controllare che non abbiano libri e appunti!”); ma è in crisi soprattutto chi si domanda quale sia il senso della valutazione, di qualunque tipo di valutazione, nelle attuali condizioni (didattiche, certamente, ma soprattutto sociali, sanitarie, psicologiche, economiche di molte famiglie).
In mezzo al
fiorire dei dubbi è stata emanata la Nota ministeriale del 17 marzo, che da più
parti è stata letta come una spinta alla valutazione, definita come un «dovere»
e una «competenza propria del profilo professionale» per il docente e «un
diritto» per lo studente.
Partiamo da un
semplice e banale punto fermo, che qualunque studente di giurisprudenza alle
prese con l’esame di diritto amministrativo potrebbe confermare: poiché le
attività didattiche (tutte le attività) in presenza sono sospese
e l’attività didattica a distanza (DaD) nella scuola primaria e secondaria non
è normata (e una Nota ministeriale è un atto di indirizzo, non legislativo),
non lo è neppure la valutazione delle attività, ergo, nessuna valutazione
assegnata in questo periodo è legittima (e considerarla tale esporrebbe a
inevitabili, e vittoriosi, ricorsi).
Non lo è perché,
innanzitutto, non esiste alcun obbligo di legge, per gli studenti, che vincoli
alla frequenza delle attività di DaD – di conseguenza, è illogico che possa
avere un qualunque peso la valutazione di un’attività non obbligatoria (non è
un caso, infatti, che la valutazione dell’insegnamento opzionale di Religione
cattolica non concorra alla media finale dello studente).
Non lo è perché
non esiste, neppure per il docente, alcun obbligo a fornire la DaD, dal momento
che essa non rientra tra le attività previste dalla funzione docente (non è un
caso che, su questo tema, si siano pronunciate, con modi e toni diversi, anche
le organizzazioni sindacali). Ce lo mostra, con grande evidenza, il fatto che
nessuno di noi stia firmando, in queste settimane, il registro di classe. E, se
non firmiamo il registro di classe, non stiamo operando nelle vesti di pubblico
ufficiale: quindi, dal punto di vista meramente formale, qualunque cosa
possiamo dire o fare, e qualunque cosa possano dire o fare gli studenti (non
consegnare gli elaborati richiesti, non essere presenti alle lezioni in
streaming – o presentarsi in canottiera e boxer, come qualcuno ha fatto), non
stiamo facendo scuola, ma stiamo amabilmente chiacchierando al bar o al parco.
Tutte le altre questioni su cui noi docenti ci stiamo accapigliando in questi
giorni, anche nelle riunioni convocate in streaming (“Ma voti in rosso o in
blu?” “Ma fa media o non fa media?”), sono, di conseguenza, inutili
elucubrazioni.
Inoltre, se anche
esistesse una qualsiasi pezza normativa a giustificazione della validità
formale della DaD e di tutto ciò che ne consegue, la mia coscienza di
insegnante e di cittadina mi spinge a pensare che la valutazione effettuata in
queste condizioni non possa essere valida semplicemente perché la
partecipazione o meno alle attività della DaD, oltre che non obbligatoria per
gli studenti, è influenzata dallo status quo di ciascuno di
loro (possesso di device e necessaria strumentazione hardware e software,
connettività, adeguati spazi abitativi e per lo studio individuale): questo
confligge chiaramente con il supremo dettato costituzionale del diritto
all’istruzione (Art. 34), soprattutto per quanto riguarda la scuola
dell’obbligo – e di fronte a ciò, credo, qualunque altra considerazione è
superflua.
Una volta chiarite
le implicazioni sul piano formale e legislativo, di cui ciascun docente
dovrebbe avere piena consapevolezza prima di agire, possiamo ragionare del
piano educativo, che, in questa situazione, è quello che dovrebbe orientare
ogni nostra azione, anche di tipo valutativo. E, in quest’ottica, sarà bene
tenere a mente due punti fermi.
Il primo è il mai
abbastanza lodato Articolo 33 della Costituzione, che garantisce la piena
libertà d’insegnamento. Ancor più di quanto fossimo usi fare, è assolutamente
necessario che ognuno di noi stabilisca hic et nunc, in piena
libertà e coscienza professionale (“con disciplina e onore”, Art. 54 della
Costituzione), che cosa sia opportuno per sostenere i propri studenti, e agisca
di conseguenza: qualunque strumento, qualunque mezzo, qualunque strategia
possono essere validi per mantenere aperto il dialogo educativo, aiutarli a
conservare un ombra di normalità, dare uno scopo a giornate diventate
lunghissime, sostenerli nella solitudine, spronarli a ad usare la mente, a “non
perdere il filo”.
Il secondo punto
fermo è la stessa Nota ministeriale del 17 marzo che descrive con chiarezza un
tipo di valutazione eminentemente formativo: «la valutazione ha sempre anche un
ruolo di valorizzazione, di indicazione di procedere con approfondimenti, con
recuperi, consolidamenti, ricerche, in una ottica di personalizzazione che
responsabilizza gli allievi a maggior ragione in una situazione come questa.
[La valutazione è] elemento indispensabile di verifica dell’attività svolta, di
restituzione, di chiarimento, di individuazione delle eventuali lacune,
all’interno dei criteri stabiliti da ogni autonomia scolastica, ma assicurando
la necessaria flessibilità». Dunque, valutazione come feedback e come sostegno
al lavoro autonomo dello studente, e valutazione il più possibile flessibile,
così da potersi adattare a una situazione nuova, straordinaria ed imprevista,
non certo come strumento di verifica dell’acquisizione dei contenuti e delle
competenze programmati ad inizio anno scolastico.
In questa
prospettiva – a mio avviso – perde anche qualunque senso l’eventuale recupero
delle insufficienze del primo periodo, non solo perché si tratta di una
valutazione chiaramente sommativa, ma anche perché, a rigor di norma, le
modalità dei recuperi erano state già deliberate dai consigli di classe, e il
loro svolgimento in qualunque altra forma romperebbe tale delibera, diventando
di conseguenza illegittimo; non solo: non può essere approvata una nuova
delibera in merito perché, secondo la normativa vigente, gli organi collegiali
che non siano convocati in presenza non hanno alcun potere deliberante.
Dunque, sgombrato
il campo dalle (lunghe ma necessarie) questioni e riflessioni preliminari,
possiamo chiederci ma allora, cosa posso/voglio/devo/ritengo opportuno
valutare?, ed è ovvio che a una domanda del genere si può rispondere solo
dopo aver considerato con attenzione quali attività predisporre e perché, quali
obiettivi formativi ed educativi ci proponiamo per la nostra DaD*.
Cosa voglio
portare a casa, dopo settimane – se non mesi – di sospensione?, mi sono
chiesta a lungo. E mi sono risposta così: voglio che i miei alunni non
dimentichino cosa voglia dire fare scuola e lavorare con serietà; voglio che
non dimentichino cosa significhi il lavoro in classe; voglio che non perdano
quanto acquisito finora, ma che lo consolidino; voglio che abbiano la
possibilità di recuperare le proprie lacune; voglio che acquisiscano i minimi
necessari (in termini di conoscenze e competenze) che ci consentiranno di
lavorare in modo dignitoso nel prossimo anno scolastico, senza una continua
rincorsa a “quello che non è stato fatto”.
Innanzitutto, ho
riflettuto sul fatto che, in modalità DaD, gli studenti lavorano per moltissimo
tempo da soli, alle prese con libri di testo e materiali forniti dai docenti,
che devono affrontare, spesso, senza previa spiegazione, in una quasi continua
flipped classroom (e infatti sta emergendo con forza l’inadeguatezza all’uso
autonomo da parte degli studenti di alcuni manuali, anche prestigiosi). Quindi,
mi è sembrato necessario pormi come obiettivo, soprattutto nelle classi del
biennio, il miglioramento e il consolidamento del metodo di studio: così, ogni
blocco di pagine da studiare sul manuale, abitualmente accompagnato da altri
materiali, è sempre corredato da una scheda operativa, da delle linee-guida
allo studio in cui richiedo schematizzazioni, mappe, cronologie, sintesi,
definizioni, ragionamenti sui rapporti di causa-effetto, microricerche e così
via. Ovviamente, questo tipo di lavoro è difficilmente copiabile dal maremagnum
del web, e, una volta corretto, fornisce un ottimo attivatore per la successiva
lezione in streaming: quali informazioni devo inserire in una cronologia?
perché questa serie di informazioni non è coerente? quali informazioni
essenziali mancano in questa mappa? perché, invece, questa è chiara e
completa?. Attività di questo genere consentono anche di attivare abilità
trasversali di metacognizione e di comprensione e produzione di testi non
letterari, oltre che di migliorare la digital literacy (dall’uso
di software dedicati, ad esempio, alla creazione di mappe concettuali, allo
sfruttamento delle potenzialità di un normale foglio di word, con la
costruzione di elenchi e tabelle).
In secondo luogo,
ho bisogno di mantenere vivo lo spirito del gruppo classe: per questo, cerco di
evitare lunghe spiegazioni frontali in streaming, preferendo mettere a
disposizione materiali vari, anche autoprodotti (apprezzatissime, a quanto
pare, le artigianalissime videolezioni in cui parlo sulla presentazione – in
ppt, Prezi o altro – di un argomento), dedicando invece lo spazio delle mie
lezioni (che si è ridotto, per decisione collegiale, del 50%) alla discussione
e al confronto; ho anche introdotto bacheche virtuali come Padlet o Netboard,
in cui gli studenti possano inserire riflessioni e commenti liberi
sull’argomento che stiamo trattando o sui testi assegnati in lettura, in una
sorta di brainstorming a distanza che poi ripercorreremo, insieme, quando saremmo
tutti connessi. Non rinuncio neppure al momento collettivo e fondamentale della
lettura, analisi e commento dei testi letterari: con qualche correttivo (aver
già letto i testi in prosa e aver già recuperato – sul manuale o sul web – la
parafrasi di quelli poetici) e un’applicazione che consente di evidenziare,
sottolineare e annotare i pdf, posso mostrare in streaming lo schermo del mio
pc e procedere (quasi) come al solito, con interventi, domande e riflessioni,
appuntandoli via via.
Tertium, la selezione
dei contenuti: quali sono davvero necessari per poter “andare avanti”
garantendo ai miei studenti le conoscenze imprescindibili? Quindi, sto operando
con grandi tagli alle informazioni secondarie e al nozionismo (non conosceranno
tutte le fasi della guerra del Peloponneso o le opere latine di Petrarca e
Boccaccio? Pazienza) e presto maggiore attenzione del solito ai processi di
lunga durata e ai concetti-chiave necessari per comprendere autori, testi e
periodi storici, anche in prospettiva futura. Tutto questo, da verificare con
rapidi test a risposta multipla in modalità telematica, offerti da alcune
risorse online dei libri di testo o realizzati su piattaforme didattiche (che
spesso hanno anche il vantaggio di essere autocorrettivi).
Quarto: il consolidamento
delle abilità trasversali, in primo luogo quelle del parlato e della scrittura.
Sto ancora riflettendo su come lavorare sulle abilità orali, ma di certo non
inseguirò il fantasma delle interrogazioni tradizionali (nella riprogrammazione
che ho steso per le mie classi mi sono rifiutata di usare il termine e ho
preferito “colloqui”); probabilmente chiederò delle presentazioni orali con
vincoli stringenti su tempi e contenuti, come già faccio talvolta in classe (ad
esempio, il commento ad un testo poetico, o la presentazione di un personaggio
o di un contesto storico). Molto più semplice, invece, lavorare sulla
produzione scritta (dopo una bella infarinatura generale sulle regole basilari
della videoscrittura), evitando ovviamente di assegnare testi troppo lunghi
(faticosi da correggere a schermo), insistendo sui fondamentali (riassunto e
parafrasi su tutti) e aprendo anche a tipologie alternative (riflessione
libera, commento ad un articolo, testo personale descrittivo, narrativo o
poetico), che possano però dare modo ai ragazzi di esprimersi – un bisogno che
in questo contesto manifestano con grande urgenza. So bene, infatti, che è
sempre possibile valutare adeguatezza del contenuto, coerenza, coesione e
correttezza di un testo, qualunque esso sia, e, lavorando su file (inviati via
email o in condivisione in piattaforma), è possibile registrare e rendere
visibili allo studente tutti gli interventi di correzione e inserire eventuali
commenti.
Per ognuno dei
lavori che man mano vengono assegnati, corretti e riconsegnati (un lavoro
massacrante, lo sappiamo bene) sto registrando, in una tabella, la puntualità
nella consegna, il rispetto delle indicazioni date, la completezza e
l’adeguatezza delle informazioni. Assegnerò un voto numerico a tutto questo? Me
lo sto ancora chiedendo, dal momento che quello che sto facendo è già, di per
sé, valutazione formativa e non necessita di altre operazioni matematiche;
forse sì, magari a blocchi di tre o quattro lavori, ma solo perché so quanto lo
studente medio abbia uno spasmodico bisogno di numeri, anche se personalmente
non amo l’idea di mettere un voto solo per rispondere alle ansie valutative di
alunni (e genitori).
E, a proposito di
questo, vorrei chiudere con un’ultima riflessione: per la prima e probabilmente
unica volta nella mia carriera di insegnante ho la possibilità di far davvero
comprendere ai miei studenti quanto studiare, leggere, riflettere, pensare,
imparare, possa essere bello e gratificante in sé e per sé, senza ansie da
prestazione e da voto. E non ho nessuna intenzione di lasciarmela sfuggire**.
*Doverosa
precisazione: ho la fortuna di lavorare in un contesto socioeconomico
privilegiato, per cui la stragrande maggioranza dei miei studenti è in grado,
seppur in modi diversi, di seguire le attività proposte. La mia piena
solidarietà e il mio pieno sostegno ai colleghi che lavorano con studenti in
condizioni di svantaggio e fragilità, per i quali – lo so – si stanno
inventando tutto il possibile.
**Per questo, ho
attivato una serie di attività informali e “clandestine” su cui, magari, vi
ragguaglierò un’altra volta.
DIDATTICA A
DISTANZA: CONTRADDIZIONI DI UN MODELLO CLASSISTA - Davide Tedeschi, Riccardo Beschi
Dal 5 marzo in tutta Italia è stata sospesa l’attività
didattica in presenza per far fronte all’emergenza Covid-19. La disposizione,
attiva inizialmente fino a domenica 15/03/20, è stata poi prolungata, e ad
oggi, non si hanno notizie circa un eventuale prolungamento fino alla fine
dell’anno scolastico, che sembra inevitabile date le sempre più restrittive
misure di distanziamento sociale che si stanno attuando nell’ultimo periodo. Ci
preme tuttavia sottolineare che alcuni settori produttivi non essenziali, come
i settori della difesa, dell’aerospazio o della telecomunicazione
pubblicitaria, siano tuttora attivi in barba ad ogni diritto alla salute dei
lavoratori coinvolti. Delegando le questioni relative alla chiusura di filiere
non produttive ad altri testi, ci interessa raccontare qui la nostra esperienza
come professori (precari) in scuole superiori della provincia Romana.
La fantomatica
didattica a distanza messa in atto dai professori di tutte le scuole di ogni
ordine e grado sta infatti mostrando tutte le contraddizioni del modello di
istruzione che il sistema socio-economico in cui viviamo ci impone.
Le politiche attuate negli anni verso una
federalizzazione degli istituti scolastici comportano un’autonomia
organizzativa che si riflette nell’esistenza di scuole di serie A, serie B e
finanche serie C. Mentre alcuni istituti scolastici possono permettersi
abbonamenti a piattaforme in grado di fornire una didattica soddisfacente,
l’assenza di strumenti digitali impedisce ai professori di altri istituti di
pensare a una didattica a distanza, figurarsi attuarla. Questa è già una prima
grande contraddizione in cui scuole storiche in grandi città, le scuole di
serie A, possono almeno sperimentare una didattica a distanza, mentre scuole
periferiche, difficilmente riescono a fornire gli strumenti necessari anche
unicamente a raggiungere gli studenti. Ma se questo è un problema ed una
contraddizione insita del sistema scolastico, il problema più grande riguarda
le condizioni sociali degli studenti stessi. Dati Istat del 2018/2019 mostrano
che circa il 14% delle famiglie con un minore non ha a casa né un PC, né un
tablet e che al contrario solo un quinto delle famiglie ha a disposizione
almeno un dispositivo PC/tablet per ogni elemento del nucleo famigliare [1].
A questa mancanza si aggiunge il fatto che il 35% delle famiglie con minori
hanno accesso alla rete internet solo in modalità mobile [2].
Questo tipo di connessione è legato a una copertura non omogenea sul territorio
nazionale e ha subito un calo delle prestazioni dovuto al sovraccarico delle
infrastrutture di rete in questo periodo complicato [3],
creando quindi delle vere e proprie barriere. Questi dati fanno capire come
esiste un problema reale di accesso effettivo ai contenuti della didattica a
distanza.
Difatti, non è stato difficile per noi incontrare, in
queste settimane di lavoro a distanza:
- studenti
che non erano coperti da rete internet, perciò impossibilitati a seguire
la didattica se non con l’utilizzo della rete cellulare;
- studenti
il cui nucleo familiare possiede un solo computer ma con famiglia composta
da più fratelli in età scolastica o universitaria, implicando una non
completa autonomia nel seguire la didattica a distanza;
- studenti
assenti e poco interessati alla didattica che non possono essere seguiti
dagli insegnanti e non vengono seguiti o sollecitati da genitori assenti
per svariati motivi, tra cui sicuramente c’è la scarsa tutela nei
confronti di genitori lavoratori. I voucher baby-sitter non sono
sicuramente una tutela sufficiente.
- questi
mezzi sono sicuramente meno fruibili per studenti con bisogni educativi
speciali, ad esempio gli studenti che riscontrano DSA.
In un contesto
come quello attuale con tutte le barriere materiali legate spesso a questioni
di tipo sociale, viene chiesto ai docenti di valutare gli studenti mediante i
mezzi della didattica a distanza. Uno dei principali punti che si deve porre un
insegnate e l’istituzione scolastica è quella di abbattere qualsiasi barriera
tra gli studenti in maniera tale che quest’ultimi possano esprimere le proprie
potenzialità senza alcuna discriminazione. Ci chiediamo dunque quale possa
essere il senso della valutazione in un contesto in cui non è garantita a tutti
l’accesso agli insegnamenti.
In conclusione, la
nostra esperienza come professori durante la didattica a distanza ci insegna
che non tutti hanno gli stessi mezzi, le stesse opportunità, gli stessi
stimoli. “Che ci ostiniamo a curare chi ha già le medicine in casa e sa in che
ospedale andare, mentre qualcuno non sa neppure di essere malato.” Di fatti
tutte le condizioni di classe stanno venendo allo scoperto durante questa
pandemia e il suo stato emergenziale, non per l’ultimo la condizione degli
studenti di serie B, figli del proletariato, il cui diritto allo studio viene leso.
Per questo come professori che hanno a cuore il ruolo sociale che ricoprono,
chiediamo al governo una piattaforma online nazionale gestita dallo Stato, di
occuparsi di fornire il supporto tecnico necessario per scuole e studenti
e soprattutto garantire al rientro dall’emergenza modalità di
supporto per permettere agli studenti di rimettersi in pari, e inoltre
chiediamo che non vengano valutati i nostri studenti dato che per quanto detto
prima, la valutazione sarebbe assolutamente arbitraria e discriminatoria nei
confronti di chi ha mezzi insufficienti.
Cogliamo infine
l’occasione per fare un appello ai nostri colleghi affinché in questo contesto
di emergenza l’obbiettivo primario sia quello, attraverso il proprio impegno e
sforzo lavorativo, di rendere queste lezioni telematiche il più possibilmente
accessibili. A delle lezioni Live magari fruibili solo da alcuni studenti, che
hanno a disposizione i mezzi necessari (internet e PC), affiancare lezioni
registrate in maniera tale che gli studenti con minori possibilità abbiano modo
di poter accedere quando possibile a quegli insegnamenti. È fondamentale che i
docenti capiscano che giocano un ruolo determinante per far sì che questi
strumenti non siano discriminatori verso gli alunni con minori possibilità spesso
legate a fattori economici. Perché anche noi docenti giochiamo un ruolo all’
interno di un modello di istruzione sempre più di classe ed elitario.
Brodo di DAD. Appunti per
non farsi bollire a scuola durante e dopo l’emergenza coronavirus - Rete Bessa
1.
Distopia
«Ora come ben saprà ci sono le restrizioni, tutto bloccato, non ci
possiamo fare niente!»
Quest’anno ho fatto solo supplenze intermittenti, un paio di mesi di seguito al massimo e tanti giorni sparsi. Ma da tre giorni ci sono le restrizioni. Con la chiusura delle scuole, niente più chiamate di presa in carico, niente stipendio, unica via l’indennità di disoccupazione. Ma servono gli ultimi contratti, appunto, e i rispettivi pagamenti. Che mancano.
«Non le sono arrivati gli stipendi di dicembre?»
Con quattro mesi di ritardo, sì. Come spesso, come a tant*. Sono andati a coprire il debito dei mesi precedenti. Ma poi cosa c’entra? Il punto è che devo chiedere la disoccupazione.
«Poi, insomma, lei è solo una MAD!»
MAD, Messe A Disposizione, ossia il personale docente convocato una volta che si è esaurita la graduatoria. Ti chiamano perché hai lasciato il curriculum nel posto giusto al momento giusto. Chi è convocato in questo modo rappresenta l’ultimo anello della precarietà nella scuola. Per questo motivo MAD è sinonimo di mesi passati a coprire malattie e permessi, di colleghe di ruolo che si aggrappano alla speranza di un* supplente, che progettano il lavoro in classe sulla sicurezza della tua presenza, di organizzazione del personale scolastico che galleggia scientemente sulla disponibilità costante di docenti precari*… Mi decido a prendere parola:
«La avviso che se non mi consegnate i miei contratti prenderò provvedimenti: sindacati, avvocati, diffide, messe in mora….»
«Signorina… Se le va bene ci vediamo alla Coop? Così firma i contratti e glieli consegno.»
Eccoci lì, sul muretto vicino al supermercato, tra mascherine e guanti, a fianco di una coda con carrello.
Quest’anno ho fatto solo supplenze intermittenti, un paio di mesi di seguito al massimo e tanti giorni sparsi. Ma da tre giorni ci sono le restrizioni. Con la chiusura delle scuole, niente più chiamate di presa in carico, niente stipendio, unica via l’indennità di disoccupazione. Ma servono gli ultimi contratti, appunto, e i rispettivi pagamenti. Che mancano.
«Non le sono arrivati gli stipendi di dicembre?»
Con quattro mesi di ritardo, sì. Come spesso, come a tant*. Sono andati a coprire il debito dei mesi precedenti. Ma poi cosa c’entra? Il punto è che devo chiedere la disoccupazione.
«Poi, insomma, lei è solo una MAD!»
MAD, Messe A Disposizione, ossia il personale docente convocato una volta che si è esaurita la graduatoria. Ti chiamano perché hai lasciato il curriculum nel posto giusto al momento giusto. Chi è convocato in questo modo rappresenta l’ultimo anello della precarietà nella scuola. Per questo motivo MAD è sinonimo di mesi passati a coprire malattie e permessi, di colleghe di ruolo che si aggrappano alla speranza di un* supplente, che progettano il lavoro in classe sulla sicurezza della tua presenza, di organizzazione del personale scolastico che galleggia scientemente sulla disponibilità costante di docenti precari*… Mi decido a prendere parola:
«La avviso che se non mi consegnate i miei contratti prenderò provvedimenti: sindacati, avvocati, diffide, messe in mora….»
«Signorina… Se le va bene ci vediamo alla Coop? Così firma i contratti e glieli consegno.»
Eccoci lì, sul muretto vicino al supermercato, tra mascherine e guanti, a fianco di una coda con carrello.
L’odio.
Non tanto
nei confronti di colleghe o colleghi decisamente non affini con cui devi per
forza collaborare, o di quella parte del personale scolastico che si permette
di trattarti come una pezza da piedi arrivando a farti firmare il contratto
alla Coop.
L’odio
pulsante contro il sistema scuola, i suoi non-detti e le sue gerarchie.
Sono più di
vent’anni che la scuola è in emergenza, con buchi clamorosi nel personale, con
discorsi e riforme aziendaliste e ora lo schifo viene a galla. Come nella
sanità, ma quella è un’altra storia… o forse no?
Ma lasciamo
da parte i dubbi: #lascuolanonsiferma è andata dicendo la Ministra Azzolina,
mentre qualcun* alla lotteria dei contratti ha beccato quello sbagliato e di
fatto è stat* costrett* a fermarsi. E a restare a casa.
Queste
assenze ovviamente pesano su chi le subisce, ma hanno l’effetto di indebolire tutta la scuola: dal
resto del personale scolastico, che si trova ad avere una persona in meno su
cui contare, a studentesse e studenti che con quella persona lasciata a casa
avevano costruito un rapporto. È in questo contesto che si innesta l’emergenza
che stiamo vivendo.
Per questo,
ci siamo talmente concentrat* sulle forme di didattica online, sugli strumenti,
sulle piattaforme, che rischiamo di dimenticarci delle persone, dei corpi
materiali che permettono di costruire relazioni, senza i quali la didattica è
impossibile, anche quando non è a distanza.
In realtà
la fregatura è chiara. «Non riusciamo a portare avanti un milione di domande
cartacee», ha dichiarato la ministra affermando, con suo sommo dispiacere, che
quest’anno non saranno aggiornate le graduatorie, ossia le liste sulla base
delle quali i/le docenti precari* trovano lavoro nella scuola. Secondo il
governo, dunque, sono necessari strumenti tecnologici per reggere ogni giorno
lezioni a distanza per 8,3 milioni di student*, con tanto di video, slide,
immagini, ma un portale in cui ricevere dei file pdf è inimmaginabile.
L’odio.
2.
Fideismo tecnologico
Sono un
docente ingenuo, non so come fare DAD, didattica a distanza. Vado sul sito del
ministero dell’istruzione e vedo il link: «Didattica a distanza». Clicco. Ci
sono due menù: il primo è «Esperienze per la didattica a distanza», l’altro
«piattaforme».
Sotto
questo secondo punto sono elencate tre piattaforme: Google, Microsoft, Amazon.
Tre enti privati tra i più potenti al mondo schiaffati in bella mostra. Per
capire cosa questo voglia dire occorre fare un passo indietro nel ragionamento.
Nel suo
intervento al parlamento la ministra dell’Istruzione ha stanziato un
investimento di 85 milioni di euro per rendere possibile la didattica a distanza
su tutto il territorio italiano. Dell’intera somma, solo 5 milioni sono stati
dedicati alla formazione del personale. È l’unica misura economica prevista dal
primo intervento della ministra. Esplicitando: prima gli strumenti e poi la
garanzia economica di chi fino al giorno prima della chiusura aveva contratti
precari. Il fatto che la scuola non debba gravare ulteriormente sullo Stato è
dapprima implicito e poi confermato nel decreto del 6 aprile (articolo 8).
Nessun
problema: in fondo le piattaforme per la didattica online suggerite dallo Stato
sono ad uso gratuito e l’utilizzo, per esempio, di servizi Google è già
diffuso; moltissim* insegnanti, infatti, al momento della presa di servizio
sono obbligat* ad attivare l’account istituzionale su Gmail. Ma in questo momento l’accelerazione è evidente: molt*
insegnanti
1) hanno usato le chat del cellulare per rientrare in contatto con le loro classi, utilizzando in molti casi l’accounto Google registrato sul loro dispositivo;
2) utilizzano Google Meet per svolgere attività sincrone come le videolezioni;
3) utilizzano Google Classroom per lo scambio di materiali; infine,
4) hanno partecipato ad attività succedanee a Consigli di Classe e Collegi Docenti su piattaforme Google.
1) hanno usato le chat del cellulare per rientrare in contatto con le loro classi, utilizzando in molti casi l’accounto Google registrato sul loro dispositivo;
2) utilizzano Google Meet per svolgere attività sincrone come le videolezioni;
3) utilizzano Google Classroom per lo scambio di materiali; infine,
4) hanno partecipato ad attività succedanee a Consigli di Classe e Collegi Docenti su piattaforme Google.
Già i
registri elettronici sono gestiti da enti privati e sono massicciamente
utilizzati (perché obbligatori dal 2012), ma trascurare la forte ingerenza da
parte di enti privati in un’istituzione pubblica è molto rischioso. E il fatto
che ciò stia avvenendo in maniera acritica – tranne
rare eccezioni – produrrà mostri.
Il silenzio
acritico che accompagna questo ingresso “molecolare” del privato nella scuola
pubblica è allarmante per diversi motivi. Innanzitutto il fatto che queste
piattaforme siano il luogo in cui molti istituti prendono decisioni collegiali
in teoria non legittime, ma pronte a diventarlo in funzione di deroghe o
decisioni future. In questo modo, le major sono oggi
essenziali per il funzionamento della governance scolastica.
In secondo
luogo, c’è la questione della cosiddetta “privacy”, rispetto alla quale le
discussioni e i contenuti delle circolari sono indietro di una ventina d’anni.
Viene quasi da dire: «Scusi, ma ha mai sentito parlare di Cambridge Analytica?»
Dobbiamo
cominciare a dire che pensare la privacy
esclusivamente da un punto di vista individuale oggi è fortemente limitante. Il
problema principale non è solo il contenuto del singolo messaggio, ma il fatto
che i flussi di dati che mettiamo a disposizione rivelano le nostre
abitudini, i nostri gusti, le nostre necessità a chi poi non
farà altro che monetizzarli e sfruttarli per i propri interessi.
Il problema
non è (solo) che il Grande Fratello ti punisce se non la pensi come lui, ma che
usa i tuoi dati per capire come guadagnare su di te. Da questo punto di vista
Google e Microsoft sono tutt’altro che trasparenti, tanto che dove Google è già stato ampiamente testato il dibattito è piuttosto
feroce, mentre in alcuni paesi gli strumenti Google sono stati banditi dalla scuola.
«Prof, perché non usiamo Meet? È più facile!»
La
questione è enorme dato che non ci sono, attualmente, piattaforme free in grado di garantire servizi altrettanto
funzionanti ed efficienti, per una massa così spropositata di utenti. Tuttavia
possiamo condurre alcune forme di resistenza che nessun Collegio Docenti,
nessuna circolare, nessun dirigente, al momento ha il potere di negare.
Durante la
trasmissione Ora di buco su Radio Onda
Rossa, un professore intervistato ha chiarito molto bene i rischi dell’uso
acritico delle «piattaforme tossiche», suggerendo possibili alternative. Inoltre, il dibattito
su Giap in calce al post sul degoogling offre molti
spunti. Ne suggeriamo alcuni:
■ Su Ethical.net si
trovano numerosissimi software con standard etici decisamente più elevati
rispetto a Google;
■ I
software Framasoft –
con cui abbiamo prodotto l’inchiesta «Scuola in emergenza» – sono più che validi;
■ Greenlight è un software opensource utile per creare “room”
e convididere videolezioni.
■
Ricordatevi che potete usare Android senza ricorrere a Google.
3.
Aiutiamoli a casa loro (1)
Rispetto
agli studenti e alle studentesse più deboli, la ministra ha suggerito l’uso di
piattaforme dal sito del Miur ma, come abbiamo detto, senza relazioni quelle
piattaforme sono inutili. Per il resto la ministra ha fornito vaghe indicazioni
sul non lasciare indietro nessuno, ma senza stanziare le risorse necessarie: il
personale di sostegno non è stato aumentato, i corsi di italiano per stranieri
– forse con la sola eccezione dei CPIA (Centri per l’Istruzione Adulti), in cui
i corsi L2 hanno un peso importante – si sono interrotti, educatrici ed
educatori vivono nell’inferno della relazione con la loro cooperativa. I
soggetti con maggiori necessità, cui la Costituzione stessa (articolo 3)
riconosce il diritto di essere aiutati, sono lasciati nell’abbandono. Per
cavartela ti deve andare bene.
Mattinata per me tragicomica è stata quella in cui provavo a far
iscrivere un alunno con disabilità cognitive e non italofono alla piattaforma
Google ClassRoom. Per guidarlo passo passo nella serie di azioni necessarie
all’iscrizione, c’è stato bisogno di 5 dispositivi: il mio cellulare si
connetteva col cellulare della madre per le istruzioni vocali, il cellulare del
ragazzo riprendeva lo schermo del suo computer in modo che io lo guidassi passo
passo nell’esecuzione dei compiti, il mio PC controllava se l’iscrizione era
avvenuta. Era tutto un «A., inquadra lì, spingi quel tasto, inventa una password,
segnala su un quaderno, no aspetta quella non va bene, aspetta, hai spinto il
tasto “mute” non sento più niente…»
Questa
situazione è in realtà una delle migliori: il ragazzo ha accanto a sé un
genitore e un’insegnante che hanno la possibilità di dedicargli diverse ore. Ma
basta poco perché la situazione diventi drammaticamente diversa.
Il fatto è
che il problema è molto più profondo, anche in questo caso il sistema su cui
stiamo impostando la didattica a distanza è già sbagliato di suo: quando
parliamo di disabilità/difficoltà di apprendimento e DAD dovremmo riflettere
sul fatto che l’inclusione non si realizza solo fornendo tablet e pc (cosa tra
l’altro fondamentale), ma con un ripensamento globale del modo di fare scuola.
Questo genere di riflessione, nella concitazione dell’emergenza, non è ancora
avvenuta ma è evidentemente necessaria. In queste settimane ogni insegnante di
sostegno si sta arrangiando come può, cercando con creatività e dedizione
canali comunicativi per tenere tutti dentro. Bene la creatività, bene la
dedizione, ma senza un intervento sistemico che coinvolga famiglie, servizi
socio-sanitari, servizi educativi, l’inclusione con la DAD non sarà del tutto
raggingibile e sarà, anzi, problematica in sé.
La
situazione non è migliore per le persone da poco arrivate in Italia (NAI, nella
neolingua ministeriale), per le quali il rischio di abbandono scolastico è
sempre alto.
Un mio studente NAI – arrivato in Italia dal
Pakistan in autunno – è scomparso. La cooperativa che dovrebbe occuparsi di lui
non è stata ancora contattata. Colpa del docente coordinatore della classe?
colpa della funzione strumentale per gli alunni stranieri? o forse colpa della
burocrazia scolastica? Fatto sta che qualcosa sui NAI va detta: il loro
processo di integrazione in passato è stato delegato perlopiù al gruppo classe,
che ora non c’è più.
Anche in
questo caso gli sforzi si moltiplicano: insegnanti di italiano si re-inventano
insegnanti di italiano L2 e aumentano il loro carico orario, i contatti
docente-studente si moltiplicano «purché non si perda quanto di buono fatto».
Ma senza un’immersione nel contesto linguistico, la persona vive una difficoltà
quasi insormontabile. La didattica a distanza diventa quindi di per sé
escludente. Eppure viene svolta all’interno di una scuola che si dice, ancora e
nonostante tutto, pubblica.
Ancora una
volta questi casi sono i nodi irrisolti della scuola. Metterli al centro della
progettazione didattica dovrebbe essere dovere di ogni docente, soprattutto in
questo momento. Ma capita che la società in cui siamo immersi tuoni dall’altra
parte degli schermi facendo sentire le sue ideologie.
Le famiglie con più possibilità, quelle abituate al computer e
alla connessione senza limiti, rivendicano la propria frustrazione e il proprio
egoismo. Capita che genitori zelanti tormentino l’insegnante che non usa Google
Classroom e che non va avanti con il “programma”: «Mica ci possiamo sempre
sacrificare per chi non ce la fa».
La paura,
anche legittima, per i percorsi educativi de* propr* figl* elimina i freni
inibitori e scatena la lotta per la sopravvivenza. I suoi semi sono stati
sparsi in un contesto che per molti era considerato la «normalità». Ma
criticare quanto sta avvenendo senza criticare l’idea di «normalità» è un
errore decisivo.
4.
Aiutiamoli a casa loro (2)
«Io ho già iniziato con le videolezioni. Le faccio tutte così in
terza ci arrivano preparati.»
«Ma hai controllato che tutti avessero un computer?»
S. non aveva il computer. Se l’è procurato da sola, a inizio marzo, mentre il resto della classe faceva lezione. Ma il computer è vecchio e non riesce a connettersi. Gli ho scritto che ora la scuola li mette a disposizione.
«Sì, sì», mi ha risposto.
Non è più andata a prenderlo.
«Ma hai controllato che tutti avessero un computer?»
S. non aveva il computer. Se l’è procurato da sola, a inizio marzo, mentre il resto della classe faceva lezione. Ma il computer è vecchio e non riesce a connettersi. Gli ho scritto che ora la scuola li mette a disposizione.
«Sì, sì», mi ha risposto.
Non è più andata a prenderlo.
Quando la
ministra Azzolina è intervenuta in Parlamento prevedendo lo stanziamento di 85
milioni di euro per la didattica a distanza – diventata non più opzionale col
decreto del 6 aprile – questa forma di insegnamento era già stata avviata in
buona parte d’Italia spesso su stimolo de* dirigenti, dell’opinione pubblica in
generale o del voluminoso inserto del Sole 24 ore (particolarmente
interessato alla scuola, in questo periodo). In alcuni casi, divers*
insegnanti, magari dotat* delle migliori intenzioni, avevano ricominciato il
programma dando una parvenza di continuità scolastica, del tutto illusoria. Il
sistema che è nato da questa corsa è ricco di falle, dovute in parte all’enorme
squilibrio nelle possibilità di accesso alle risorse.
Non stiamo
necessariamente pensando alle famiglie meno abbienti. Facciamo un’ipotesi: una
famiglia di ceto medio potrebbe avere due computer in casa, di cui uno serve
per un genitore per la sua attività di smart working, l’altro
è conteso da fratello e sorella. Chi avrà l’accesso al computer? L’accesso sarà
sempre possibile?
Lezione del sabato mattina.
Prof: «G., puoi ripetere? Non ho capito cosa hai detto.»
G. (sussurrando): «Mi scusi, non posso alzare la voce, qui accanto c’è mio fratello che sta dormendo…»
Prof: «G., puoi ripetere? Non ho capito cosa hai detto.»
G. (sussurrando): «Mi scusi, non posso alzare la voce, qui accanto c’è mio fratello che sta dormendo…»
Viviamo
costantemente in casa con qualcun altro. Dopo più di un mese di isolamento è
già un miracolo che la gente non si accoltelli (cosa che in realtà
succede, anche se le istituzioni mantengono il silenzio a riguardo.
Possiamo immaginare come deve essere rilassata la contesa del pc.
Molt*
student* a questo punto ricorrono al cellulare.
«Ragazzi, le vedete le slide?»
«No prof, sta laggando un casino.» [Estratto da una videolezione]
«No prof, sta laggando un casino.» [Estratto da una videolezione]
Studenti e
studentesse si ritrovano così a ricevere spiegazioni magari iperaccurate e
qualitatativamente alte, da un black mirror di
otto centimentri per quattro. E il problema poi non si limita a studenti e
studentesse: gli insegnanti, com’è noto, non sono benestanti.
Una mia collega il 31 marzo ha avvisato sul registro che la
lezione saltava perché aveva finito i giga a disposizione e quindi le lezioni
ricominciavano ad aprile. [Estratto da un’assemblea Rete Bessa]
5.
Emozioni e lavoro
Studenti e
studentesse si collegano nelle loro camere, ascoltano o partecipano alle
lezioni, mentre magari accanto passano loro i papà, le mamme , fratelli o
sorelle.
Per bambine
e bambini delle primarie questa condivisione è d’obbligo: deve esserci sempre
una persona adulta anche come tutela da un uso improprio del mezzo e della
rete. Una bambina di otto anni, oltre a essere separata dalla sua classe, cioè
il contesto sociale in cui ha l’opportunità di sperimentare relazioni e
autonomia, si ritrova così dipendente più che mai dagli adulti e sempre
condizionata dalla loro presenza nell’apprendere e nel comunicare con il mondo.
Questa
condivisione dello spazio privato non giova nemmeno a chi è più adult*, privat*
di quell’indipendenza pur relativa di cui gode l’adolescente a scuola. Solo che
il corpo docente ancora meno di prima riesce a comprendere cosa si muove in
questo mondo.
Difficilissime
da intercettare sono le nuove forme di bullismo – «prof qualcuno mi caccia
dall’aula e non riesco a connettermi» – o di sessismo. Impossibile interpretare
i nuovi silenzi che accompagnano le lezioni. Cosa vuol dire avviare questa
forma di insegnamento è descritto molto bene sul blog di CattiveMaestre. Per chi insegna l’aula si
smaterializza e moltiplica allo stesso momento in un insieme di cellette fatte
di pixel attraverso le quali studenti e studentesse si osservano senza
interagire. Molt* non vogliono farsi vedere e spengono le loro telecamere.
Uno di loro, timidissimo, non parla nemmeno: per comunicare usa la
chat. Emerge insomma un problema grosso: quello del rapporto degli adolescenti
con la loro immagine e con la loro voce. Rinchiusi nelle loro cellette i
ragazzi sono più soli e più esposti. Non intervengono perché manca loro la
forza del gruppo, tant’è che non fanno neanche quel casino che facevano in
classe e che adesso viene quasi da rimpiangere.
In questo
contesto la qualità dell’insegnamento è altamente discutibile e nessun registro
in ordine può essere garanzia di un argomento effettivamente svolto, anche perché
le persone si ritrovano a ricevere spiegazioni senza quella partecipazione
collettiva che sempre accompagna, aiuta, fortifica la crescita degli individui.
È didattica
questa? Posto che di certo non possiamo rispondere convintamente di sì, una
risposta univoca non c’è. Perché per rispondere a questa domanda sarebbe
necessario chiedersi se fosse didattica quella di prima, quando una classe
corrispondeva a decine di problematiche differenti che difficilmente potevano
essere affrontate con gli strumenti a disposizione.
«Stanotte non ho dormito pensando alle videolezioni» [Tipico
messaggio ansiogeno da didattica a distanza]
La
soluzione però non è non far nulla, ma muovere da posizioni di buon senso. Per
esempio, ricordiamoci di tenere a bada il nostro senso di frustrazione: se non
otteniamo i feedback che ci auspichiamo è perché non esistono le condizioni
minime perché ciò possa accadere.
Evitiamo di
rispondere a questa frustrazione dicendo «I’ll work harder»,
come il cavallo Boxer in Animal Farm:
rispondere ai messaggi e mandare mail a ogni ora, essere sempre a disposizione
e in generale aumentare la nostra produttività a dismisura non è la soluzione,
ma è la base di nuovi problemi.
La Ministra
ha chiesto un aumento degli sforzi del corpo docente. È il messaggio perfetto
per un esponente di un governo turbo liberista in perfetta linea coi governi
precedenti, ma questo metodo non è salubre, né per noi, né per studentesse e
studenti che apprendono un metodo di lavoro folle.
Ciò non
vuol dire girarsi dall’altra parte o pretendere che tutto sia come prima.
Invece di buttare in avanti il programma rallentiamo, invece che dare chili di
pagine da leggere cerchiamo materiali che creino i collegamenti tra quanto si
studia e quanto sta avvenendo.
Di certo,
non facciamo finta che la situazione sia normale. Anche
perché da questo punto di vista «non vogliamo tornare alla normalità perché la
normalità era il problema».
6.
Valutare e punire
«Un buon docente sa progettare verifiche a prova di copiatura o
quasi, anche a distanza. E in questo momento è importante premiare chi si
impegna e punire chi non si impegna, perché anche i ragazzi devono assumersi le
proprie responsabilità nei confronti del paese.»
Da una riunione tra docenti online.
Da una riunione tra docenti online.
La proposta
che dopo una buona elaborazione collettiva ci sentiamo di esplicitare è questa: da qui alla fine dell’anno basta dare voti.
Lo abbiamo
scritto in un comunicato da poco pubblicato: da un po’ di tempo la
scuola si è infilata in un vicolo cieco ideologico che fa della valutazione il
suo perno. Diamoci una svegliata e ricordiamoci che la valutazione non è il fine della didattica.
«Non so come valutare gli errori di ortografia per quelli che scrivono
al computer. E poi come fare a impedire che copino?» [Estratto da una chat tra
insegnanti]
«Il prof di matematica ha deciso di filmarli durante le
interrogazioni, in maniera tale che si capisca da che parte guardano mentre
parlano.» [Estratto da una chat tra insegnanti]
Che
valutazioni pretendiamo di dare? Con che criterio?
Le
studentesse e gli studenti che dovremmo giudicare sono chius* a casa, ricevono
lezioni spesso problematiche per via della connessione, per via dell’umore
dell’insegnante, per via dello stress cui tutt* siamo sottopost*. E, ancora una
volta, questa è la migliore delle ipotesi, perché in molti casi la persona da
valutare è pigiata in casa con persone che – dopo un mese di isolamento – mal
sopporta, assiste alle lezioni dal cellulare e magari sfrutta i giga del
proprio abbonamento perché non ha connessione wifi illimitata.
«Io i voti li sto dando. Altrimenti i miei studenti non so come
ripigliarli.» [Da una discussione durante un’assemblea della
Rete Bessa]
Il fatto
che la valutazione possa essere lo strumento ricattatorio cui ricorriamo per
mantenere viva l’attenzione di studentesse e studenti dovrebbe metterci in
allarme. Vuol dire che anche chi si ritiene immune o critico rispetto ai dogmi
della scuola neoliberale in realtà non è immune e che per salvarci serve
scavare a fondo negli orrori dell’attuale sistema. Ora più che mai serve
rovesciare la logica cui siamo abituati e cogliere l’occasione per ripensare ai
nostri metodi dentro e oltre questa emergenza. Come far tornare ad essere
soggetti le studentesse e gli studenti? Come promuovere le loro qualità? Come
permettere loro di superare la difficoltà? Come valorizzare il lavoro di
gruppo?
Rifacendoci
alla ministra e alla sua conferenza stampa del 6 aprile: non è vetusto il 6
politico, è vetusto – perché è legato alla società neoliberale che vorremmo
relegare al passato – pensare che il processo educativo debba essere inserito
in una logica pseudo-meritocratica che prescinde dall’ambiente educativo e di
apprendimento, dove gli standard sono stabiliti a priori e giocano su un
sistema di competenze preconfezionate che comportano crediti o debiti.
7. Per un manuale di autodifesa
Quando ci
si interfaccia con l’ufficialità, siamo pienamente dentro la distopia.
Da un mese arrivano le comunicazioni dal preside che ha pensato
bene di dare istruzioni come «step uno», «step due», «step tre» e che non posso
evitare di leggere iniziando con «Italianiiiii» e una vocina un po’ nasale e
pimpante:
«Stiamo vivendo una “emergenza nazionale” che cambia non solo i
modi e i tempi dell’insegnamento ma anche i profili dell’Istituzione
Scolastica, la configurazione del docente e le attese degli stakeholders. La
locuzione “successo formativo”, ai “tempi del coronavirus”, diviene
dunque sinonimo di
– implementazione dell’interesse
– implementazione della partecipazione
– implementazione dell’impegno
– espressione di responsabilità e senso civico
Vi chiedo pertanto di esprimere il massimo grado di flessibilità possibile in questa fase emergenziale … flessibilità che non si traduce unicamente nel “fare lezione in un momento e in un luogo diverso” ma nella capacità di dare un significato diverso alle pratiche ordinarie. Continuate dunque su questa direttrice. […] sarà mia premura capitalizzare il vostro impegno e valorizzare, con i fondi del bonus premiale, il vostro operato. Entro il fine settimana, sentito l’animatore digitale, vi trasmetterò le nuove linee guida per la didattica a distanza da praticare nella prossima settimana […] continuate dunque a restare connessi ….»
– implementazione dell’interesse
– implementazione della partecipazione
– implementazione dell’impegno
– espressione di responsabilità e senso civico
Vi chiedo pertanto di esprimere il massimo grado di flessibilità possibile in questa fase emergenziale … flessibilità che non si traduce unicamente nel “fare lezione in un momento e in un luogo diverso” ma nella capacità di dare un significato diverso alle pratiche ordinarie. Continuate dunque su questa direttrice. […] sarà mia premura capitalizzare il vostro impegno e valorizzare, con i fondi del bonus premiale, il vostro operato. Entro il fine settimana, sentito l’animatore digitale, vi trasmetterò le nuove linee guida per la didattica a distanza da praticare nella prossima settimana […] continuate dunque a restare connessi ….»
In un
contesto in cui l’emergenza è affrontata a botte di DPCM che bypassano il
Parlamento, la struttura delle scuole diventa quanto mai verticista. A volte il
decisionismo della dirigenza può sembrare più efficiente nel affrontare
l’emergenza, ma queste situazioni sono del tutto circostritte e instabili.
Il o la
dirigente, forte di un’autorevolezza riconosciuta loro dalla riforma Renzi, si
può trasformare in un despota che tenta di imporre misure e modalità. Anche
qui CattiveMaestre lo spiega bene. Per come si è
strutturata la scuola tale autorevolezza funziona persino in negativo, ossia
nei casi in cui la dirigenza che non fornisce alcuna indicazione, lasciando
mano libera all’auto-organizzazione del corpo docente.
In teoria,
quest’ultimo aspetto potrebbe essere anche positivo, ma calando questo
principio nella realtà di una società inquinata da decenni di discorsi feroci,
colleghe e colleghi rischiano al contempo di tramutarsi nei peggiori nemici:
sei di sostegno? Non hai diritto di parola. Sei supplente? Lascia parlare chi è
di ruolo. Sei giovane? Che ne vuoi sapere!
Nell’attesa
che qualcuno produca un manuale di autodifesa
dall’apocalisse ci permettiamo alcuni consigli immediati:
■ le
circolari non sono, in nessun modo, fonti di diritto;
■ la
legittimità delle prese di posizione della dirigenza in questo contesto è
ampiamente discutibile;
■ la
legittimità di collegi tenuti online e delle decisioni prese in quelle “sedi” è
altrettanto discutibile;
■ colleghi
e colleghe stronzi possono serenamente essere mandati a quel paese, si dice
addirittura faccia bene alla salute;
■ teniamoci
stretta la libertà di insegnamento.
«Non è il
momento di fare polemiche.»
Fra le
tante cavolate lette nelle chat di docenti dell’ultimo mese e mezzo, questa
frase è poco presente. È un buon segnale.
È proprio
questo il momento di far polemica. Pochi giorni fa, l’ex primo ministro di un
governo che non è stato colpito da asteroide – nonostante i migliori auspici – ha
dichiarato in una trasmissione televisiva che la didattica online è una delle
cose positive che ci porteremo a casa da questa emergenza.
E
verosimilmente sarà così. Anzi, come abbiamo già scritto in un testo che ci è servito come base per scrivere questo articolo,
è già così.
Per come si
sta impostando, il sistema emergenziale attivato prevede una moltiplicazione
del lavoro, un indebolimento di chi è già più debole, un controllo maggiore
dall’alto, una frammentazione dei corpi collettivi che ostacola i percorsi
educativi e favorisce l’individualismo. Bisogna impedire che questa forma
emergenziale diventi stabile, come successo per altre emergenze.
Al contempo
la riflessione puntuale sulla didattica a distanza deve andare di pari passo
con una riflessione sul quadro in cui le difficoltà attuali si innestano: come
per la sanità, anche la scuola ha bisogno di un corposo rifinanziamento se non
vogliamo che l’intero sistema affondi, come per la sanità la questione della
precarietà va affrontata tramite la stabilizzazione del personale, e i
“soggetti a rischio”, ossia gli studenti e le studentesse che hanno bisogno del
personale di sostegno e dei corsi di italiano L2, devono essere salvaguardati
attraverso l’iniezione di strumenti e personale. Qualunque forma di didattica,
online o meno, qualunque scuola del futuro deve ripartire da qui.
Gli
anticorpi contro questa distopia vanno sviluppati subito.
By any
means necessary.
* La Rete Bessa è un collettivo di insegnanti,
educatrici ed educatori nato alla fine del 2019 a Bologna, più precisamente
negli ambienti della ex-Caserma Sani, lo
stabile occupato da XM24 dopo lo
sgombero della sede storica di via Fioravanti.
La chiusura
delle scuole e lo scenario che si è aperto negli ultimi mesi hanno spinto la
Rete a interrogarsi sui cambiamenti che stanno avvenendo. Uno degli strumenti
utilizzati è questa inchiesta, prodotta insieme nell’ambito del
progetto Ricerca Sociale in Emergenza, in cui ci si interroga su
molti dei temi trattati anche in questo articolo.
Il nome
BESSA è frutto di un gioco di parole. È l’invenzione della forma femminile di
BES, acronimo che nel gergo burocratico della scuola si attribuisce a persone
con «bisogni educativi speciali». Il sistema scolastico è innamorato degli
acronimi. Bessa è anche una parola del
dialetto bolognese, significa «biscia». La bessa è un
canto di lotta delle mondine della bassa bolognese che esalta lo sciopero a
oltranza e dice: meglio ridursi a mangiare bisce che stare con i crumiri.
Il blog della Rete Bessa è qui.
Il blog della Rete Bessa è qui.
Decalogo con lode sulla
didattica a distanza - Rete Bessa
L’emergenza CoronaVirus non ha risparmiato il mondo
della scuola. In particolare, è emerso il tema della didattica a distanza che
il Ministero e il dibattito mainstream hanno dipinto come
soluzione alle difficoltà di questo momento.
Se è evidente che la tecnologia consente di mantenere
un contatto con gli studenti quanto mai necessario, l’accelerazione acritica
del dibattito e dei provvedimenti di questi giorni è preoccupante. Sappiamo
bene che durante qualunque emergenza vengono spesso adottate misure e
innovazioni che sono poi destinate a rimanere nella quotidianità
lavorativa e sociale, senza che ci sia stato nemmeno il tempo di vagliare le
diverse opzioni in campo, né di discutere i provvedimenti. Ma proprio perché
siamo in questa situazione, proprio perché l’emergenza non sarà breve e
perché i provvedimenti continueranno a influire sul nostro lavoro anche quando
tutto sarà finito, occorre discuterne attentamente.
Anzitutto, un dato politico spiccio: in
maniera analoga al campo della sanità – fatti i dovuti distinguo – anche nella
scuola la deregulation, il taglio delle risorse,
l’autonomia, il decentramento degli ultimi 30 anni hanno determinato una
situazione estremamente disomogenea. Ciascun istituto, a seconda delle
condizioni del proprio territorio e delle risorse a disposizione, ha reagito a
suo modo componendo un quadro di radicale frammentazione che investe sia la
didattica (ogni scuola, ogni classe, addirittura ogni docente ha fatto per sé),
sia la situazione contrattuale (rispetto alla quale abbiamo già scritto qui ).
Partendo da un’autoinchiesta sulle nostre modalità
didattiche in questo periodo di emergenza, ci siamo confrontati sulla
vastissima frammentarietà dello scenario che abbiamo davanti e su
alcuni discorsi che lo caratterizzano. Abbiamo individuato alcuni nodi critici
rispetto ai quali non abbiamo soluzioni, ma su cui riteniamo necessario un
confronto per mantenere la barra dritta, dentro e nonostante l’emergenza. Ne è
venuto fuori un decalogo, cui crediamo possa essere riconosciuta una
lode piuttosto inquietante.
1. L’accesso alle risorse.
La tecnologia non annulla le condizioni materiali in
cui viviamo e le risorse cui possiamo accedere. Fin dai primi giorni di questa
emergenza è stato evidente che non tutt@ (né nel corpo docente, né all’interno
delle classi) avevano libero accesso alla connessione online:
avere un computer è diverso da avere un cellulare, avere la connessione tutto
il giorno è diverso da averla per poche ore, usare la linea di casa è diverso
da utilizzare i dati di un abbonamento. Il problema va poi riportato ad una
differenza tra le diverse aree del Paese, caratterizzato da forti
divisioni al suo interno.
Queste problematiche non sono relative solo alle
classi, ma allo stesso corpo docente: la persona costretta a casa spesso deve
condividere il computer con i vari conviventi. Non dimentichiamoci a questo
proposito che chi svolge il lavoro domestico, e quindi quasi sempre le donne, viene
costretto a ritagliarsi delle pause per svolgere la didattica a distanza,
rendendo la sovrapposizione degli ambienti casa-lavoro ancora più faticosa da
gestire.
Senza un ragionamento sulle possibilità di accesso
alle risorse siamo inevitabilmente destinati ad aumentare le disuguaglianze che
già esistono, tanto a scuola come nel resto della società.
2. La lingua
Al telefono, via Skype o in qualche piattaforma che
consente le conference l’audio non è dei migliori. La linea si
interrompe, le frasi a volte sono a scatti. Non sarebbe un problema così
rilevante, se non fosse per il fatto che una buona fetta della popolazione
scolastica non è di madrelingua italiana. Sono gli esami di lingua straniera
più complessa che prevedono un suono disturbato, proprio perché apprendere la
lingua in questo modo richiede una notevole competenza. Un discorso simile vale
anche per i compiti scritti, non sempre fruibili pienamente dagli
studenti. Si aumentano così le difficoltà per chi già è costretto a far
più fatica.
I corsi di italiano L2 spesso non sono stati riattivati
dalle scuole durante l’emergenza. Questi corsi sarebbero la condizione
necessaria per permettere agli studenti e alle studentesse neoarrivate di
accedere alla didattica online, dato che questo canale presuppone una
conoscenza della lingua italiana che evidentemente non possono avere.
3. Accessibilità
Le/gli alunn@ che hanno diritto alla presenza in
classe di un* insegnante di sostegno si ritrovano a casa, da sol@ o a carico
della famiglia, posti davanti alla novità dell’e-learning, attraverso uno
schermo e nuove consegne. Gli insegnanti di sostegno, chiamati al
lavoro di mediazione tra l’alunn@, i docenti curricolari, i servizi e le
famiglie si barcamenano come possono per garantire l’inclusione scolastica
insegnando agli alunni in difficoltà e alle loro famiglie ad usare mille
piattaforme diverse, la mail, le videochiamate su Whatsapp. La socialità, le
relazioni, la didattica, le abitudini, campi nei quali in molti casi si
manifestano le difficoltà della persona con difficoltà di apprendimento, devono
così per forza passare da un unico nuovo e non malleabile strumento. Nel
migliore dei casi il modo di utilizzarlo diventa il grande prerequisito da
affrontare a distanza prima di poter giungere al contenuto, che comunque non
sempre è facilmente adattabile alla disabilità in questione. Nello scenario
peggiore, invece, questo strumento diventa solo un’ulteriore e invalicabile
barriera che rende impossibile l’accesso ad una didattica on line, alimentando
esclusione e senso di inadeguatezza.
4. L’età
Si può chiedere ad una bambina di 6 anni di accedere
alla sua lezione di italiano on line allo stesso modo con cui lo si chiede ad
una ragazza di 16? Si può chiedere ad una docente di seconda elementare di
preparare una lezione on line allo stesso modo con cui lo si chiede ad una
professoressa di quinta superiore? Se la didattica on line non può mai dirsi
sostitutiva di una didattica in presenza, questo diventa ancor
più evidente per le/i bambin* più piccol*. Da un lato mancano a*
più piccol* le competenze per comprendere le istruzioni scritte e per utilizzare
programmi informatici. Dall’altro manca al corpo docente la
formazione su quali programmi utilizzare e quale materiale adeguato
trovare in rete.
5. Soggetti/oggetti
Tutti questi punti si intrecciano con un problema
molto più radicato. Se l’alunna o l’alunno non hanno una buona
consapevolezza degli strumenti, la didattica online diventa uno strumento che
rende passivo il soggetto, che così diventa solo un numero connesso. Formarsi e
formare le persone per evitare che ciò accada è condizione necessaria affinché
qualsiasi forma di didattica online sia possibile.
Inoltre, ciò che stiamo apprendendo in questo periodo
è che la maggior parte delle persone “native digitali”, in realtà, non sa usare
gli strumenti telematici in maniera appropriata. Spesso pure mandare
mail o creare un account è un compito difficile.
Non diamo poi per scontato che la competenza del corpo
docente sia maggiore. Dalle chat in cui ci troviamo sappiamo benissimo che le
competenze diffuse non sono neanche lontanamente adeguate alla situazione in
cui ci troviamo e si impiega molto tempo per apprendere il corretto
funzionamento di registri e piattaforme.
È chiaro che in questa mancanza di competenza
generale la governance diventa sempre più verticista: l’insegnante
si impone sulla classe; la dirigenza si impone sul corpo docente a botte di
circolari. Tanto tutto si fa di fretta, poi si vede.
Manteniamo il punto sulla necessità del confronto e
della relazione, prima che sia troppo tardi.
6. Le materie
È bellissimo avere una schermata che illustra le
nostre classi, gli argomenti trattati, le risposte della classe ai compiti. Ma
la scuola non può essere una dispensa in cui le diverse discipline sono
inserite nell’apposito scompartimento. Non basta svolgere un compito,
un’attività, per poter affermare di aver sviluppato una competenza. Il
meccanismo dei crediti esce rafforzato da quest’emergenza, fornendo
l’illusione che per procedere nell’insegnamento (e nell’apprendimento) basti
spuntare una casella corrispondente alle attività svolte a distanza.
Il processo di apprendimento prevede un confronto tra
le discipline e la capacità di sviluppare collegamenti e ha bisogno di un tempo
non misurabile per maturare. Senza contare che nella forma didattica online
diverse materie sono svantaggiate (musica, educazione fisica, le attività
laboratoriali…) perché poggiano sulla compresenza fisica di più persone o
sull’accesso a determinati strumenti di uso non comune. Queste discipline non
sono isolate rispetto al resto del percorso, ma andrebbero integrate nel
percorso scolastico complessivo.
7. La relazione
Bisogna dirlo in modo chiaro: l’attività
scolastica passa necessariamente dalla relazione. L’empatia e le
emozioni giocano un ruolo centrale e le forme della didattica online
impongono filtri inaggirabili in questo ambito. Ciò non vuol dire che non sia
possibile stabilire forme di relazione attraverso gli strumenti online.
Attraverso chat, videolezioni, mail, persino attraverso i compiti e le loro
correzioni possiamo avere relazioni, ma sono ancora meno trasparenti
rispetto al solito. Con un basso livello di consapevolezza dell’uso degli
strumenti, lo scambio che normalmente avviene nella didattica, già di per sé
problematico e sfaccettato, è impossibile da raggiungere.
8. La valutazione
“Non do valutazioni perché poi da casa copiano”,
oppure “Se non mi mandano i compiti do valutazione negativa”: questa
polarizzazione del discorso, molto frequente in questi giorni, è
del tutto fuorviante. Prima di far danni dovremmo riflettere sul senso di
dare valutazioni nel momento in cui le relazioni sono sospese nel limbo
dell’emergenza. Occorre invece ripartire dalle base e ricordarsi che la scuola
non è una fuga verso un numero che definisce chi sei e quali sono le tue
capacità. E premiare le persone che studiano di più, è una forma di
meritocrazia molto problematica in quanto isola le persone
prescindendo dal contesto in cui sono inserite. Il rischio è di incoraggiare,
una volta di più, una competitività dannosa che stabilisce chi
sono i buoni e i cattivi, chi bisogna salvare, chi è perso.
Occorre rendersi conto che la valutazione così intesa,
è diventato lo strumento con cui si sostengono o condannano comportamenti
in maniera del tutto aleatoria. Noi stess@, le scuole di cui facciamo parte,
siamo costantemente sottopost@ a valutazione, a prescindere dalle condizioni in
cui viviamo. In questo momento conviene fare diversi passi indietro: parliamo
dei metodi, del rapporto educativo in sé, parliamo di come svolgere la
didattica senza farci prendere dall’ansia di mettere un numero sul registro.
Ciò che ci stiamo giocando va molto al di là della valutazione in sé.
9. Privacy, tracciabilità, controllo
“Le piattaforme che usiamo rispettano la privacy”
Non è vero e nel mondo il problema comincia a diventare chiaro.
Le app che usiamo nei nostri cellulari o che scarichiamo sui
nostri portatili tracciano i nostri percorsi, richiedono accesso ai nostri
dati, creano dei profili a scopo commerciale che dovremmo cercare di evitare il
più possibile. Non è possibile non essere tracciat@ del tutto, e per certi
versi è un problema che trascende la scuola, ma che a proporre acriticamente
tali strumenti sia un’istituzione come la scuola è grave.
La questione del controllo, sempre maggiore, rispetto
all’attività dell’insegnamento ora rischia di esplodere: il dubbio è lecito se
leggiamo l’indagine avviata dal ministero sulla Didattica a
distanza che si interroga sulle forme dell’insegnamento
dell’emergenza, ex post, ossia senza che lo stesso Ministero abbia
predisposto gli strumenti necessari.
A ciò si aggiungono dubbi del tutto materiali: da
casa, lo studente o la studentessa possono sentirsi liberi di
rispondere come meglio credono ad una domanda, anche se i genitori sono
presenti? Chi insegna ha una situazione serena a casa per cui può permettersi
di parlare di qualunque argomento? Si può parlare degli argomenti che trattiamo
tranquillamente in classe senza l’intervento o l’ascolto di soggetti
terzi che potrebbero seriamente limitare la libertà dell’insegnamento?
10. Proprietà
È bello svegliarsi in un mondo in cui le grandi
multinazionali assumono una modalità filantropica regalando strumenti e
piattaforme senza nulla in cambio. Purtroppo non è così.
Non avviene da ora: sono anni che la scuola paga per
avere registri elettronici su cui abbiamo pochissima voce in capitolo. Durante
questa emergenza, tuttavia, sta avvenendo un passaggio significativo. La
ministra Azzolina in persona ha suggerito l’utilizzo dei servizi Google come
strumento valido per la didattica a distanza. E così su Classroom svolgiamo
Collegi Docenti, su Drive inseriamo i materiali, su Meet facciamo videolezioni,
ovviamente con account Google. Abbiamo così un privato che entra molecolarmente
nella scuola, addirittura sponsorizzato dagli organi decisionali.
Bisogna ricordarsi che Google (così come Youtube e
Whatsapp, altri strumenti massicciamente usati in questo periodo) non è una
piattaforma libera e ha tutto l’interesse a diventare
insostituibile per estrarre la mole di nostri dati con lo scopo di ricavare profitto.
Ci sono strumenti che non sono proprietà di enti privati, che non traggono
profitto dalla profilazione dei nostri dati. È necessario tentare di
utilizzarli il più possibile.
In questo periodo stiamo vedendo in modo chiaro qual è
il problema della privatizzazione e della sanità pubblica. Dobbiamo dircelo
chiaramente e dobbiamo farlo ora: dare in gestione un apparato dello
Stato ad un privato è un problema serio.
10 e Lode.
Si lavora di più. Si lavora sempre.
Ciò che sta avvenendo con la didattica online, in
realtà era già visibile da molto tempo in più settori: i lavori che
svolgiamo stanno via via occupando sempre più tempo e non c’è alcun confine tra
il lavoro e la vita.
Facciamo attenzione: non siamo un caso unico, al
contrario. Buona parte delle attività lavorative prevede uno sforamento nella
nostra vita privata, chi lavora come free lance conosce queste
problematichesono da molti anni. Chiunque si prepara meglio, svolge corsi per
migliorare la propria prestazione o per rimanere al passo. Chiunque viene
chiamato a qualsiasi ora per chiarire un dubbio sul lavoro. Chiunque dedica
tempo ad apprendere strumenti informatici. Questa cosa si chiama lavoro.
Il salto che sta avvenendo è l’istituzionalizzazione
di questa modalità.
Le basi per questo cambiamento ci sono già, la
didattica online è già stata sperimentata. Le scuole
serali prevedono che si possa fruire a distanza della didattica di una parte
del periodo scolastico in misura non superiore del 20% del totale (dpr
263/2012) con l’alibi della personalizzazione didattica e dello sviluppo di
competenze digitali. Il risultato è (per lo meno secondo l’esperienza di molt@
insegnanti) che al docente è richiesto di erogare il 20% di
didattica in più, cioè oltre le ore contrattuali per le
quali veniva assunto e pagato.
Come avrete capito, 10 e lode non è poi un
gran voto.
I rischi di
affidarsi ai colossi della tecnologia per la didattica a distanza - Maurizio
Mazzoneschi
Il lockdown
deciso dal governo italiano e dalla maggior parte dei paesi più ricchi ha avuto
tra le sue conseguenze anche un’accelerazione nell’uso delle tecnologie
digitali. Scuole e università sono state costrette ad adottare la didattica a
distanza per proseguire le lezioni, e in questa emergenza
stanno venendo al pettine tutti i nodi di decenni di
immobilismo.
Innanzi
tutto va detto che gli insegnanti, ma anche gli studenti, e i genitori, si sono
dovuti far carico di inventarsi “a distanza” un modo di procedere, perché poco
o nulla era stato sperimentato prima. Avanzando in ordine sparso, molte scuole
e università hanno semplicemente riprodotto in videochat quello che facevano in
aula. Per mandare agli insegnanti i compiti da fare a casa, assegnati sul
registro elettronico, sono stati usati vari sistemi, a volte l’email, a volte
Google Drive, altre volte ancora usando piattaforme come Edmodo. Nel frattempo
il ministero dell’istruzione (Miur) ha cominciato
a dare indicazioni sulle piattaforme per la didattica a
distanza da adottare: Google Suite, Office 365, Weschool, Amazon.
Possiamo
immaginare che, non avendo idee, il ministero abbia scelto alcuni colossi della
tecnologia sia per le garanzie di affidabilità che offrono sia perché le
persone – insegnanti e studenti – sono già abituate a usare gli strumenti
offerti da Google, Microsoft e Amazon.
E così, anche nel campo della didattica, una funzione pubblica è stata fatta
scivolare verso le aziende private. In questo panorama si è ridotta la libertà
d’insegnamento così come la varietà di metodi didattici, ed è sparita
completamente la questione della privacy, della raccolta e gestione dei dati, e
il problema delle disuguaglianze.
Niente cooperazione
Gli aspetti dei processi educativi che riguardano le relazioni – un professore attento, un’insegnante che ci dice una parola in un momento particolare, un compagno che ci aiuta o ci ostacola – e che avvengono in aula o nei corridoi, sono stati sfrondati o addirittura eliminati dalla didattica a distanza, come se fossero un surplus. Ciò che conta è il contenuto e la valutazione quantitativa. Quindi si fa lezione attraverso le videochat e si assegnano i compiti inviando schede e test da compilare. Perdendo però il cuore della crescita di una persona, e dimenticando che il contesto e le relazioni non sono quantificabili.
Gli aspetti dei processi educativi che riguardano le relazioni – un professore attento, un’insegnante che ci dice una parola in un momento particolare, un compagno che ci aiuta o ci ostacola – e che avvengono in aula o nei corridoi, sono stati sfrondati o addirittura eliminati dalla didattica a distanza, come se fossero un surplus. Ciò che conta è il contenuto e la valutazione quantitativa. Quindi si fa lezione attraverso le videochat e si assegnano i compiti inviando schede e test da compilare. Perdendo però il cuore della crescita di una persona, e dimenticando che il contesto e le relazioni non sono quantificabili.
Tutto questo
è il risultato di una pressione in atto da anni nella scuola. Una pressione
esercitata da chi ha provato a trasformarla in un luogo dove premiare solo la
competenza e l’efficienza, come se l’unico obiettivo fosse quello di
“addestrare” gli studenti a prepararsi e ad adattarsi a un mondo del lavoro in
continua evoluzione.
Solo tenendo
conto di questo contesto si può capire la scelta del Miur di affidarsi alle
piattaforme dei colossi della tecnologia. Una scelta fatta senza considerare,
tra l’altro, che queste aziende sono cresciute raccogliendo dati e metadati da
rivendere o da usare per individuare gusti e orientamenti delle persone e
manipolarli.
Il software
libero offrirebbe maggiori garanzie a livello di sicurezza, gestione e
miglioramento dei servizi
Gli
strumenti che mettono a disposizione si basano su software proprietari, cioè
chiusi e non modificabili, realizzati per un utente-consumatore, che compra (o
fruisce di) una licenza per accedere a uno spazio “concesso” dall’azienda. Un
modello gerarchico perfetto per la scuola delle competenze. Si è preferito
questo approccio, invece di puntare su un modello che permetta di costruire
modalità di apprendimento significative e collaborative, in spazi gestiti
direttamente da scuole e università, usando Free/Libre open source software
(F/Loss), cioè software
liberi.
Il software
libero offrirebbe maggiori garanzie a livello di sicurezza, gestione,
manutenzione e miglioramento dei servizi. Se invece una piattaforma per la
didattica a distanza si basa su un software proprietario ed è progettata in
modo rigido – in un modo per esempio che non consente agli studenti di
aggiungere contenuti, di scrivere a più mani sullo stesso file e di permettere
la relazione tra loro – è evidente che renderà difficile una didattica
cooperativa. L’unica possibilità è pagare per chiedere all’azienda proprietaria
di modificarla, se si tratta di una realtà piccola. Se invece la piattaforma è
rigida ma comunque si basa su un software libero, avendo le competenze
sufficienti si può intervenire direttamente.
Federazione e aiuto tra pari
Scegliere di usare una piattaforma invece di un’altra condiziona anche il metodo didattico. E se una piattaforma è disegnata per un certo tipo di interazione tra le persone – collaborativa o gerarchica – sarà molto difficile modificarla per usarla diversamente da come è stata progettata. Molto banalmente, se non è previsto che gli studenti possano commentare un contenuto inserito dal docente, quell’attività didattica non si potrà fare. Si dirà: ma è una funzionalità che si può aggiungere. Purtroppo no, perché le piattaforme delle grandi aziende non sono piattaforme F/Loss. Non è possibile cioè installarle e modificarne liberamente interfaccia e funzionamento.
Scegliere di usare una piattaforma invece di un’altra condiziona anche il metodo didattico. E se una piattaforma è disegnata per un certo tipo di interazione tra le persone – collaborativa o gerarchica – sarà molto difficile modificarla per usarla diversamente da come è stata progettata. Molto banalmente, se non è previsto che gli studenti possano commentare un contenuto inserito dal docente, quell’attività didattica non si potrà fare. Si dirà: ma è una funzionalità che si può aggiungere. Purtroppo no, perché le piattaforme delle grandi aziende non sono piattaforme F/Loss. Non è possibile cioè installarle e modificarne liberamente interfaccia e funzionamento.
Per fortuna
esistono delle piattaforme didattiche di questo tipo (Moodle, Ilias, Ada eccetera), che possono essere
installate sui server di scuole e università, magari in maniera federata: cioè
a livello locale, senza doversi per forza affidare ai server delle
multinazionali. A differenza dei software proprietari, possono essere
modificate e migliorate, questi miglioramenti possono (anzi devono) essere
condivisi e resi disponibili a chiunque ne possa aver bisogno. Ovviamente tutto
questo presuppone l’impegno di dirigenti scolastici e insegnanti. I dirigenti
dovrebbero preferire piattaforme di questo tipo invece di sottoscrivere licenze
d’uso per i software di aziende private (che finita l’offerta per la pandemia
di covid-19 potrebbero tornare a pagamento, anche se colossi come Alphabet, la
casa madre di Google, promettono il contrario). Adottare strumenti F/Loss ha
anche altri aspetti positivi: invece di pagare multinazionali private, la
didattica finanzierebbe la costruzione di infrastrutture digitali locali,
controllate dalle persone che le usano.
Un’architettura
basata su server locali federati e software liberi consentirebbe anche di
adottare le giuste misure in situazioni di emergenza come quella di oggi. Per
esempio, una scuola, che sa perfettamente quanti sono i suoi iscritti, sa anche
di quanta rete ha bisogno per le sue videolezioni, e se capisce che ha un
eccesso di risorse potrebbe offrirne agli istituti che ne hanno più bisogno. La
federazione si basa sull’aiuto tra pari, non è una multinazionale che vende il
suo prodotto.
Dati e privacy
L’Europa ha un regolamento per la protezione dei dati, il General data protection regulation (Gdpr), diventato operativo anche in Italia nel maggio 2018. Il suo obiettivo è rinforzare la tutela dei dati personali dei cittadini dell’Unione europea. Attenzione però: quasi tutte le piattaforme indicate dal Miur sono di proprietà di multinazionali statunitensi. È vero che hanno giurato e spergiurato di attenersi al nostro regolamento, alcune hanno firmato accordi di safe harbour (un porto sicuro, un approdo per i dati), ma forse sarebbe meglio non correre il rischio di interpretare male i termini di servizio o di assoggettarsi alle oscure trame a cui ci ha abituato Facebook (come nello scandalo della Cambridge Analytica).
L’Europa ha un regolamento per la protezione dei dati, il General data protection regulation (Gdpr), diventato operativo anche in Italia nel maggio 2018. Il suo obiettivo è rinforzare la tutela dei dati personali dei cittadini dell’Unione europea. Attenzione però: quasi tutte le piattaforme indicate dal Miur sono di proprietà di multinazionali statunitensi. È vero che hanno giurato e spergiurato di attenersi al nostro regolamento, alcune hanno firmato accordi di safe harbour (un porto sicuro, un approdo per i dati), ma forse sarebbe meglio non correre il rischio di interpretare male i termini di servizio o di assoggettarsi alle oscure trame a cui ci ha abituato Facebook (come nello scandalo della Cambridge Analytica).
Ma anche
volendo credere alla buona fede e alla capacità effettiva delle multinazionali
della tecnologia di tenere separati i dati europei da quelli degli altri, c’è
un altro tema non meno importante, che riguarda in particolare Google.
L’azienda
californiana ha messo la raccolta dei dati (e dei metadati) al centro delle proprie
attività, investendo molto anche sull’intelligenza artificiale e sulla machine learning, il sistema che consente alle macchine
di “imparare” attraverso l’interazione con le persone, immagazzinando
informazioni sulle loro preferenze. In questa situazione di emergenza, Google è
nella condizione di acquisire una quantità mostruosa di dati dei nostri
studenti e degli insegnanti. Per non parlare dei contenuti prodotti dai
docenti: una quantità e qualità di dati inedita nella storia delle tecnologie
digitali.
Sfruttando i
dati, le tecniche di machine learning e
l’intelligenza artificiale, Google potrà offrire contenuti didattici prodotti
automaticamente. Mentre per valutare (e stimolare) gli studenti si affiderà al
metodo dell’addestramento tipico delle sue piattaforme: stelline, voti, like,
premi in cambio di risposte rapide e facilmente misurabili; classifiche e
livelli dove inquadrare ragazze e ragazzi.
L’educazione,
però, è un’altra cosa. Richiede delle accortezze
specifiche se si fa online (meglio evitare le chat di gruppi,
stabilire delle regole di protezione per quelle video, ecc.), ha bisogno di
pazienza, di creatività, di condivisione e di fiducia. Tutti poi devono avere
la possibilità di raccontare le
proprie esperienze e trarne delle lezioni. Le tecnologie possono
aiutare a farlo, come insegna tra l’altro la pedagogia
hacker.
DI BOCCIATURE, VOTI E ALTRE
AMENITÀ - Mauro Piras
Lo dico subito:
questo è uno sfogo. Una reazione irritata a una serie di cose che abbiamo
dovuto sentire in giro sulla scuola in queste settimane, nel pieno
dell’emergenza. Una reazione ai luoghi comuni, alla pigrizia intellettuale, ai
riflessi condizionati, o forse a una visione reazionaria della scuola talmente
radicata nella cultura dell’italiano medio (del giornalista medio, del politico
medio, dell’opinionista medio) che neanche ce ne rendiamo più conto. “È un 6
politico!”, “Se li promuoviamo tutti non c’è più serietà!”, “Così si
deresponsabilizzano gli studenti!”, “Il lavoro dei docenti non ha più nessuna
dignità!”, “Non ha più senso mettere i voti!”. Ecc. Tutto più o meno
riassumibile nel sommo principio: “Signora mia, non c’è più la scuola di una
volta!”. Cosa piuttosto commovente, a dire il vero, perché, a parte il caso
ormai raro di qualche quasi ottuagenario brontolone, la maggior parte di questi
spropositi viene pronunciata da gente come me, cinquantenni che hanno fatto la
scuola degli anni ottanta, semisgangherata, che hanno fatto un esame di
maturità superleggero, con due materie all’orale di cui una a scelta e l’altra
pure, che non hanno mai vissuto sulla propria pelle un’emergenza di questo
genere. Quindi quello che segue è un tentativo di tradurre in frasi leggibili
la serie di contumelie e insulti che attraversano la mia mente quando leggo o
sento quelle cose.
Primo, il “6
politico”. Che dire? Che non c’entra niente, che parlare di “6 politico” in
questo contesto è solo sciatteria, approssimazione, pigrizia linguistica.
L’espressione è venuta fuori appena si è iniziato a parlare di promuovere
tutti. Intanto, promuovere tutti non vuol dire dare a tutti lo stesso voto,
come vedremo dopo. Ma soprattutto, anche se questa promozione fosse una sorta di
benedizione data a tutti gli studenti per chiudere quest’anno disastrato: ma
che cosa c’entra il 6 politico? Il 6 politico è un’idea della contestazione
studentesca, che aveva un chiaro significato politico (come dice appunto
l’espressione): è l’idea che ogni valutazione è sbagliata, che va rifiutato
qualsiasi voto, perché è classista e frutto del sistema sociale, cioè del
dominio di classe; il voto serve solo a distinguere, secondo una borghese
logica meritocratica che santifica i rapporti sociali esistenti. Quindi,
l’unica è abolirlo. Ma non abolirlo e basta: abolirlo mettendo 6 a tutti, dando
a tutti lo stesso ma il minimo. Niente bravi e scarsi. Niente primi e ultimi
della classe.
Che cosa – c’entra
– tutto – questo – con – l’emergenza – attuale? Niente. Lo
ripeto: niente.
Promuovere tutti a
causa di una emergenza che ha rischiato di far collassare il sistema scolastico
italiano (che invece ha saputo reagire molto bene), o anche aiutare tutti a
causa di questa emergenza non ha niente, ma proprio niente, di politico. È solo
banale buon senso.
Se questa
espressione serviva a dire che dobbiamo evitare di mettere tutti sullo stesso
piano, usate un’altra espressione per favore (che so: “todos caballeros”). Ma
fare questa osservazione è veramente fastidioso: infatti nessuno ha mai pensato
di mettere tutti sullo stesso piano, e comunque, se ci mettiamo nelle
condizioni degli studenti e di questa fine d’anno disastrata, bisogna anche
pensare che vanno smussati gli angoli, che non possiamo impiccare tutti ai voti
e alle gerarchie, già odiose. In ogni caso, anche quest’ultimo ragionamento,
come quello sulle bocciature (su cui torno sotto) non ha veramente niente a che
fare con il “6 politico” che, lo ripeto (mi vergogno di farlo), è un progetto
“politico”, lo dice la parola.
E veniamo alla
questione delle bocciature. Il governo ha annunciato che, a causa
dell’emergenza, nessuno sarà bocciato: tutti promossi. Anzi, non il governo ma
la ministra Azzolina: particolare non secondario. Perché la ministra è stata
lasciata da sola in questa faccenda, nessuno dei suoi colleghi ministri, nessun
Presidente del Consiglio si è fatto carico di sostenere e riprendere questa
decisione, di richiamare all’ordine un’opinione pubblica scomposta che si è
messa a sparare contro la ministra con ogni mezzo, calcando la mano su una
persona più giovane, in apparenza più inesperta e, soprattutto, donna.
Solidarietà totale alla ministra Azzolina, mi sia permesso di dirlo in questo
sfogo in cui mi permetto di tutto.
Allora, le
bocciature. All’annuncio del governo, e al decreto che lo ha confermato, si è
scatenato il putiferio: “è una sanatoria”, “gli studenti non studieranno più”,
“li stiamo deresponsabilizzando”, “il lavoro dei docenti così non ha nessuna
dignità”. E così via. La cosa terribile, che fa perdere la lucidità, è che
purtroppo alcune di queste cose, soprattutto le ultime, sono state dette anche
da alcuni colleghi, da docenti che a quanto pare pensano che non sia possibile
insegnare niente a nessuno senza lo spauracchio della bocciatura. Ma mordo il
freno e cerco di mettere ordine nelle idee.
La bocciatura,
cioè la ripetenza dell’intero anno, è molto controversa. Diversi studi
affermano che è inutile e dannosa, perché non servirebbe davvero a recuperare
gli apprendimenti e colpisce quasi sempre le classi sociali più deboli, oltre a
essere un costo per le famiglie e per la società. Tuttavia, la cosa è
controversa, appunto. Ci sono anche buone ragioni per difenderla: la necessità
di seguire il ritmo di apprendimento delle persone, che non è uguale per tutti.
Nella scuola democratica, se la bocciatura esiste, viene giustificata con un
argomento del genere. Non ha più la funzione, che aveva una volta, di escludere
dal sistema. Perché il sistema scolastico, se è democratico, è inclusivo.
Bene, in Italia la
bocciatura esiste per queste ragioni. Deve quindi essere equa. Come può essere
equa in queste condizioni? Come si può pensare di dire a un ragazzo: “beh,
senti, qui il sistema scolastico è semi-collassato, noi da febbraio o marzo ti
seguiamo alla meno peggio, però tu stai in campana: se eri insufficiente nel
trimestre e se non recuperi studiando a casa in questa situazione improvvisata,
noi ti bocciamo! O ti rimandiamo a settembre se ti va bene, dai. La scuola è
una cosa seria! Se studi sarai promosso!”
Non riesco a
trovare argomenti contro questa cosa perché mi sembra del tutto surreale. Ma il
problema è che se anche la mia formulazione è caricaturale, il senso di chi
vuole bocciare in queste condizioni è questo. Si dice cioè che se uno studia si
vede anche in questa situazione, quindi chi non studia non può andare avanti.
Ma diciamola in
modo più difendibile: si può dire, è stato detto, “c’è il problema di quelli
che a settembre rientreranno in classe con gravi carenze, come facciamo a farli
andare avanti?” È vero, c’è questo problema. Ma allora questa deve diventare
una sfida: come tenere in classe studenti diversi con livelli diversi di
apprendimento senza avere in mano questa arma di esclusione/selezione che si
chiama bocciatura? È una sfida per la didattica, ma non è impossibile. Se solo
imparassimo davvero a fare una didattica personalizzata, e non lasciassimo
questa cosa unicamente alle Indicazioni ministeriali.
Insomma, bocciare
è iniquo perché la scuola non può dare quello che deve, e quindi non si può
chiedere agli studenti di dare esattamente quello che devono. Il patto
formativo si è infranto per cause esterne, e va riformulato. Togliere la
bocciatura, ma mantenere dei sistemi di valutazione e di recupero è il modo
corretto di riformularlo, perché si evita l’effetto “todos caballeros”.
Poi ci sono quelli
che hanno detto: certo, si sapeva che non avremmo potuto bocciare, ma non
andava detto subito, andava detto all’ultimo momento, tipo il 9 giugno. Il
ridicolo di questa posizioni si sovrappone all’indignazione per quella che
espongo dopo (“senza la minaccia della bocciatura gli studenti non studiano”),
ma mi limito al primo aspetto, per ora: quindi, se capisco bene, le regole del
gioco non devono essere chiare, e non deve esserci lealtà e trasparenza nel
rapporto tra scuole e studenti perché questi tendono solo a fregare, vogliono
solo il voto e la promozione e quindi, essendo degli esseri privi di ogni
autonomia intellettuale e morale, vanno trattati come dei bambinelli violenti e
viziati. Una sorta di “ignobile menzogna”. Davvero possiamo pensare questo?
Davvero vogliamo impostare la relazione didattica su questi principi? Mi fermo
qui.
Ma veniamo al
punto fondamentale, quello che fa più arrabbiare: “se non si può bocciare gli
studenti non faranno più niente”, “i docenti non avranno più strumenti per
farsi rispettare”, “ne va della dignità del lavoro degli insegnanti”. E infatti
circolava quel meme odioso, con i due minions: sotto la scritta “tutti promossi
per decreto” il minion “profe” e il minion “allievo”, e questo che se la ride e
sbeffeggia il primo. Una cosa intollerabile, che mi ha fatto davvero infuriare
(mettete pure la parolaccia), perché mediocre dal punto di vista di ogni vero
insegnante. Questa è la cosa più grave, secondo me, perché parte dal
presupposto che si possa insegnare solo usando la minaccia del voto e della
bocciatura, altrimenti non si ottiene niente. Quello che fa arrabbiare qui non
è la concezione deformata che viene data degli studenti, di cui ho già detto
sopra: questa già basta, perché la realtà di una relazione è determinata da
entrambe le parti, e se nella relazione didattica la parte più influente,
quella del docente, imposta tutto sulla sfiducia, la relazione è già corrotta,
e non per colpa dei discenti, per colpa del docente. Ma di questo ho già detto.
Il problema più grave, qui, è la concezione della didattica che c’è dietro:
l’insegnamento ha un solo obbiettivo, in questa concezione, verificare che i
discenti abbiamo appreso, siano arrivati a dei “risultati”. E poi giudicare e
selezionare, tra chi è arrivato ai risultati e chi no. In questa visione non
c’è niente per un insegnamento fatto della condivisione di un comune ambiente
di crescita e apprendimento; fatto del dialogo, della discussione e analisi
comune dei problemi, della condivisione delle difficoltà, del confronto. Non
c’è niente di una idea di apprendimento come crescita culturale e formazione,
come acquisizione di competenze nella pratica quotidiana, pratica che è non
solo del discente ma anche del docente, che procede per tentativi ed errori con
il primo. Non c’è niente dell’idea che imparare, formarsi, farsi una cultura,
acquisire delle competenze è anche frutto di un processo in cui si sta immersi,
semplicemente, e che questo processo funziona anche se non si è sempre sotto la
minaccia del voto e della bocciatura. Quello stesso tipo di esperienza
culturale che noi tutti, pieni delle nostre letture, delle nostre visite ai
musei, delle nostre conferenze, insomma della nostra cultura, conosciamo e
pratichiamo sempre; ma a quanto pare questo apprendimento “per immersione”, nel
processo, vale solo per i pochi privilegiati con cui ci identifichiamo, per gli
uomini d’oro, non per gli iloti, non per gli uomini di bronzo e di ferro che
sono i nostri studenti. Loro sono condannati a soffrire, a subire la scuola
come una catena, come una costrizione fatta di minacce, voti e paura della
bocciatura (o identificazione con la bocciatura, per i più sfigati), per i
quali quindi è del tutto legittimo imbastire l’ignobile menzogna “vi possiamo
bocciare anche se non possiamo”.
Chi non è
d’accordo reagirà con il solito argomento pseudo-realista: “le tue sono
illusioni, i ragazzi puntano solo al voto e alla promozione”. Questo argomento,
apparentemente ovvio come ogni argomento realista, falsa invece la realtà.
Primo, come ho già detto, siamo noi ad avere impostato una relazione didattica
dominata da voti, verifiche, crediti e paura della bocciatura, quindi dire che
i ragazzi sono così è solo una profezia che si auto-avvera. Secondo, parlare
così vuol dire chiudere gli occhi di fronte a una parte enorme del nostro
sistema scolastico che non funziona secondo questo schema comportamentista
“stimolo-reazione”, cioè “minaccia-risultato”, ma funziona proprio nell’altro
modo che ho descritto, cioè la scuola primaria, e anche buona parte della
scuola secondaria di primo grado, poiché in entrambe si boccia poco o niente; e
in realtà anche molta della secondaria di secondo grado, dato che davvero per
molti docenti le cose non sono così, e non sono affatto spaventati all’idea che
tutti verranno promossi. Terzo, se la scuola vuole essere democratica deve
chiedersi una volta per tutte che cosa vuole fare: se vuole continuare a pesare
come un incubo su molti studenti, o se vuole essere un processo comune di
crescita e formazione. Infine, una cosa che molti insegnanti delle superiori
avranno notato in questi giorni di didattica a distanza: ci sono studenti, di
solito più fragili e introversi, che stanno meglio, lavorano meglio, proprio
perché la gabbia si è allentata, inevitabilmente. E questo fenomeno dice molte
cose su che tipo di clima si vive spesso in aula, nella relazione didattica.
La funzione degli insegnanti
all’epoca del corona virus - Romano Luperini
Chiuse le scuole
per il virus, sempre in vacanza questi insegnanti, molti avranno pensato. La
leggenda dell’insegnante che lavora poco, che fa due mesi di vacanza e va a
scuola solo la mattina, è dura a morire, e ultimamente è stata fomentata dagli
attacchi non solo delle forze politiche di destra, ma della opinione pubblica e
della stampa. La critica ai “professori” e in genere agli uomini di cultura,
accusati di “buonismo”, ha imperversato sino a poco tempo fa (si ricordi la
campagna contro i vaccini). Faceva parte di una ideologia e di una strategia,
volta alla conquista non solo del potere politico, ma dell’egemonia (nel senso
gramsciano del termine) che indubbiamente la destra è riuscita recentemente a
conquistare.
Ma gli insegnanti
hanno sempre lavorato duro e in queste settimane forse ancora di più,
faticosamente sperimentando nuove forme di comunicazione e di didattica a
distanza. E anche qui i giornali si sono soffermati solo sulla novità dei mezzi
di comunicazione, e non è mancato chi vi ha visto un modello da realizzare su
ampia scala, capace di sostituire il rapporto diretto in classe. D’altronde
questo è un progetto che serpeggia da tempo nei gruppi dirigenti; e certamente
non manca chi legge le sperimentazioni attuali come un primo passo in questa
direzione.
Gli insegnanti
però sanno bene quanto siano fondamentali nel processo educativo lo sguardo e
la voce dell’insegnante, quanto siano decisive le emozioni che solo la loro
presenza diretta può suscitare. Se lavorano a casa ore e ore per imparare a
usare e poi per usare le piattaforme, gli audiovisivi e l’altro materiale è
solo perché non hanno mai rinunciato a servirsi di questi strumenti tipici
della civiltà odierna; ma volevano e vogliono servirsene come strumenti da fare
interagire con lo insegnamento in presenza che resta per loro insostituibile.
Oggi, semplicemente, fanno di necessità virtù. Cercano spesso di superare la
loro iniziale diffidenza e, quasi sempre, la loro sostanziale ignoranza della
tecnica elettronica e passano ore e ore a impararla, a preparare la lezione che
apparirà l’indomani sullo schermo dei computer nelle case degli alunni, a
immaginare nuovi esercizi interattivi, a cercare immagini e libri da citare o
commentare. Non mitizzano lo strumento che usano. Sanno bene che non tutte le
famiglie lo possiedono o sono capaci di usarlo correttamente. E che comunque
non potrà mai sostituire l’insegnamento diretto, vis-à-vis. Ma sanno anche che,
nella situazione attuale, è giocoforza giovarsene e che imparare a farlo può
essere una conquista per tutti, docenti e discenti.
E tuttavia questo
della didattica a distanza è solo un aspetto del problema. In realtà gli insegnanti
svolgono oggi una funzione in parte nuova e insostituibile. Tengono insieme il
paese, o almeno contribuiscono a farlo. Stabiliscono rapporti online con i
genitori, oltre che con gli allievi, li coinvolgono nelle scelte didattiche,
stabiliscono delle reti di discussione e di coesione che mancavano. Avvicinano
le famiglie alla scuola e la scuola alla realtà del paese. Svolgono insomma una
insostituibile funzione sociale di cui tutta la comunità deve essere loro
grata.
La solidarietà
della redazione di La letteratura e noi va oggi a tutti gli
insegnanti, il sacrificio dei quali è certo meno drammatico e decisivo ma non
meno prezioso di quello dei medici in prima linea. La nostra è una società in
crisi e priva di forti valori, ma, come è successo altre volte nella storia, è
nei momenti estremi che sa trovare le ragioni della resistenza. È importante
che il virus sia vinto ma è importante pure che in questa battaglia sia
riconosciuta anche la funzione insostituibile che svolgono gli insegnanti.
Ceci
n'est pas une école - Sara De Carlo
È il lontano
1951 quando Isaac Asimov scrive il racconto breve The fun they
had in cui immagina la scoperta, a opera di un ragazzino di nome
Tommy, di un vecchio libro sul quale viene descritto il sistema scolastico del
XX secolo. Tutto si srotola attraverso la sorpresa che Tommy e la sua amica
Margie provano nel rendersi conto che nel passato l’istruzione non era affidata
a un insegnante elettronico ma a esseri in carne e ossa, che esistevano luoghi
comunitari chiamate scuole in cui ci si incontrava e si imparavano cose. E
così, a chiosa del racconto, Margie pensa a quanto i bambini potessero aver
amato la scuola e chiude: “Chissà come si divertivano!”.
Non è stato
necessario arrivare al 2157 – anno in cui Asimov colloca la propria storia –,
poiché dall’oggi al domani ci siamo trovati sprofondati nella distopia di
quell’ipotesi narrativa. A dire il vero, come tutti i nodi che stanno venendo
al pettine in questi giorni di sospensione, è solo una falsa percezione quella
che ci fa credere che tutto sia arrivato senza preavviso, che il nuovo si sia
disposto davanti ai nostri occhi con forma d’irruzione.
Se è vero
che il presente era nell’ordine della barbarie del neoliberismo, del suo
violento rifiuto per un pensiero che sia ecosistemico, della sua perversa necessità
di procedere arricchendo esiguità e affamando moltitudini, se è vero che la
pandemia era stata predetta da virologi, sociologi, antropologi etc. e che oggi
i governi, senza nessuna dialettica possibile, decidono di spostare su tutti
noi le responsabilità della propria sordità, della propria crisi, è ugualmente
vero che la stessa identica dinamica si riproduce nell’ambito della scuola.
Sono decenni
che gli attori del mondo scolastico – dai docenti agli studenti al personale
A.T.A. – lamentano il problema dell’edilizia scolastica e delle classi pollaio,
sono anni che noi docenti ci ritroviamo a fare i conti con un obbligo di
formazione – non normato in modo chiaro ma tristemente effettivo – relativo a
piattaforme di didattica virtuale senza che sia dichiarato il senso di quella
formazione, di utilizzo di registri elettronici in strutture dove spesso manca
la connessione (e questo in aggiunta al cartaceo, ragion per cui non si
realizza uno snellimento né amministrativo né ecologico); sono anni che veniamo
sollecitati a sfruttare le infinite potenzialità delle L.I.M. che però poi sono
di fatto presenti a singhiozzo nelle nostre aule; sono anni che, qua e là, si
sopperisce alla mancanza di spazi facendo ricorso in via sperimentale a un
monte ore di didattica virtuale.
E così da
marzo scorso tutti questi segnali, sulla scorta della situazione emergenziale,
hanno preso la forma precisa della didattica a distanza. Precisa non è
aggettivo corretto, però, dato che l’articolazione di questo esperimento sociale
procede a suon di indicazioni vacue, note, decreti, circolari che delineano
contorni la cui definizione trova gradualmente la sua fisionomia scabrosa. In
un limbo di ambiguità ricattatoria, il governo rinuncia per forza di cose a un
discorso netto, dal momento che dichiarare con parole quello che insegue nei
fatti significherebbe mettere nero su bianco lo scavalcamento della
Costituzione (pensiamo all’articolo 3 sulla necessità di rimuovere gli ostacoli
di ordine economico e sociale, ma anche ovviamente al 33 sulla libertà
d’insegnamento) e del contratto collettivo nazionale di lavoro; si procede in
una dimensione che corre il rischio, per la nebulosità e la fretta nella quale
attecchisce, di non permettere nessuna riflessione articolata.
Eppure
dovrebbe stare nel genoma del nostro stesso mestiere il fatto di andare a
cortocircuitare gli ingranaggi, a comprenderne dinamiche e fini, a cercare le
maglie nella rete. Fatto sta che la scuola riproduce, oggi più che mai, lo
sgretolamento e l’atomizzazione della società che vuole insegnare ad abitare:
quella scuola dove da decenni gli organi collegiali hanno perso via via il loro
potere, la scuola dell’autonomia e delle competenze, non è di certo da marzo
scorso che ha in buona parte dismesso il suo compito dialettico e comunitario.
Ma da marzo
il silenzio è di certo più assordante perché siamo pochi, siamo pochissimi, a
pensare che sia ancora e tanto più necessario agire…il più delle volte se
avanzi critiche ti verrà risposto: “ma ti sembra il momento di fare polemiche?”.
Tanto più ci sembra necessario avviare riflessioni, per estendere, per mettere
a tema ciò che a fatica viene assunto come problema. Michel de Certeau ne L’invenzione
del quotidiano ci ha insegnato come alle strategie del potere è
possibile rispondere dal basso attraverso tattiche, più o meno consapevoli,
movimenti imprevedibili che a partire proprio dal linguaggio che viene
dall’alto ne rielaborano la grammatica, sovvertendola. Detto che non credo che
il nostro compito sia produrre risposte – che andranno piuttosto elaborate nel
tempo -, trovo però sia doveroso agire in una qualche maniera il conflitto, ora
più che mai.
Nei giorni
scorsi ho ripreso in mano Descolarizzare la società di Ivan
Illic e ho provato a rileggerlo nell’ottica della didattica a distanza: ci sono
elementi che in effetti, anche nella loro semplicità, sembrano quanto mai
attuali. Il primo tra gli obiettivi che un buon sistema scolastico dovrebbe
porsi, dice Illic, è quello di “assicurare a tutti quelli che hanno voglia
d’imparare la possibilità d’accedere alle riserve disponibili, in qualsiasi
momento della loro vita” (torniamo al succitato art. 3 della Costituzione!).
Mentre la ministra Azzolina dichiara a gran voce e con fierezza che la DAD
avrebbe raggiunto la gran parte delle studentesse e degli studenti italiani, a
noi balzano agli occhi esperienze dirette e dati che vanno nella direzione
opposta: e cioè che un terzo delle famiglie italiane non ha computer o una
connessione adeguata, il 42% nel nostro Meridione (e non mi si venga a dire che
vabbè, molti hanno gli smartphone e possono utilizzare quelli, perché non è una
soluzione neanche lontanamente proponibile!). Ci balza agli occhi la difficoltà
– che a volte diventa impossibilità – di interagire in forma virtuale con
studentesse e studenti disabili. Ci balza agli occhi che altri grandi
dimenticati di tutta questa storia sono i malati oncologici, i bambini, le
bambine, i ragazzi e le ragazze costretti nei letti d’ospedale; i grandi
dimenticati sono tutti coloro che seguono la scuola in carcere e che non sono
stati messi nelle condizioni di portare avanti coi propri docenti alcun
prosieguo della didattica (il Garante nazionale dei detenuti e delle persone
prive di libertà personale ha inviato una lettera di protesta al Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Giustizia per sollecitare
provvedimenti).
Il digital
divide riproduce per forza di cose le polarizzazioni sociali già esistenti e
corre il rischio di produrre una nuova forma di drop-out, un’esclusione, una
forma diversa della dispersione scolastica a cui siamo abituati, per certi
versi ancora più inquietante.
Parafrasando
Illic, dunque, potremmo dire che per la maggior parte delle persone l’obbligo
della didattica a distanza è un impedimento al diritto di apprendere; ed in
questo emerge lo zoccolo duro e reazionario dell’indicazione neoliberista
secondo cui tutto è possibile (anche portare a termine l’anno scolastico quando
sembrava impossibile!) ma non per tutti.
Ma
immaginiamo pure benevolmente un futuro prossimo in cui il digital divide sia
superato: bene, come dimenticare che entrare a gamba tesa nelle case delle
nostre studentesse e dei nostri studenti non è operazione semplice e neutrale?
Come dimenticare che esiste un pudore non valicabile che descrive gli stati
d’animo dei nostri alunni? Che qua e là esistono case che di casa hanno ben
poco, famiglie scompaginate e logorate, genitori problematici, sorelle e
fratelli disfunzionali?
E qui raggiungiamo
pure il discorso – che però merita un’attenzione precipua – della questione del
capitalismo della sorveglianza, del controllo e del possesso dei nostri dati
che passa per le piattaforme virtuali. Immaginiamo pure benevolmente un futuro
prossimo in cui sia superata la questione big data, in cui siano superate le
problematiche economiche tout court e di conseguenza quelle relazionali: bene,
la scuola che vogliamo è quella che immagina nel suo racconto Asimov?
La risposta
è secca, ed è no. Perché con tutti i grossi limiti che la didattica in presenza
ha attualmente, continuiamo a credere che sia l’unica forma di negoziazione del
sapere cui spetti a pieno titolo il nome di “didattica”: nel suo produrre
comunità, nel suo produrre incontri di corpi permette, per dirla con lo
psicoanalista argentino Miguel Benasayag, la “partecipazione a un ambiente
significante”.
Del resto,
una didattica virtuale normalizzata sarebbe tossica. Lo stesso Benasayag lo
dice bene nel suo saggio Il cervello aumentato: la riduzione della
distanza tra uomo e macchina, uomo e tecnica produce un effetto di ibridazione
che conduce inevitabilmente all’atrofizzazione di zone cerebrali.
La
promiscuità con la tecnologia provoca cambiamenti finanche sui nostri corpi,
per via di quella delega di funzioni che insegue un paradigma produttivista, la
performatività, la riuscita impeccabile. E invece il vivente funziona
diversamente: una memoria sana è una memoria che dimentica e che modifica il
ricordo, una memoria plastica; un apprendimento sano è quello che include la
difficoltà, la non riuscita, la vulnerabilità. Tutte cose che possono darsi
solo in una relazione fatta di spazi e corpi che li abitano.
Corpi che,
nello spazio della scuola (anche oggi con gli svariati limiti già denunciati),
provano quantomeno a scambiarsi gesti e sintomi, zigzagando tra movimenti e
parole, convergendo e allontanandosi talvolta, scambiandosi – più che
informazioni – esperienze, con l’obiettivo principale di condividere
solidarietà. E invece è possibile scambiarsi una solidarietà senza corpi?
Come dice
Benasayag, non si tratta di essere tecnofobi o tecnofili (la realtà è già
ibridata!) ma di riflettere in forma conflittuale su quanto abbiamo dinanzi e
farci trovare pronti quando e se proveranno a trasformare l’eccezione nella
regola, l’emergenza in quotidianità. Non so se noi fino a febbraio a scuola ci
divertivamo: purtroppo non credo, avevamo da ripensare davvero troppe cose, da
sistemarne altrettante; fatto sta che oggi assistiamo a un arretramento pericoloso.
Io intanto,
mentre ragiono con alunni, compagni e colleghi sul tutto, mentre con loro scovo
tattiche, al termine della spiegazione su Spinoza ho detto alle mie ragazze e
ai miei ragazzi: “Fatevi un favore: nei prossimi giorni per qualche ora
staccate tutto, disconnettetevi, prendete i colori e meditate su una delle
definizioni degli affetti dell’Etica, quella che più vi colpisce. E
poi…disegnate! E sarà un lavoro collettivo, dato che alla fine metteremo
insieme i disegni di ciascuno e andremo a formare un’immagine di Dio, ovvero
della Natura. Perché Spinoza questo ci insegna: che siamo parte di un tutto e
che stiamo bene se mettiamo insieme i pezzi, se moltiplichiamo relazioni con
ogni essere del mondo organico e inorganico, se facciamo in modo che i nostri
corpi si incontrino; se facciamo in modo che questa condizione innaturale che
vede ognuno di noi, da solo, chiuso in una stanza, davanti a un pc, non si
ripeta più”.
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