Gabriele Polo è un mio vecchio compagno
del manifesto, lo stimo molto e in una parola lo considero un
amico. Così che quando mi disse, tempo fa, che era stato incaricato di
riorganizzare la comunicazione della Cgil, mi sono congratulato: il sindacato
ha bisogno di parlare di più e meglio a tutti quanti, secondo me. E il Primo
Maggio sono andato a vedere il nuovo sito internet approntato appunto da
Gabriele e che andava on line quel giorno. Vario, vivace e interessante, si
chiama collettiva.it e, nel presentarlo, Gabriele scrive che lo scopo è «curare
il lavoro per curare il nostro territorio».
Siccome sono curioso ho fatto un largo
giro nel sito, ho visto la sezione “ambiente” (https://www.collettiva.it/copertine/ambiente/)
e sono corso a vedere. C’era un unico articolo, quel giorno, anzi un
comunicato. I sindacati degli alimentaristi della Basilicata, tutti e tre,
protestano contro una nuova norma regionale che, raddoppiando le royalties
regionali, «rischia di mettere in ginocchio il settore delle acque
minerali». Questa norma regionale, si spiega, «interviene sul prezzo del
canone delle concessioni, incrementando le royalties». I tre sindacati
aggiungono che «mentre il Governo nazionale decide di rimandare una tassa
sbagliata come la plastic tax […] la Regione Basilicata decide di approvare nella
distrazione generale una norma poco ponderata e non suffragata da un’analisi
comparata della profittabilità del settore, che rischia di determinare ricadute
negative anche sui posti di lavoro». L’occupazione prodotta dalle acque
minerali è, dicono i sindacati lucani, di 400 posti circa. La conclusione è:
«Non è corretto applicare alle acque minerali la stessa logica utilizzata per
l’estrazione degli idrocarburi».
Leggendo, mi venivano in mente una sacco
di obiezioni, e di dubbi. Per esempio: di quale cifra stiamo parlando, tanto
gravosa da mettere in difficoltà la «profittabilità del settore»? E la tassa
sulla plastica perché è «sbagliata»? E la causa di quella «distrazione
generale» sarebbe la pandemia, presumo, che la Regione Basilicata usa come schermo
per una operazione come questa, alla maniera dei decreti balneari dei tempi
della Democrazia cristiana. Si allude infine alle royalties del petrolio,
troppo basse per i danni ambientali che i pozzi hanno prodotto sull’ambiente,
con imbrogli colossali da parte delle compagnie petrolifere (e poi, comunque,
in generale mettere a paragone petrolio e acqua è tutt’altro che dissennato,
date le analisi globali sul fatto che l’acqua potabile, grazie alla siccità e
agli sprechi, è sempre più rara e preziosa, mentre il prezzo del petrolio
precipita).
In ogni modo mi metto a trafficare su
internet, in base a un vecchio ricordo di circa 15 anni fa, quando
l’acquisizione delle fonti del Vulture, a Rionero, da parte di Coca Cola,
provocò proteste a causa del prezzo bassissimo che la multinazionale avrebbe
pagato in base alla normativa sui diritti minerari. Ma anche la privatizzazione
suscitò critiche: infatti un referendum sull’acqua pubblica lo abbiamo perfino
vinto, qualche anno dopo.
Cercando, trovo la presentazione di un
progetto di legge, alla Regione Basilicata, da parte di alcuni consiglieri
delle varie sinistre, incluso il Pd. Era il 2011, e in base ai dati di otto
anni prima, le aziende del settore avevano messo in vendita un miliardo di
litri per un incasso di 283 milioni. Le concessioni sono costate per anni poco
più di 300 mila euro, mentre alla Regione toccavano analisi e adempimenti e
controlli vari, sulle fonti, per cui si spendevano più di 300 mila euro. Sono
canoni antichi, si dirà, e infatti le ultime proposte regionali parlano di 1,5
euro ogni 1000 litri nella plastica, e 1 euro per l’acqua in vetro. Nel
dicembre del 2019 il Sole 24 ore intitolava sul “record”:
oltre un miliardo di litri imbottigliati nel bacino lucano, che rappresenta più
del 30 per cento delle riserve di acqua potabile del paese. Le imprese quindi
pagherebbero un milione e mezzo, di meno se in vetro. Fate il confronto con il
fatturato.
A fine 2019 gli industriali erano per
altro in guerra contro la cosiddetta «plastic tax», quella «sbagliata» per i
sindacati, che avrebbe penalizzato il settore, con ricadute sull’occupazione
ecc. E infatti il Governo (uno a caso) ha in pratica congelato quella misura,
che sarebbe servita, nelle intenzioni, ad abbassare la quantità di plastica in
giro ovunque, compreso il mare, lo stomaco dei pesci e di conseguenza il nostro
organismo, come ormai tutti sanno. Ma no ‒ dicono gli industriali ‒ le
nostre bottiglie di plastica (un cui esercito bene allineato opportunamente
illustra, sul sito della Cgil, il comunicato dei sindacati lucani) sono
«riciclabili al 100 per cento», e hanno una percentuale di materiale
effettivamente biodegradabile. E certo, per riciclarle basta raccoglierle una a
una, le bottiglie di plastica, e mandarle negli appositi impianti di riciclaggio,
solo che la prima cosa non si fa che in minima parte e i secondi quasi non
esistono.
Per non farla lunga: che senso che la
Cgil si faccia portavoce, anzi parte attiva in una protesta che definirei
reazionaria? L’aggettivo non è scelto a caso. Ormai dovrebbe essere chiaro a
tutti, in epoca di “spillover” dei virus, che invadere, spremere, anzi
“emungere” tutto il possibile dalla natura, in questo caso l’acqua, e invadere
l’ambiente con la plastica, e deprimere gli acquedotti pubblici (l’Italia detiene
il record mondiale di consumo di acqua minerale e si sta avviando al record di
perdite dagli acquedotti, privatizzati e con scarsa manutenzione) non è il modo
migliore di dare il via a un cambiamento. La “normalità” cui non vogliamo
tornare è questa. E sarebbe utile che Maurizio Landini, il quale in tv parla a
favore di «un nuovo modello di sviluppo», chiarisse nei dettagli di che parla,
e se la «sicurezza» che giustamente pretende per i lavoratori riguardi anche
l’aria che respirano, quel che mangiano e così via.
Ho trovato, nel sito della “vecchia”
Rassegna sindacale, sempre della Cgil, non solo una vibrante protesta contro
Coca Cola e il suo atteggiamento nei confronti dei lavoratori durante la
pandemia (forse non erano i lavoratori lucani), un bell’articolo di due membri
del Dipartimento ambiente e lavoro della Flai Cgil nazionale (lo stesso
sindacato che in Basilicata protesta), Tina Balì e Andrea Coinu, i quali, in
occasione della giornata mondiale per la Terra, scrivono della «differenza tra
un passato fallimentare che mitizza il profitto e un’ipotesi di benessere
diffuso, dove sia favorita la nascita di nuova occupazione nella cura dei
prodotti, del territorio, delle persone e del rispetto». E la segretaria della
Fiom, Francesca Re David, intervistata da un altro vecchio compagno del
manifesto e mio amico intimo, Loris Campetti, dice: «Abbiamo maltrattato la
Terra, ferito gravemente l’ambiente. Non serve uno scienziato per capire che
questo virus, la sua velocità e la sua pervasività hanno molto a che fare con
le ferite inferte all’ambiente: il massimo dei danni il Covid-19 l’ha provocato
dove sono maggiori produzione e consumi, in Italia come ovunque».
Non è che i sindacalisti siano ciechi e
sordi, il messaggio del virus, nonché della crisi climatica, dei danni dello
smog ecc., è chiarissimo. Il problema è come far cambiare rotta al Titanic. Ma,
se prendiamo il caso della Basilicata come un paradigma, diciamo così, forse
qualche risposta si trova. Ossia, capisco che cambiare radicalmente la situazione
di Taranto, 10 mila operai, sia assai complicato, anche se io sto dalla parte
dei polmoni dei cittadini di Taranto (e ovviamente anche di quelli degli
operai), ma in questo caso parliamo di 400 posti di lavoro.
Bene, e se si cambiasse la normativa sui
diritti minerari, roba che risale a un secolo fa o più? E se si
nazionalizzassero, o regionalizzassero (non so se è possibile), tutte le fonti
di acqua potabile? Se invece di bottiglie di plastica (non si riesce nemmeno a
immaginare, una montagna di un miliardo di quelle bottiglie), sostituendole con
bottiglie di vetro che a restituirle, come facevo io da bambino quando la mamma
mi mandava a ridare indietro le bottiglie del latte vuote, si ha un piccolo
premio? E se i profitti di aziende rese pubbliche cadessero a, poniamo, 200
milioni? Non sarebbero a quel punto disponibili, quei soldi, per rimettere a
posto colline e boschi della Basilicata e aggiustare gli acquedotti, far sì che
l’agricoltura locale non sprechi troppa acqua e promuovendo quindi la piccola agricoltura
individuale e cooperativa ecc., avendo mantenuto intatta l’occupazione e anzi
assumendo persone per il rimboschimento, il cablaggio dei piccoli paesi,
l’edilizia del restauro…? E non si potrebbe realizzare, anno dopo anno, quel
che a Matera, molto amata come capitale europea della cultura, manca da sempre,
ossia una ferrovia (che potrebbe essere elettrica, non inquinante), per fare un
solo esempio?
Se la Cgil facesse uno sforzo di
immaginazione, si troverebbe accanto migliaia di associazioni di ogni tipo e di
amministrazioni locali e costringerebbe la politica, di sicuro in Basilicata, a
fare la cosa giusta. Forse, per farlo, occorrerebbe una nuova contabilità: il
“lordo” di un salario o stipendio non è solo quel che si versa in tasse e contributi,
ma anche i danni ai diritti ambientali e sociali della collettività che la
produzione causa, cioè quel che nel calcolo capitalista sono le “esternalità
negative”, che non vengono nemmeno conteggiate.
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