Non è una guerra. Pochi resistono a questa tentazione
iperbolica. In guerra, e noi siamo generazioni fortunate in questa parte del
mondo, puoi essere ucciso da altri uomini e tu stesso puoi trovarti nella
necessità di farlo. Qui è diverso, e non basta evocare il “nemico invisibile”
per chiamarla guerra. Per quanto possa apparire inessenziale e leziosamente
nominalistico, si deve riconoscere che è cosa diversa, altrimenti si rischia di
deviare l’attenzione dalla ricerca delle cause e dalla costruzione di percorsi
utili a ridurre i danni e, persino, attivare processi virtuosi.
È una epidemia, anzi, per la sua estensione, una
pandemia scatenata da un virus che ha fatto un salto di specie passando da
animali selvatici all’uomo. Ciò è avvenuto infinite volte. Quasi tutte le
epidemie derivano da questi processi da sempre presenti in natura, da prima che
apparisse l’uomo, trasferimenti di virus e batteri tra le specie esistenti
nelle varie fasi di sviluppo e diversificazione delle forme di vita. Tutto
questo è noto ed è stato descritto molto bene da tanti scienziati e anche da
alcuni giornalisti, e non saprei dire di più. È confortante la attenzione
crescente alle informazioni scientifiche, fatto, finora, purtroppo inconsueto
nel nostro Paese.
Voglio soffermarmi solo su alcuni aspetti, che rendono
più comprensibile il presente e fanno pensare che il futuro potrebbe essere
diverso.
Gli eventi epidemici sono prevedibili, e sono stati
previsti, come segnalato infinite volte dai virologi. Non si può prevedere
quando e dove, ma si sa che di queste epidemie in questi ultimi decenni ne sono
scoppiate molte, con cadenze che tendono a ravvicinarsi. Alcune con sintomi e letalità
spaventose, ma non sempre, fortunatamente, con grande capacità di trasmissione.
Proprio per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità e tutte le agenzie
nazionali hanno, con regolarità, emesso delle linee guida per indicare alle
autorità (Governi in primo luogo) preposte alla salute pubblica come
attrezzarsi, indicando quali scorte di presidi sanitari predisporre, i
comportamenti sociali e individuali da adottare, l’organizzazione delle
strutture sanitarie ospedaliere e territoriali. Tutto questo non eviterebbe le
epidemie, ma ne ridurrebbe l’impatto garantendo reazioni tempestive.
Tutte le raccomandazioni sono state disattese in tutti
i Paesi (con pochissime eccezioni), anche in Italia, e ciò si è aggiunto a un
progressivo pluridecennale de-finanziamento del sistema della Sanità Pubblica,
che tuttavia ancora in queste circostanze si è dimostrato l’unico presidio
possibile in emergenze di queste dimensioni. Così come non credo alla guerra,
non credo agli eroi. I nostri operatori ospedalieri e territoriali sono stati
“semplicemente” straordinari, così come lo sono stati in tutti questi anni di
tagli dissennati, evitando il collasso del sistema e garantendo, nonostante
tutto, un diritto universale quale è la Salute.
Ma se questo è quanto è avvenuto, come può essere il
futuro? Fra i tanti, due aspetti meritano attenzione. Il primo è un effetto
purtroppo certo di questa pandemia: l’aumento delle diseguaglianze.
Aumenteranno i disoccupati, i poveri, le differenze a scuola penalizzando chi
non ha accesso alle tecnologie digitali e ha nella scuola anche un luogo,
magari l’unico, di sicurezza e assistenza. Il secondo è l’enorme quantità di
risorse finanziarie che ora vengono messe in campo per garantire una adeguata
capacità di spesa delle famiglie e una possibile ripresa di attività
produttive. In altri paesi pare che siano ancora maggiori, ma comunque qui in
Italia sono certamente grandi. Sembra quasi che si stia o si intenda ora riversare
nei vari settori e in vari modi quanto negli anni passati era stato sottratto
alla Sanità, alla scuola, alla sicurezza sociale, alle opere pubbliche per
infrastrutture materiali (trasporti, strade, edilizia scolastica e ospedaliera
ecc.) e immateriali (accesso alle reti digitali), protezione del territorio e
ambiente. Forse finalmente possiamo farci un’idea concreta di quanto ci sono
costati quei presunti “risparmi” che, in realtà, altro non erano che alcuni tra
gli strumenti di redistribuzione di ricchezza e di sua concentrazione in fasce
sempre più ristrette di popolazione. Ricordiamolo, l’Italia è tra i Paesi in
cui il divario tra ricchi e poveri è tra i più drammatici ed è crescente.
Non si può fare un corto circuito tra questi due temi,
diseguaglianze e destinazione delle risorse? Certamente si può, e già si
comincia forzatamente a farlo. L’assunzione di decine di migliaia di medici e
infermieri, gli annunciati concorsi per insegnanti nelle scuole sono ottimi
segnali. Permetteranno di immettere giovani appena formati e stabilizzare
dipendenti che da anni sono in situazioni di demotivante precarietà. È questa
la strada giusta. Scuola, formazione, Università e ricerca, Salute, Ambiente e
Territorio, Infrastrutture materiali e digitali non sono solo beni comuni e di
valore universale, sono anche le grandi occasioni di creazione di posti lavoro,
le sole che potranno stabilmente accrescere l’occupazione e contemporaneamente
dare concrete motivazioni per una coesione sociale che si è progressivamente
smarrita a causa della precarietà delle condizioni di vita, colpevolmente
aggravate da scellerate e divisive politiche del lavoro.
Queste sono scelte che si può decidere di adottare. Ma
sono appunto scelte, e come tali non includono tutto. Includono giustizia,
solidarietà, parsimonia, sviluppo sostenibile. Escludono avidità, ma includono
un possibile Futuro, quasi certamente l’unico Futuro possibile.
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