L’Italia è un paese con un numero di laureati strutturalmente basso. Solo
28 giovani su cento tra i 25 e i 34 anni hanno una laurea, appena 21 nel
Mezzogiorno, a fronte dei quaranta della media
europea e dei 47 della Francia. Un problema vecchio e
penalizzante, per i singoli e per la collettività. Per i singoli perché la
laurea offre, in media, occasioni di lavoro più qualificate e gratificanti e,
nell’arco della vita lavorativa, con retribuzioni ben più elevate. Per la
società perché la laurea allunga, in media, la speranza di vita, crea persone
più consapevoli e responsabili, accresce la propensione all’azione collettiva e
alla partecipazione democratica, e fa crescere una cittadinanza più attiva.
Pochi laureati vuol dire anche un sistema produttivo arretrato, stagnante e
poco resiliente, e una comunità meno evoluta in termini culturali e civili. Per
queste ragioni molti paesi investono quote rilevanti di spesa pubblica e
privata nell’alta formazione. L’Italia, al contrario, ha scelto la via del
definanziamento pubblico, della drastica contrazione di corsi di studio,
immatricolati, corpo docente. Da noi l’università non è in agenda. Non a caso,
in questi giorni di pandemia si parla di tutto ma mai di università e di studenti universitari,
diventati i visibilissimi invisibili della crisi sanitaria insieme ai vecchi,
ai bambini e ai carcerati.
Questo disconoscimento rischia di provocare nei prossimi mesi ulteriori
conseguenze per l’intero sistema universitario nazionale e, in particolare, per
le potenziali matricole dell’Italia del sud.
Numeri da conoscere
Consideriamo qualche cifra. Secondo i dati del ministero dell’istruzione, nell’anno accademico 2017-18 la contribuzione media pro capite degli studenti iscritti nelle università pubbliche è stata di poco più di 1.300 euro, al netto degli esentati per motivi di reddito familiare (poco più di 400mila ragazze e ragazzi su un totale di 1,7 milioni di iscritti). Nel Mezzogiorno il costo medio dell’iscrizione è di 1.100 euro, a cui vanno aggiunte le spese indirette per la frequenza dei corsi e per il sostentamento.
Consideriamo qualche cifra. Secondo i dati del ministero dell’istruzione, nell’anno accademico 2017-18 la contribuzione media pro capite degli studenti iscritti nelle università pubbliche è stata di poco più di 1.300 euro, al netto degli esentati per motivi di reddito familiare (poco più di 400mila ragazze e ragazzi su un totale di 1,7 milioni di iscritti). Nel Mezzogiorno il costo medio dell’iscrizione è di 1.100 euro, a cui vanno aggiunte le spese indirette per la frequenza dei corsi e per il sostentamento.
Supponendo che i costi di uno studente, in camera doppia, iscritto in
un’università dell’Italia del sud siano la metà di quelli stimati
dall’università di Bologna per i propri studenti fuori sede, una famiglia
meridionale dovrebbe prevedere circa 380 euro al mese per alloggio, spese
alimentari, mensa e trasporti, pari grosso modo a 4mila euro all’anno, che
salirebbero a 5.100 per le famiglie non esentate dalle tasse di iscrizione. Per
gli stessi anni, l’Istat calcola che nel Mezzogiorno il
reddito medio delle famiglie è pari a poco più di 25mila euro all’anno (35mila
nell’Italia del nord), per cui per molte di esse mantenere un figlio
all’università significherebbe destinare una parte consistente del loro magro
reddito annuale, tanto più se i figli universitari fossero due o studiassero in
atenei del centro-nord.
Ancora un dato. Nell’anno accademico 2018-19 si sono immatricolati nelle
università italiane poco più di 290mila studenti, vale a dire 40mila in meno
rispetto ai picchi dei primi anni del duemila, anche se le tendenze recenti
mostrano un recupero di iscritti nel centro-nord e una sostanziale stasi degli
immatricolati nel sud, collegata tanto alla diminuzione del numero di ragazze e
ragazzi tra i 18 e i vent’anni quanto alla caduta verticale delle
immatricolazioni dei diplomati con la maturità professionale e tecnica, che
come è noto viene conseguita per lo più da ragazzi con genitori più
svantaggiati sia economicamente sia dal punto di vista scolastico.
Le conseguenze per il sud
Che cosa succederà nel prossimo anno accademico è facile da immaginare: la grave recessione economica provocata dal covid-19 implicherà un deciso impoverimento delle famiglie, soprattutto nel sud per via della maggiore fragilità e vulnerabilità della sua base economica e occupazionale. Nondimeno, le evidenze empiriche di lungo periodo mostrano un robusto nesso causale negativo tra crisi economiche e decisione da parte delle famiglie di investire in istruzione superiore dei propri figli, per cui è molto probabile un calo delle immatricolazioni già a partire dal prossimo anno accademico.
Che cosa succederà nel prossimo anno accademico è facile da immaginare: la grave recessione economica provocata dal covid-19 implicherà un deciso impoverimento delle famiglie, soprattutto nel sud per via della maggiore fragilità e vulnerabilità della sua base economica e occupazionale. Nondimeno, le evidenze empiriche di lungo periodo mostrano un robusto nesso causale negativo tra crisi economiche e decisione da parte delle famiglie di investire in istruzione superiore dei propri figli, per cui è molto probabile un calo delle immatricolazioni già a partire dal prossimo anno accademico.
Questa depressione della domanda collettiva di immatricolazioni
presumibilmente sarà più marcata nel Mezzogiorno sia per i maggiori vincoli
finanziari delle famiglie sia per i più stringenti problemi di
costo-opportunità, ossia del più basso rendimento occupazionale e salariale
degli studi universitari nel sud (in media i laureati in questi atenei trovano
lavoro molto più tardi e a salari più bassi dei loro colleghi del nord). Per
non parlare del problema posto dalla didattica a distanza, che rischia di
rendere ancora più accentuata la crisi degli atenei del sud: perché
immatricolarsi “vicino” casa se posso seguire le lezioni di qualsiasi altro
ateneo?
Che fare, allora? Ancora qualche cifra, e poi la proposta. La spesa
pubblica per l’università nel nostro paese è appena lo 0,3 per cento del pil
(all’incirca 5,5 miliardi di euro in valore assoluto), l’incidenza più bassa in
Europa (dove si registra una media dello 0,7 per cento), e per di più in
sostenuto calo (di oltre un miliardo di euro negli ultimi dieci anni); di
contro, la quota della spesa sostenuta direttamente dalle famiglie è più alta
di più di cinque punti percentuali rispetto alla media in Europa (27 per cento
in Italia, 12 per cento in Francia e zero per cento in Germania).
Occorre allora essere radicali. Occorre rendere gratuito l’accesso al
sistema universitario pubblico. Per tutti gli studenti che si immatricolano nel
prossimo anno accademico, o almeno per i diplomati che scelgono di continuare
gli studi nelle università meridionali. Le regioni del sud hanno circa dieci
miliardi di euro di fondi comunitari ancora da impegnare o spendere relativi al
ciclo di programmazione 2014-20. Un’occasione straordinaria per riprogrammarne
una parte relativamente piccola (meno di cinquanta milioni di euro, pari
all’incirca allo 0,5 per cento) e destinarla al sostegno del reddito delle
famiglie e del diritto allo studio dei giovani meridionali sotto forma di un
esonero totale per tutti dalle tasse di immatricolazione.
Dalla crisi si esce con lo sviluppo economico, cioè con l’intraprendenza,
con l’intelligenza e la cultura. Con l’università, e quindi con gli studenti.
Che devono essere tanti, molti di più di quanti non siano stati finora,
soprattutto nel Mezzogiorno.
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