Ora che la
cattività sta per finire, sembra prevalere in noi non tanto l’euforia quanto la
paura. Per ciò che troveremo dopo. Staremo peggio di prima, tanto indifesi e
attoniti, quanto segnati e immiseriti. È vero, niente sarà come prima. Saremo
più esitanti e più poveri. Il futuro già ci appare opaco, se non penoso, a
qualsiasi latitudine e in qualunque contesto.
Vivo a Roma,
ci sono nato e credo di conoscerla abbastanza bene. Come chiunque, non
immaginavo di vederla reclusa da questa quarantena, che le ha sospeso il
respiro e smorzato le energie.
Da almeno un quindicennio Roma vive una condizione strutturale contratta e rinsecchita, traballando in una crisi stantia e immalinconita. Ha progressivamente assistito al decadere delle sue principali dinamiche economiche, dall’edilizia al commercio, dalla funzione pubblica al sistema dei servizi, ma quel che l’attende rischia di piegarla ancor di più. E se finora l’abbiamo vista creparsi tra smottamenti e scricchiolii, quel che nell’imminenza si teme appare di gran lunga peggiore. Insomma, la previsione è che alle idi di maggio sarà una città disperata. Con i redditi in caduta libera, con scarse compensazioni redistributive e, soprattutto, nessuna prospettiva di ripresa e tanto meno di rilancio.
Se si esclude il comparto del pubblico impiego e dei servizi pubblici, sempre più eroso tuttavia da privatizzazione ed esternalizzazioni, il tessuto economico romano è composto da un’infinita gamma di attività, il cui riscontro economico dipende sia dal mercato locale che dalla domanda turistica. Entrambi voluminosi, ma entrambi in via di precipitazione depressiva: il primo perché si diraderà sensibilmente per mancanza di disponibilità economica, il secondo perché anch’esso, fisiologicamente, si ridurrà o sceglierà altre destinazioni. Non è difficile immaginare i disastrosi effetti sull’intera catena commerciale, che per la città è non solo un importante segmento accumulatorio, ma anche un consistente sbocco occupazionale. Negozi e botteghe, esercenti vari e gli stessi centri commerciali, accoglienza, ristorazione e somministrazione, grossisti, fornitori e trasportatori, intrattenimento, artigianato, indotto turistico-culturale ecc. vedranno le loro aspettative sbriciolarsi già dalla prossima estate e i loro fatturati abbattersi inesorabilmente.
Gli altri settori produttivi non se la vedranno meglio. Tranne forse le residue eccellenze ad alta specializzazione e il polo chimico-farmaceutico, l’esigua rete industriale, da tempo obsoleta e impigrita, stenterà ulteriormente a trovare sbocchi di mercato, in Italia come all’estero. Il comparto dell’edilizia, già disossato dalla crisi del mercato immobiliare, s’inaridirà definitivamente, causando sia il ridimensionamento dei grandi gruppi, sia la rarefazione delle migliaia di piccole e piccolissime imprese che ne supportano il ciclo esecutivo. L’estesa galassia delle professioni vedrà anch’essa ridurre il suo bacino di utenza: pure qui a causa del consistente calo della domanda, che finirà per rinunciare o quanto meno per sospendere il ricorso a prestazioni d’ogni tipo, mediche o legali, finanziarie, assicurative, immobiliari, commerciali ecc. Un altro settore destinato a una sicura recessione, per quanto già di suo intermittente e precarizzato, è l’industria culturale. Una crisi che contrarrà i volumi d’investimento, con la conseguente disoccupazione sia nel tradizionale ventaglio dei ruoli artistici e interpretativi, sia nel voluminoso comparto degli apparati tecnico-professionali. Un destino ancor più angusto lo subiranno i tanti laboratori creativi, le espressività innovative e sperimentali che agiscono nelle produzioni indipendenti e nei circuiti alternativi. Per non parlare dell’estesissimo segmento del terzo settore, che in città è ormai l’unico soggetto che assicura sostegno e assistenza alle fasce più fragili ed esposte: una funzione confermata peraltro in questa quarantena, dove ha sostituito l’assoluta latitanza dell’amministrazione comunale. Succederà che, per effetto dell’ulteriore impoverimento, al sicuro incremento della domanda sociale non verranno previsti nuovi finanziamenti e non corrisponderà pertanto una sufficiente offerta: con il conseguente nocumento sia per la tenuta delle imprese sociali che per la condizione dei destinatari del servizio. E non sarà certo il welfare fatto in casa, quello familiare, o il presidio dell’esercito delle badanti o in generale il volontariato o il gettito di elemosine e sottoscrizioni a compensare le manchevolezze pubbliche.
A tutto ciò va aggiunta la sfuggente, ma intuitivamente enorme, platea del precariato e del lavoro nero, quell’arcipelago delle attività sommerse, disperse e sporadiche, dell’ambulantato, legale o abusivo che sia, dei secondi e terzi lavori e dei mille lavoretti, di quelli da una-botta-e-via, dei nuovi “accattoni” che s’arrangiano come possono, dei clandestini e dei fuggitivi, dell’oggi forse e del domani chissà. Lavoratori-merce senza tutele né riconoscibilità, i primi a essere sacrificati dal collasso del mercato, di ogni mercato, quello ufficiale, quello nascosto, quello segreto. Chi già stava messo male si ritroverà al limite della sopravvivenza, chi in qualche modo riusciva a cavarsela si scoprirà povero. Forse solo i benestanti resteranno su un’accettabile linea di galleggiamento, quel meno del 2% della popolazione che le statistiche catalogano agli alti redditi. Mentre tutti gli altri, fasce intermedie, salariati e pensionati, figure semi-stabili, lavoratori discontinui, soggetti pericolanti e ovviamente l’ampia schiera dei poveri cristi subiranno contraccolpi economici drammatici: in misura certo differenziata ma fino al grado più estremo, tra regressioni, privazioni, azzeramenti.
Da almeno un quindicennio Roma vive una condizione strutturale contratta e rinsecchita, traballando in una crisi stantia e immalinconita. Ha progressivamente assistito al decadere delle sue principali dinamiche economiche, dall’edilizia al commercio, dalla funzione pubblica al sistema dei servizi, ma quel che l’attende rischia di piegarla ancor di più. E se finora l’abbiamo vista creparsi tra smottamenti e scricchiolii, quel che nell’imminenza si teme appare di gran lunga peggiore. Insomma, la previsione è che alle idi di maggio sarà una città disperata. Con i redditi in caduta libera, con scarse compensazioni redistributive e, soprattutto, nessuna prospettiva di ripresa e tanto meno di rilancio.
Se si esclude il comparto del pubblico impiego e dei servizi pubblici, sempre più eroso tuttavia da privatizzazione ed esternalizzazioni, il tessuto economico romano è composto da un’infinita gamma di attività, il cui riscontro economico dipende sia dal mercato locale che dalla domanda turistica. Entrambi voluminosi, ma entrambi in via di precipitazione depressiva: il primo perché si diraderà sensibilmente per mancanza di disponibilità economica, il secondo perché anch’esso, fisiologicamente, si ridurrà o sceglierà altre destinazioni. Non è difficile immaginare i disastrosi effetti sull’intera catena commerciale, che per la città è non solo un importante segmento accumulatorio, ma anche un consistente sbocco occupazionale. Negozi e botteghe, esercenti vari e gli stessi centri commerciali, accoglienza, ristorazione e somministrazione, grossisti, fornitori e trasportatori, intrattenimento, artigianato, indotto turistico-culturale ecc. vedranno le loro aspettative sbriciolarsi già dalla prossima estate e i loro fatturati abbattersi inesorabilmente.
Gli altri settori produttivi non se la vedranno meglio. Tranne forse le residue eccellenze ad alta specializzazione e il polo chimico-farmaceutico, l’esigua rete industriale, da tempo obsoleta e impigrita, stenterà ulteriormente a trovare sbocchi di mercato, in Italia come all’estero. Il comparto dell’edilizia, già disossato dalla crisi del mercato immobiliare, s’inaridirà definitivamente, causando sia il ridimensionamento dei grandi gruppi, sia la rarefazione delle migliaia di piccole e piccolissime imprese che ne supportano il ciclo esecutivo. L’estesa galassia delle professioni vedrà anch’essa ridurre il suo bacino di utenza: pure qui a causa del consistente calo della domanda, che finirà per rinunciare o quanto meno per sospendere il ricorso a prestazioni d’ogni tipo, mediche o legali, finanziarie, assicurative, immobiliari, commerciali ecc. Un altro settore destinato a una sicura recessione, per quanto già di suo intermittente e precarizzato, è l’industria culturale. Una crisi che contrarrà i volumi d’investimento, con la conseguente disoccupazione sia nel tradizionale ventaglio dei ruoli artistici e interpretativi, sia nel voluminoso comparto degli apparati tecnico-professionali. Un destino ancor più angusto lo subiranno i tanti laboratori creativi, le espressività innovative e sperimentali che agiscono nelle produzioni indipendenti e nei circuiti alternativi. Per non parlare dell’estesissimo segmento del terzo settore, che in città è ormai l’unico soggetto che assicura sostegno e assistenza alle fasce più fragili ed esposte: una funzione confermata peraltro in questa quarantena, dove ha sostituito l’assoluta latitanza dell’amministrazione comunale. Succederà che, per effetto dell’ulteriore impoverimento, al sicuro incremento della domanda sociale non verranno previsti nuovi finanziamenti e non corrisponderà pertanto una sufficiente offerta: con il conseguente nocumento sia per la tenuta delle imprese sociali che per la condizione dei destinatari del servizio. E non sarà certo il welfare fatto in casa, quello familiare, o il presidio dell’esercito delle badanti o in generale il volontariato o il gettito di elemosine e sottoscrizioni a compensare le manchevolezze pubbliche.
A tutto ciò va aggiunta la sfuggente, ma intuitivamente enorme, platea del precariato e del lavoro nero, quell’arcipelago delle attività sommerse, disperse e sporadiche, dell’ambulantato, legale o abusivo che sia, dei secondi e terzi lavori e dei mille lavoretti, di quelli da una-botta-e-via, dei nuovi “accattoni” che s’arrangiano come possono, dei clandestini e dei fuggitivi, dell’oggi forse e del domani chissà. Lavoratori-merce senza tutele né riconoscibilità, i primi a essere sacrificati dal collasso del mercato, di ogni mercato, quello ufficiale, quello nascosto, quello segreto. Chi già stava messo male si ritroverà al limite della sopravvivenza, chi in qualche modo riusciva a cavarsela si scoprirà povero. Forse solo i benestanti resteranno su un’accettabile linea di galleggiamento, quel meno del 2% della popolazione che le statistiche catalogano agli alti redditi. Mentre tutti gli altri, fasce intermedie, salariati e pensionati, figure semi-stabili, lavoratori discontinui, soggetti pericolanti e ovviamente l’ampia schiera dei poveri cristi subiranno contraccolpi economici drammatici: in misura certo differenziata ma fino al grado più estremo, tra regressioni, privazioni, azzeramenti.
Sono in
corso le manovre compensative e redistributive che il Governo sta via via
attuando, con la cassa integrazione, prestiti, sussidi e buoni d’ogni tipo: una
spesa pubblica notevole che verrà ascritta a debito, con la speranza di
spalmarlo in gran parte a livello continentale. S’investe massicciamente al
fine di riaccendere il sistema produttivo e l’insieme delle attività
commerciali, professionali e di servizio. Ma è facile prevedere quanto tutto
ciò, ammesso che riparta di slancio, rischi di frustrarsi al cospetto di un
mercato non certo squillante, che risentirà non poco della generalizzata
contrazione dei redditi. La pandemia ha modificato i consumi e produrre come
prima finirà solo per riempire i magazzini, oltreché non corrispondere alla
nuova domanda interna, forse ridotta ma di certo meno accessoria e più
essenziale. L’attuale disponibilità di risorse dovrebbe consentire di
selezionare e dunque incentivare le manifatture utili e le riconversioni
necessarie, ma invece si prevede di distribuire, se si distribuiranno,
finanziamenti all’ammasso, come sia e purché sia. Nell’illusione che saranno
gli interessi delle imprese a riassestare il ciclo e a rimettere in equilibrio
il sistema economico. Ci si affida ancora una volta alla dottrina liberista del
mercato come unico principio regolatore dell’economia, con lo stato che agisce
a supporto di fatturati e profitti e rinuncia a imporre le proprie esigenze.
Una scelleratezza in sé e ancor più in un frangente come quello che viviamo.
Scontiamo decenni di ripiegamento dell’intervento pubblico e oggi, con interi
comparti vitali largamente privatizzati, il sistema sanitario su tutti, ne
vediamo il tragico effetto.
Con i
previsti stanziamenti si potrebbe, al contrario, programmare una strategia
pubblica che intervenga laddove il paese è più sguarnito: sulla salute,
sull’energia, sull’ambiente, sulla cultura, sui bisogni sociali,
sull’agricoltura. Ma finora nessun provvedimento sembra nemmeno alludere a tali
soluzioni, attardandosi la politica nazionale in patetiche polemiche e
dispettose ripicche. Se per esempio calassimo su Roma un piano di interventi
pubblici di risanamento e sviluppo, si potrebbe rilanciare la città nelle sue
economie e, insieme, affrontare le sue pene, creare occasioni di lavoro e
stemperare le sue disuguaglianze. Riordinare il sistema sanitario pubblico
attrezzandolo per le nuove esigenze epidemiologiche, estendendo la sua offerta
di servizi e recuperando le sedi dismesse. Riqualificare le tante periferie
degradate, anonime e bisognevoli. Riassestare un sistema del trasporto pubblico
oggi sgangherato e manchevole. Riconvertire il patrimonio pubblico dismesso in
funzione dei bisogni popolari, sia di tipo abitativo, sia di spazi culturali,
sia di servizi sociali. Rimodulare sulla base dei nuovi bisogni sociali la
filiera del welfare, garantendo tutele e sostegni e avviando nuove
progettazioni. Riorganizzare finalmente la filiera dei rifiuti, realizzando la
necessaria impiantistica per lo smaltimento e il riciclo. Finanziare e
incentivare le produzioni artistiche e culturali, valorizzando i progetti
creativi e i talenti espressivi. Programmare un generalizzato restauro dei beni
culturali e architettonici. Avviare un piano di manutenzione urbana sul
riassetto del territorio, sulla salvaguardia ambientale, sulla rete delle
infrastrutture. Lanciare un grande piano agricolo da sviluppare sulle aree
pubbliche abbandonate, talché le produzioni a Km0 si riversino a prezzi
calmierati sul mercato cittadino e soddisfino il fabbisogno alimentare delle
istituzioni pubbliche. E così via, così via, così via.
Una
pianificazione di tale ampiezza e spessore, oltreché di risorse, necessiterebbe
di una regia pubblica intelligente e sensibile. Poi lo sguardo si posa sul
Campidoglio a 5Stelle e si rischia un immediato sconforto. Anche questa sarà
una ragione in più per impegnarsi a cambiare le cose. Prima o poi finirà questo
intermezzo che mai avremmo potuto immaginare nella nostra vita. Una sospensione
del sé e dell’agire. Un impedimento di muoversi e incontrare, di fare e per
molti aspetti anche di pensare. Ora il virus che ci ha recluso sta allentando
il suo morso. E quel che ci lascia non è solo una catasta di cadaveri,
l’angoscia della nostra vulnerabilità, un’inaspettata insicurezza. Ci lascia
anche quel sottile impulso vitale che di sicuro ci spingerà di nuovo a lottare.
https://volerelaluna.it/territori/2020/05/07/roma-alle-idi-di-maggio/
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