Un gruppo di ragazzini di dieci e dodici anni si tuffa in mare. Una ragazza
bassina con le lentiggini rimane sulla spiaggia e si copre con un asciugamano
fucsia, un ragazzo glielo ruba e scappa, si rincorrono sul bagnasciuga. Il
cielo è coperto da nuvole e all’orizzonte s’intravede il profilo azzurrino di
Ischia. Nonostante il caldo torrido di fine maggio sulla spiaggia deserta del
Destra Volturno, sul litorale domizio, non ci sono che ragazzini: non sono
andati a scuola, oggi come negli ultimi due mesi, per via della pandemia di
coronavirus.
Le lezioni online molti di loro non riescono a seguirle, perché non hanno i
computer a casa, così da qualche giorno si ritrovano sulla spiaggia deserta a
destra della foce del fiume Volturno, uno dei tratti di litorale campano più
familiare, perché negli ultimi anni è diventato il set di molti film, tra
cui Gomorra di Matteo Garrone. Proprio su questa
spiaggia il regista ha girato alcune delle scene più note del film, come quella
dei ragazzini Marco e Ciro, che dentro a un palazzo abbandonato giocano a
spararsi, imitando Tony Montana in Scarface e
gridando: “Tutto il mondo è nostro, deve essere tutto nostro”.
Più di dieci anni dopo l’uscita del film, nella testa della maggior parte
delle persone Castel Volturno è ancora l’immagine stereotipata che la pellicola
di Garrone ha contribuito a costruire: quella di un’area depressa, dominata
dalla criminalità organizzata, crocevia d’interessi illegali, ingovernabile
torre di Babele, “polveriera pronta a esplodere” come l’aveva definita l’ex
sindaco Dimitri Russo in un’intervista di qualche anno fa.
Un’immagine che tuttavia è spesso diventata un alibi per non intervenire o
farlo il meno possibile.
La macchina della verità
La pandemia di coronavirus, tuttavia, è stata come una macchina della verità: in poche settimane ha mostrato tutte le contraddizioni, le questioni irrisolte e le specificità dei territori più abbandonati. A Castel Volturno il confinamento ha interrotto le attività economiche sia nell’agricoltura sia nell’edilizia e negli altri settori dell’economia (anche informale) e molte famiglie hanno sperimentato una crisi sociale ed economica senza precedenti.
La pandemia di coronavirus, tuttavia, è stata come una macchina della verità: in poche settimane ha mostrato tutte le contraddizioni, le questioni irrisolte e le specificità dei territori più abbandonati. A Castel Volturno il confinamento ha interrotto le attività economiche sia nell’agricoltura sia nell’edilizia e negli altri settori dell’economia (anche informale) e molte famiglie hanno sperimentato una crisi sociale ed economica senza precedenti.
“Abbiamo ricevuto chiamate di persone che non mangiavano da cinque giorni”,
racconta Sergio Serraino, responsabile dell’ambulatorio di Emergency, attivo
nella città campana dal 2013. Secondo Serraino, nel territorio l’emergenza è
stata più sociale che sanitaria. In tutto sono stati registrati infatti solo 14
casi positivi al covid-19, ma il rischio era che le persone continuassero a
uscire di casa e a non rispettare le misure restrittive per andare a lavorare,
non potendo rinunciare ai pochi introiti economici giornalieri.
“Ci siamo concentrati soprattutto sull’aspetto informativo, abbiamo
prodotto dei video per spiegare ai cittadini sia italiani sia stranieri le
regole del distanziamento sociale e la necessità di non uscire, ci siamo
serviti dei mediatori per registrare un video anche in inglese, che è la lingua
parlata dalle due comunità di stranieri maggiormente presenti sul territorio: i
ghaneani e i nigeriani”, spiega Serraino. Ma se non ci fosse stata una rete di
associazioni già molto attiva sul territorio, riunita sotto il nome Castel
Volturno solidale probabilmente sarebbe esplosa la rabbia sociale. “Il timore
era davvero che qualcuno soffrisse la fame, soprattutto i bambini”, conclude.
Daniele Moschetti, prete comboniano che lavora a Castel Volturno da 24
anni, dopo diverse missioni in Kenya, Palestina e Sud Sudan, spiega che la rete
dei volontari ha raggiunto 12mila persone, “circa 3.500 famiglie con i pacchi
spesa”. Caritas, Centro Fernandes, Movimento dei migranti e rifugiati di
Caserta, i padri comboniani e l’ex Canapificio di Caserta hanno allestito un
centralino in collaborazione con il comune e con la protezione civile e hanno
preso in carico tutte le richieste di aiuto. Hanno raccolto i fondi e
distribuito i pacchi alimentari, ma anche gli aiuti per i bambini e le bombole
del gas. “Alcune persone avevano da mangiare, ma non potevano cucinare perché
avevano finito il gas”, racconta Moschetti.
Una delle peculiarità di Castel Volturno, infatti, è l’assetto urbanistico,
che in parte spiega anche la composizione sociale del luogo. La cittadina di
27mila abitanti a nord di Napoli si estende per 27 chilometri lungo la via
Domiziana e conta 40mila abitazioni abusive, in molti casi ormai cadenti, un
quarto delle quali sorge su terreni di proprietà pubblica, frutto di una
speculazione selvaggia cominciata negli anni sessanta. Il caso più famoso è
quello del Villaggio Coppola di Pinetamare, per lungo
tempo il quartiere abusivo più grande d’Europa, una zona residenziale in riva
al mare che avrebbe dovuto ospitare quattromila persone, destinata soprattutto
ai marines americani della base militare Nato di Napoli.
“I miei genitori sono venuti in viaggio di nozze a Castel Volturno da
Caserta negli anni settanta, perché i casertani e i napoletani consideravano
questo litorale un luogo rinomato”, spiega Giampaolo Mosca, operatore legale
dell’ex Canapificio di Caserta, mentre mostra gli edifici ormai scrostati, ma
in alcuni casi ancora graziosi, delle villette abusive sorte all’interno di una
vasta pineta che arriva sul mare. Ma a partire dagli anni ottanta la zona si è
trasformata in un ghetto dove sono stati trasferiti migliaia di sfollati da
Napoli e dall’Irpinia, in seguito al terremoto del 1980.
Una lunga storia di lotte
La partenza dei militari americani e l’arrivo degli sfollati hanno determinato un cambiamento sociale radicale. “Affittare queste case costa molto poco, con cinquanta euro al mese si affitta una stanza, con 250 euro al mese si affitta una casa”, continua Mosca. Per questo motivo, oltre che per le economie informali che caratterizzano il territorio in particolare in settori come l’agricoltura e l’edilizia, a partire dagli anni ottanta la zona ha attirato le prime comunità di immigrati arrivate in Italia. “Passeggiare per Castel Volturno è come sfogliare un bignami della storia dell’immigrazione straniera in Italia”, racconta Vincenzo Fiano, operatore dell’ex Canapificio di Caserta. E soprattutto dei fallimenti delle politiche dell’immigrazione del paese.
La partenza dei militari americani e l’arrivo degli sfollati hanno determinato un cambiamento sociale radicale. “Affittare queste case costa molto poco, con cinquanta euro al mese si affitta una stanza, con 250 euro al mese si affitta una casa”, continua Mosca. Per questo motivo, oltre che per le economie informali che caratterizzano il territorio in particolare in settori come l’agricoltura e l’edilizia, a partire dagli anni ottanta la zona ha attirato le prime comunità di immigrati arrivate in Italia. “Passeggiare per Castel Volturno è come sfogliare un bignami della storia dell’immigrazione straniera in Italia”, racconta Vincenzo Fiano, operatore dell’ex Canapificio di Caserta. E soprattutto dei fallimenti delle politiche dell’immigrazione del paese.
In una baracca di Villa Literno, a dieci chilometri da Castel Volturno, il
23 agosto del 1989 fu ucciso Jerry Essan Masslo, un bracciante sudafricano
impegnato nella raccolta dei pomodori insieme ad altri seimila
stranieri. L’omicidio compiuto da quattro uomini del posto, che volevano
derubare i braccianti delle loro paghe, diventò il simbolo delle condizioni di
vita degli irregolari, sfruttati nei campi di pomodori italiani, ma fece
emergere anche l’assenza di una legge sull’immigrazione e sull’asilo in Italia.
Masslo infatti era un attivista antiapatheid in Sudafrica, ed era scappato dal
suo paese per sottrarsi alla persecuzione politica, ma non era riuscito a farsi
riconoscere nessuna forma di protezione al suo arrivo in Italia, perché
all’epoca era concesso l’asilo solo a chi fuggiva da alcuni paesi (quelli
sovietici), la cosiddetta riserva geografica.
L’omicidio di Masslo provocò uno shock tra i braccianti stranieri, ma anche
nell’opinione pubblica italiana e un mese dopo gli stranieri organizzarono uno
sciopero e una manifestazione. Come ricostruito dal giornalista Antonello Mangano e dallo storico Michele
Colucci: “Nella lettera aperta che viene volantinata ai passanti è
palpabile l’attenzione a non voler dichiarare una guerra tra italiani e
stranieri: ‘La nostra condizione di clandestini permette a datori di lavoro
disonesti e alla criminalità organizzata di usarci per mettere in pericolo i
diritti che voi lavoratori italiani avete saputo conquistare. Non siamo
disposti a essere strumento per far arretrare i vostri diritti. Chiediamo di
appoggiarci in questa lotta’”. Il 7 ottobre dello stesso anno a Roma scesero in
piazza duecentomila persone per chiedere che in Italia fosse approvata una
legge sull’immigrazione. Obiettivo che in effetti fu raggiunto l’anno
successivo, nel 1990, con l’approvazione della legge Martelli.
Oggi come allora la preoccupazione maggiore degli irregolari che vivono in
quest’area è quella di ottenere il permesso di soggiorno. Tutti gli altri
problemi vengono dopo: dal lavoro alla salute. “La maggior parte di quelli che
vivono in questa zona non lo fanno per scelta, sono costretti a vivere qui. Se
avessero il permesso di soggiorno, sarebbero più liberi di lasciare questo
posto per cercare lavoro da un’altra parte”, spiega Doe Prosper, leader del
Movimento dei migranti e dei rifugiati di Caserta, che vive a Castel Volturno
dal 2002.
“I residenti si lamentano del fatto che qui ci sono troppi migranti e
rifugiati, ma l’unico modo per fare sì che se ne vadano, sarebbe
regolarizzarli”, continua Prosper, che ha lavorato inizialmente come muratore a
giornata, ma ora ha un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, perché in
passato ha avuto la possibilità di convertire la sua protezione umanitaria in
un permesso di lavoro, dopo aver ottenuto un contratto.
“La camorra, la mafia approfittano di loro, i padroni li sfruttano nei
campi e nei posti di lavoro, ma non vanno a denunciare perché hanno paura,
spesso non sono pagati, o sono picchiati nei campi”. E la recente sanatoria per
gli irregolari approvata dal governo Conte con il decreto Rilancio non convince
fino in fondo le associazioni di migranti e rifugiati che da anni si battono
per i loro diritti nella provincia di Caserta: stimano che solo il 20 per cento
degli irregolari riuscirà a regolarizzarsi, molti continueranno a essere
invisibili, perché non hanno datori di lavoro disposti a metterli in regola
oppure perché lavorano in settori non previsti dalla sanatoria, come
l’edilizia, la ristorazione o l’artigianato.
“Bisognava fare una sanatoria per tutti i tipi di lavori, se si voleva
risolvere il problema”, continua Prosper. Anche perché nella zona si pagano
ancora le conseguenze prodotte dal cosiddetto decreto Salvini, che nel
2018 ha creato molta irregolarità, abolendo la protezione umanitaria.
Una misura insufficiente
Una delle circa seicento persone residenti in zona, diventate irregolari con la legge Salvini, è Emmanuel Jamas, un uomo di origini nigeriane che vive in Italia dal 2003, insieme a sua moglie Suzi e ai loro cinque figli.”I ragazzi sono tutti nati in Italia, vanno a scuola a Castel Volturno, giocano nella squadra di calcio e di basket del paese e ora senza documenti temono di non poter svolgere tutte le loro attività con i loro compagni. Ogni giorno mi chiedono che ne sarà di noi”, dice il capofamiglia, mentre i quattro ragazzi più grandi lo ascoltano in religioso silenzio, seduti su una panchina. L’ultimo nato, Flish, ha sette mesi, e dorme avvolto in una fascia colorata che la madre si è stretta sulla schiena.
Una delle circa seicento persone residenti in zona, diventate irregolari con la legge Salvini, è Emmanuel Jamas, un uomo di origini nigeriane che vive in Italia dal 2003, insieme a sua moglie Suzi e ai loro cinque figli.”I ragazzi sono tutti nati in Italia, vanno a scuola a Castel Volturno, giocano nella squadra di calcio e di basket del paese e ora senza documenti temono di non poter svolgere tutte le loro attività con i loro compagni. Ogni giorno mi chiedono che ne sarà di noi”, dice il capofamiglia, mentre i quattro ragazzi più grandi lo ascoltano in religioso silenzio, seduti su una panchina. L’ultimo nato, Flish, ha sette mesi, e dorme avvolto in una fascia colorata che la madre si è stretta sulla schiena.
Jamas ha lavorato per sei anni in un’azienda di costruzioni di Pozzuoli,
guadagnando 900 euro al mese, poi in un albergo, quindi ha cominciato a
lavorare saltuariamente in maniera irregolare, e questo gli ha impedito di
trasformare la sua protezione umanitaria in un permesso di lavoro. Quando la
protezione è scaduta, per il decreto Salvini non l’ha potuta rinnovare. Vive in
una casa che paga 250 euro al mese, in nero. “Sono molto confuso da
quest’ultima legge, io vorrei rimanere in questo paese dove sono nati i miei
figli, ma non so come fare”, afferma. James, il ragazzo più grande, continua ad
assistere alle partite di basket della sua squadra, anche se non può giocare.
Anche sui numeri non c’è concordia: il sindaco di Castel Volturno, Luigi
Petrella di Fratelli d’Italia, sostiene che sul territorio vivano circa ventimila
irregolari su una popolazione di 27mila persone, mentre secondo
le organizzazioni che si occupano di immigrazione gli stranieri sono diecimila
in tutto, tra irregolari e regolari. Durante il confinamento a Castelvolturno
le rotonde si sono svuotate: per due mesi i braccianti non sono andati più “a
fare la piazza” o il “califfo ground”, come si dice da queste parti, cioè non
si sono più fatti trovare lungo la strada la mattina presto, nei punti
prestabiliti, ad aspettare di essere reclutati per andare a lavorare in
campagna o nell’edilizia.
C’erano troppi controlli, troppe volanti della polizia agli angoli delle
strade, così anche il sistema informale di reclutamento su cui si fonda
l’agricoltura da queste parti si è fermato. Lo racconta Bawa Gado, bracciante
ghaneano, straniero, irregolare, arrivato in Italia dalla Libia via mare nel
2006. Gado ha ottenuto la protezione umanitaria per due anni, ma anche lui a causa
del decreto Salvini l’ha persa. Ha lavorato sempre in nero nella zona. “Lavoro
in campagna, mi chiamano di giorno in giorno. Guadagno al massimo trenta euro,
non lavoro sempre”, racconta. Ma per l’epidemia si è dovuto fermare per più di
due mesi. “Senza lavoro, senza soldi”.
Ha vissuto in casa con un suo amico a Pescopagano, una frazione di Castel
Volturno dove l’80 per cento della popolazione è immigrata. Ora il suo amico ha
ricominciato a lavorare, mentre lui non riesce ancora a trovare niente. “Tra le
persone che hanno perso il diritto ad avere un permesso di soggiorno in questa
zona ci sono molte vittime di tratta, soprattutto nigeriane. Hanno paura a
denunciare i loro sfruttatori, ma senza documenti è ancora più difficile”,
racconta Cristiana Vozza, operatrice legale del Servizio Siproimi dell’ex
Canapificio di Caserta.
“La sanatoria avrebbe dovuto essere generalizzata e inoltre un permesso di
ricerca lavoro per sei mesi, dal momento in cui si fa la domanda, è ridicolo.
Sei mesi sono troppo pochi”, incalza Giampaolo Mosca, operatore legale dell’ex
Canapificio di Caserta. “Ci saranno delle distorsioni, molti proveranno a fare
contratti da badanti, molti andranno incontro a truffe”, continua Mosca. In uno
dei territori più interessati dalla presenza di irregolari, la sanatoria
rischia così di avere effetti minimi. “Per Castel Volturno non è stato mai
immaginato un progetto di sistema su un territorio che presenta delle
specificità importanti”, conclude Vincenzo Fiano, che spera in un miglioramento
del decreto in sede parlamentare, ma che allo stesso tempo dice di sentirsi
abbandonato dagli amministratori locali e nazionali. L’ex Canapificio, che
gestisce anche un centro di accoglienza a Caserta, ed è un punto di riferimento
per gli immigrati della zona al momento è senza una sede.
Prima di andare via, ci fermiamo davanti al
monumento dedicato a Miriam Makeba, la cantante sudafricana, morta
proprio a Castel Volturno, al termine di un concerto dedicato allo scrittore
minacciato dalla Camorra, Roberto Saviano, e alle vittime della
cosiddetta strage di Castel Volturno, l’eccidio di sei
immigrati ghaneani compiuto dei Casalesi di Giuseppe Setola, il 18 settembre
2008. Tutti a Castel Volturno si ricordano quel concerto, la rabbia che aveva
provocato quella strage ai danni di ragazzi molto giovani, nessuno di loro era
implicato in questioni criminali. Il monumento a Makeba è circondato dalle
erbacce e si vede a fatica dalla strada, come la memoria delle lotte che hanno
portato a conquistare i diritti dei lavoratori stranieri in questo territorio,
una memoria che sembra dimenticata.
la-favola-del-tam-tam-basketball.html è a Castelvolturno
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