Si tratta di una riflessione sulle forme
di opposizione alla presenza militare in Sardegna e sui gruppi antimilitaristi,
con l’auspicio (dell’autore e nostro) “di continuare ad approfondire questa
ricerca.”
Il pomeriggio del 12 ottobre 2019,
davanti ai cancelli della base di Capo Frasca, si è tenuta sa manifestada contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna.
Migliaia di persone hanno partecipato a un’iniziativa plurale convocata da “A
Foras”, assemblea nata il 2 giugno 2016 a Bauladu con l’intento di includere
gruppi, realtà politiche e singoli che oggi in Sardegna continuano a opporsi
“all’occupazione militare”. Queste le parole d’ordine:firmare is esercitatziones, serrare is bases
militares e is poligonos,bonifica e cunversione; bloccare
le esercitazioni, chiudere le basi e i poligoni, bonifica e
riconversione. Il sito internet dell’assemblea, ricco di
informazioni, racconta come il movimento antimilitarista sardo si sia
ricompattato a seguito di un’altra importante manifestazione che si tenne,
sempre a Capo Frasca, il 13 settembre 2014.
Domusnovas, paese a 40 chilometri da Cagliari, ha visto nascere un comitato popolare per la riconversione della RWM Italia da fabbrica di bombe a fabbrica civile. La RWM è uno stabilimento del gruppo tedesco Rheinmetall che conta di aumentare la produzione degli esplosivi di tipo pbx con un importante piano di espansione. Italia Nostra, per esempio, è solo una delle tante associazioni che si oppone alla presenza dell’industria di armi, esportate e utilizzate per uccidere civili nel villaggio di Deir Al-Hajar nello Yemen nord-occidentale. Diverse le mozioni discusse in proposito dalla Camera, come quella del 18 giugno 2019 che vedeva come primo firmatario Federico Fornero.
Domusnovas, paese a 40 chilometri da Cagliari, ha visto nascere un comitato popolare per la riconversione della RWM Italia da fabbrica di bombe a fabbrica civile. La RWM è uno stabilimento del gruppo tedesco Rheinmetall che conta di aumentare la produzione degli esplosivi di tipo pbx con un importante piano di espansione. Italia Nostra, per esempio, è solo una delle tante associazioni che si oppone alla presenza dell’industria di armi, esportate e utilizzate per uccidere civili nel villaggio di Deir Al-Hajar nello Yemen nord-occidentale. Diverse le mozioni discusse in proposito dalla Camera, come quella del 18 giugno 2019 che vedeva come primo firmatario Federico Fornero.
L’arcipelago del movimento antibasi
sardo è un’aggregazione trasversale e sfaccettata che interpreta un sentimento
diffuso e si radica in uno specifico contesto territoriale e culturale:
«‘Resistenza’ al colonialismo significava di più che semplice resistenza al
dominio degli italiani. Come molte isole, e secondo una valutazione antica di
secoli, se non di millenni, la Sardegna era ritenuta strategicamente
importante. Inoltre, con le grandi estensioni di terra sottopopolata era il
luogo ideale per l’addestramento militare», scriveva lo storico inglese Martin Clark
nel 1989.
Le svariate forme di opposizione alla
presenza militare nell’isola, piattaforma di servizio durante la Guerra fredda
e ancor oggi nell’ambito degli interessi di una global Nato, sono oggetto di un ampio dibattito. Ne
derivano i contorni di un tema di studio sulla storia politica e sociale della
Sardegna del secondo dopoguerra tanto peculiare quanto poco indagato. Si
propone qui una ricostruzione ancorché parziale della vicenda sarda prendendo
le mosse dagli schemi interpretativi e dagli inquadramenti storici sul
movimento nonviolento e antimilitarista nell’Italia del Novecento. Uno studio
di Amoreno Martellini (2006) propone una prima definizione terminologica e
concettuale. L’espressione “pacifismo” – osserva Martellini – indica una
disposizione generica alla pace che non necessariamente contiene il significato
di nonviolenza e antimilitarismo: «I Partigiani della pace, la più importante
organizzazione pacifista sorta in Italia dopo la fine della seconda guerra
mondiale» ad opera del Pci, che vide tra i suoi principali promotori il leader
comunista sardo Velio Spano, non contemplava tra le sue «opzioni di fondo né quella
nonviolenta né quella antimilitarista». Allo stesso modo buona parte del
pacifismo di orientamento cattolico non aveva difficoltà a schierarsi a favore
delle “guerre giuste” e delle gerarchie militari. «D’altra parte – continua
Martellini – se la nonviolenza deve per forza di cose contenere
l’antimilitarismo, l’antimilitarismo, inteso come opposizione alla istituzione
militare, non necessariamente deve fondarsi sulla scelta nonviolenta».
Il movimento pacifista dei comunisti che fu capace di coinvolgere milioni di italiani, giovani, donne, intellettuali, anche al di fuori dell’alveo della sinistra, attorno ai temi dell’antimperialismo e dell’antiamericanismo e contro il nucleare atlantico, fu pienamente operativo sino al 1956. La pace era a tutti gli effetti utilizzata come un’arma ideologica nell’ambito dello scontro planetario della Guerra fredda e delle contraddizioni aperte soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Corea nel 1950. In contrapposizione al movimento delle organizzazioni di sinistra si schierò un pacifismo di matrice cattolica monopolizzato dalla Democrazia cristiana. L’egemonica mobilitazione partitica attorno al messaggio pacifista portò a una marginalizzazione dei gruppi di donne e uomini indipendenti, nonviolenti o antimilitaristi radicali, che, pur ispirandosi a solide tradizioni come il pensiero tolstoiano o quello anarchico e socialista dei primi del Novecento, non contavano su adesioni di massa (Scarantino, 2006; Moro, 2012).
Il movimento pacifista dei comunisti che fu capace di coinvolgere milioni di italiani, giovani, donne, intellettuali, anche al di fuori dell’alveo della sinistra, attorno ai temi dell’antimperialismo e dell’antiamericanismo e contro il nucleare atlantico, fu pienamente operativo sino al 1956. La pace era a tutti gli effetti utilizzata come un’arma ideologica nell’ambito dello scontro planetario della Guerra fredda e delle contraddizioni aperte soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Corea nel 1950. In contrapposizione al movimento delle organizzazioni di sinistra si schierò un pacifismo di matrice cattolica monopolizzato dalla Democrazia cristiana. L’egemonica mobilitazione partitica attorno al messaggio pacifista portò a una marginalizzazione dei gruppi di donne e uomini indipendenti, nonviolenti o antimilitaristi radicali, che, pur ispirandosi a solide tradizioni come il pensiero tolstoiano o quello anarchico e socialista dei primi del Novecento, non contavano su adesioni di massa (Scarantino, 2006; Moro, 2012).
Altri fattori di isolamento delle
istanze nonviolente e antimilitariste nell’Italia del secondo dopoguerra sono
riconducibili all’atteggiamento repressivo dello Stato soprattutto nei
confronti dell’obiezione di coscienza e all’ avversità della Chiesa cattolica,
sino al Concilio Vaticano II. In proposito si richiamano gli episodi di
obiezione di coscienza al servizio di leva obbligatorio in Italia alla fine
degli anni Quaranta e la conseguente reazione delle istituzioni militari.
Insieme ai casi di Rodrigo Casello, cuneese, e di Enrico Ceroni di Casale
Monferrato, processati e condannati rispettivamente nel 1947 e nel 1948 (il
primo, pentecostale, fu amnistiato, mentre al secondo, testimone di Geova, fu
concessa la sospensione condizionale della pena) si annovera Pietro Pinna, ragioniere di origini sarde, condannato
anch’egli a più riprese dai tribunali militari a diciotto mesi di carcere per
il reiterato rifiuto supportato da ragioni politiche di svolgere il servizio di
leva. Fu infine congedato a causa di una improbabile “nevrosi cardiaca”. La sua
vicenda fu raccolta dalla stampa ed ebbe anche una eco internazionale ma né la
politica né la Chiesa cattolica accolsero favorevolmente la scelta della
disubbidienza civile. Nel 1950 una delle prime voci critiche autorevoli si levò
proprio dal mondo religioso vaticano. Dalle colonne de «La Civiltà Cattolica»
fu il teologo gesuita Antonio Messineo a difendere «il dovere morale per il
cattolico di ottemperare alla coscrizione obbligatoria». Bisognerà attendere i
primi anni Sessanta per assistere all’affermazione di una nuova generazione di
militanti e a una diffusione della coscienza pacifista, nonviolenta e
antimilitarista anche sull’onda delle successive rivolte giovanili globali di
fine decennio. Le proteste contro l’installazione degli euromissili a Comiso
dell’81 segneranno un’altra grande impennata della partecipazione popolare.
Espropri e missili
La vicenda sarda in parte si intreccia
con il corso dei movimenti a respiro nazionale, in parte – come accennato –
assume dei caratteri specifici che si svilupperanno nel contesto sociale e
politico della realtà isolana. La destinazione di area addestrativa e di
servizio viene assegnata all’isola nell’immediato dopoguerra in ambito Nato e
in virtù di patti tra il governo italiano e quello statunitense che reclama
strutture militari per garantire la propria operatività nello scenario europeo
e mediterraneo. Lo schieramento nazionale con il blocco occidentale comporta
l’adeguamento alla sfera di influenza americana e a tutte le conseguenti
politiche di difesa nel contesto ideologico del Patto atlantico e della guerra
fredda determinate anche da accordi bilaterali. Uno di questi, tuttora soggetto
a segreto di stato e che ha provocato effetti sull’isola, è il Bilateral infrastructure agreement (Bia), del 20
ottobre 1954: «Secondo un autorevole commentatore, esso fu firmato dall’allora
ministro italiano degli esteri Giuseppe Pella e dall’ambasciatrice Usa in
Italia, Clara Booth Luce. Tra l’altro, esso stabilisce il tetto massimo delle
forze Usa che possono stazionare in Italia. L’accordo è inoltre corredato di
annessi tecnici, relativi alle singole basi». Tra queste, se ne individuavano
due da istituire in Sardegna, nei territori di La Maddalena e di Cagliari (Ronzitti, 2007). L’isola è indentificata come
territorio ideale dove allestire poligoni di tiro, impianti di
telecomunicazioni, depositi di armi, munizioni e carburante secondo le
strategie difensive sovranazionali dell’alleanza atlantica. Una sorta di
retrovia in funzione del controllo del confine orientale. È in quest’ottica che
a metà degli anni cinquanta iniziano ad essere operativi i poligoni di Quirra e
di Capo Teulada, seguiti da Capo Frasca, tuttora in piena attività per
addestrare esercito, marina e aeronautica alle missioni Nato out of area e per la sperimentazione di armamenti e di tecnologie militari e civili gestita
anche da soggetti privati. «La possibilità di svolgere tali attività è
particolarmente importante – scrive lo Stato maggiore della difesa – perché
consente di mantenere un elevato livello di riservatezza minimizzando così il
rischio che prove o cicli addestrativi su poligoni esteri potrebbero portare a
una indesiderata dispersione di informazioni operative» (Direttiva sull’organizzazione, impiego e funzionamento del PISQ,
SMD – L 014 – 27 febbraio 2003, p. VIII).
Nell’immediato dopoguerra, sull’onda
delle iniziative del movimento dei Partigiani della pace e dell’Unione donne
italiane, si svolgono anche in Sardegna diversi incontri sul tema del disarmo.
Ma per registrare una prima significativa denuncia dell’impatto che
l’istituzione delle basi militari ebbe sul territorio della Sardegna sarà
necessario attendere il documentario di Giuseppe Ferrara, Inchiesta a Perdasdefogu (Italia, 1961). Il film –
accompagnato dal brano contro la guerra di Italo Calvino, Cantacronache e
Sergio Liberovici Dove vola l’avvoltoio? –
inquadra il malcontento della popolazione di dieci paesi «da Villaputzu a
Ulassai» interessati dalla installazione della base militare con le
testimonianze dirette degli abitanti. L’esproprio delle terre, quello che
Ferrara definisce un «avvenimento drammatico», è all’origine di una protesta
corale raccolta dal regista. Un agricoltore di Perdasdefogu lamenta la
distruzione del proprio raccolto a fronte della richiesta negata di indennizzi,
il sindaco di Tertenia illustra le ricadute negative della presenza militare:
quattromila ettari espropriati dove prima pascolavano cinquemila capi di
bestiame e dai quali trovavano sostentamento centoventi famiglie. Efficace è la
descrizione che Ferrara presenta dei vigneti impiantati dalla cooperativa
agricola fondata a Jerzu nel 1953 con duecento soci e ora ridotta a
sessantacinque lavoratori: centotrentotto ettari di terreni avuti in affitto
dissodati, sessantamila metri cubi di pietre trasformati in muri e
accantonamenti, strade, acquedotti, vasche, ponti e tubi catramati per 2.600
metri costruiti, dodici case agricole edificate. Sette anni di lavoro e mezzo
milione di piante di vite che «solo ora – spiega il regista – stavano iniziando
a portare i frutti, dovranno tornare deserto». Il lavoro di Ferrara si chiude
con il racconto di un contadino che dichiara di aver visto un missile fuori
controllo precipitare nel suo terreno. Il 13 gennaio 1961 – di contro – il
quotidiano «L’Unione Sarda» proseguiva quella che sarebbe diventata una lunga
serie di servizi dedicati alla base con l’articolo intitolato: «Lanciato il
primo razzo italiano da un poligono della Sardegna. Riuscito esperimento nella
base Perdasdefogu».
La marcia di Capitini
Le espressioni di una coscienza
pacifista e antimilitarista in Sardegna nei primi anni sessanta non potevano
che essere guidate e organizzate anche dall’azione di un leader della levatura
di Aldo Capitini, docente di pedagogia all’Università di Cagliari dal 1956 al
1965. L’intellettuale perugino promosse nell’isola una consulta per la pace, un movimento giovanile di azione
e un movimento contro le basi militari accompagnando le sue iniziative con
frequenti interventi sulla stampa – per esempio su «Rinascita Sarda» e su
«L’Unione Sarda» – e con occasioni di confronto pubblico. La Marcia della pace per la fratellanza dei popoli che
si svolse il 13 maggio 1962 nel capoluogo isolano, rappresentò uno dei momenti
culminanti dell’attività del pensatore in Sardegna, come ha sottolineato Elisa
Nivola (2006): «Migliaia di persone convenute a Cagliari da tutta l’isola […]
diedero vita a una civile manifestazione, esprimendo in una mozione conclusiva
l’adesione a un piano per la pace e chiedendo la riduzione progressiva delle
spese militari e delle armi convenzionali, l’eliminazione di tutte le basi
missilistiche, la distruzione delle armi atomiche, l’istituzione di un servizio
civile per i giovani […]» .
Un’isola per i
militari
Sul finire degli anni sessanta iniziano
a circolare anche attraverso la stampa e gli editori italiani gli scritti di
uno dei principali artefici della diffusione delle istanze antimilitariste
sarde. Si tratta di Ugo Dessy,
insegnante di Terralba, libertario, particolarmente attivo nelle iniziative di
educazione popolare. Il 4 novembre del 1969 a Milano, a margine del congresso
del Partito radicale, si tiene uno dei primi incontri nazionali del movimento
antimilitarista al quale Dessy presenta un contributo sulla realtà sarda: «La
sua relazione documentò per la prima volta il processo di militarizzazione del
territorio sardo: fu pubblicata da Umanità Nova, giornale con il quale Dessy
collaborò per due anni», ricorda «“A”-Rivista Anarchica» del 1 febbraio 1984. Il volume Sardegna un’isola per i militari, pubblicato nel 1972
da Marsilio editori, fornisce una mappa dettagliata di tutte le installazioni
della Difesa nell’isola: «Il Salto di Quirra,
Perdasdefogu; l’isola di Tavolara; l’arcipelago de La Maddalena; Decimomannu e
Serrenti; Capo Frasca; Capo Teulada; Cagliari e adiacenze; Orgosolo, il
poligono di Pratobello». La Sardegna deve sopportare un peso di
strutture militari spropositato che non ha eguali nel resto del paese e tale
carico costituisce una delle cause del mancato sviluppo del territorio. Questa
consapevolezza fornisce uno degli argomenti centrali alle tesi antimilitariste
isolane.
«Le strutture militari rappresentano un
condizionamento negativo e un limite opprimente dello sviluppo sociale ed
economico delle comunità in cui sono insediate e un condizionamento dello
sviluppo dei diritti civili e delle strutture democratiche», scrive
l’insegnante, «Ma per la Sardegna – e soprattutto per la Sardegna d’oggi – il
discorso diventa particolarmente illuminante, giacché – venuta meno quella
caratterizzazione dell’isola, rappresentata dalla inaccessibilità geografica e
dalla malaria – la regione è diventata la zona prediletta per gli insediamenti
militari e per le sperimentazioni non solo degli strumenti bellici, ma delle
strutture e dei rapporti tra società civile e potere militare».
Il capitolo conclusivo del volume di
Dessy non a caso è dedicato alla “rivolta di Pratobello”. Altro episodio
simbolico della protesta antimilitarista sarda che distilla molti dei
significati politici delle lotte identitarie e popolari verso l’imposizione
esterna. Sull’onda di una forte opposizione contro «l’arroganza del potere
centrale e della Regione, quale suo braccio cagliaritano» e nel caso delle aree
interne, contro la condizione di una «provincia amministrata in armi», scrive
Eliseo Spiga (1982), esplode una contestazione spontanea al tentativo di
istituire un poligono di tiro della brigata Trieste nei pascoli di Pratobello
alla quale partecipa tutto il paese di Orgosolo. Queste manifestazioni di
conflitto «avevano sì un respiro internazionale e un riferimento al
sessantottesco maggio francese, ma anche un aggancio evidente con la specifica
realtà sarda».
Tra gli anni settanta e ottanta si
registreranno nell’isola altre importanti iniziative di base che favoriranno
anche la diffusione dei temi antimilitaristi. Nel 1972 nasce la Comunità di Sestu che
prende il nome del comune nei dintorni di Cagliari dove si insediò. Un gruppo
proveniente dell’esperienza di Capodarco di Fermo per l’integrazione sociale
dei diversamente abili, fondò così anche in Sardegna una realtà che ha
contribuito in maniera determinante alla diffusione della cultura di pace. Dal
1974 accolse i primi obiettori di coscienza al servizio militare e in seguito
divenne sede regionale della Loc (Lega obiettori di coscienza). Nel 1981 a
Barrali, un piccolo centro della provincia Sud Sardegna, il militante anarchico
Tomaso Serra diede vita a un’esperienza unica nell’isola, il centro di
documentazione sulla storia dei movimenti anarchici, libertari, operai e
rivoluzionari, Arkiviu-bibrioteka de kurtura populari, intestato poi
allo stesso Serra dopo la sua scomparsa nel 1985. La grande mobilitazione
contro l’installazione degli euromissili a Comiso del 1981 consentì ulteriori
spinte associative come il Movimento antimilitarista sardo.
Il nucleare
nell’arcipelago
La concessione nel 1972 dell’approdo per
sommergibili nucleari della VI flotta Us Navy nell’isola di Santo Stefano,
nell’arcipelago de La Maddalena, si fonda sul già citato Bilateral
infrastructure agreement, accordo tra i governi statunitense e italiano (Nixon
e Andreotti) mai sottoposto alle Camere e privo di alcuna ratifica del
Quirinale, viene considerato da molti giuristi un atto nullo e non conforme
alla Costituzione repubblicana che esprime il principio fondamentale del
ripudio alla guerra di aggressione (Onorato, 1994). L’installazione militare –
che dal 26 gennaio 2008 non ospita più la Us Naval support activity – non solo
rappresentò la violazione della sovranità interna e di un delicato equilibrio
ambientale, ma fu al centro di numerose denunce, sospetti e dispute sul rischio
di inquinamento radioattivo nelle acque della zona (Cortellessa, 1990; Aumento, 2005). Servizi giornalistici
e interrogazioni parlamentari riportarono diverse testimonianze su casi di
cranioschisi e di anencefalie registrati dal 1976 al 1988 (Mannironi, 2004).
L’assenza di informazioni, di indagini e
strumenti adeguati e soprattutto di trasparenza da parte delle autorità della
Difesa (sia italiana sia statunitense) trincerate dietro al segreto militare
(soprattutto riguardo alle caratteristiche di armamento e propulsione nucleare
dei cosiddettiHunter killer), ha portato a uno stato di sospensione di essenziali diritti come quello alla
tutela della salute. Gli stessi americani dedicavano molta
attenzione alla diffusione delle notizie sul pericolo nucleare a La Maddalena.
Lo attesta questo resoconto molto dettagliato di un press touralla base con una interessante rassegna
stampa commentata, documento del 25 maggio 1976, spedito dalla struttura
diplomatica americana in Italia e ricevuto dal Bureau of european and eurasian
affairs del Dipartimento di stato Usa, pubblicato ora su Wikileaks. A proposito di segretezza, è indicativa
altresì la nota interna che l’ambasciatore statunitense Ronald Spogli redasse
il 7 luglio del 2008, e che fu resa pubblica sempre attraverso Wikileaks, dove
il diplomatico suggeriva di rifiutare la richiesta del governo italiano di
desecretare il Bia (Olianas, 2011).
La presenza statunitense intensificò le
forme di protesta anche a livello nazionale, prendendo le mosse dalle prime
manifestazioni del novembre del 1972 della Fgci e di altri gruppi giovanili dei
partiti, passando per la marcia internazionale degli antimilitaristi che si
concluse a La Maddalena nell’estate del 1976, per numerose iniziative
organizzate dal Partito radicale, da Lotta continua, dal Comitato per la pace,
come quella del 22 dicembre del 1984. Saranno diverse le incursioni di
Greenpeace e nel 1988, due anni dopo il disastro di Chernobyl, si avvieranno le
procedure per l’espletamento di tre referendum contro la presenza nucleare
militare poi sospesi il 22 novembre e bocciati l’8 marzo 1989 dalla Corte
costituzionale. Questa circostanza porterà a importanti mobilitazioni popolari
come la manifestazione a La Maddalena del 10 dicembre 1988.
L’opposizione della
Regione
Negli anni ottanta si assistette a una
più decisa opposizione alla presenza militare da parte dell’istituzione
autonomista regionale soprattutto sotto i governi guidati dal leader sardista
Mario Melis (1982, 1984-1989). La regione contrastò le richieste del governo in
diverse forme e nei limiti concessi dalla legge 898 del 1976 che si proponeva
di armonizzare paritariamente gli interessi della Difesa con quelli dello
sviluppo del territorio riconoscendo il principio dell’indennizzo a fronte di
un danno causato dai vincoli militari. Un ordine del giorno approvato
dall’assemblea legislativa sarda datato 10 aprile 1981 impegnava la giunta a
indire una conferenza regionale sul problema delle servitù e installazioni
militari, coinvolgendo «primariamente le forze vive della società sarda» e i
comuni. Melis, allora assessore dell’Ambiente, in apertura della
conferenza che si tenne lo stesso anno, pretese dal governo una drastica
riduzione della presenza militare che, per modalità, intensità e ampiezza del
suo realizzarsi, aveva assunto caratteristiche «nettamente
autoritarie e colonialiste», in una regione considerata come “area
di servizio”. Melis fa riferimento alla pesante sproporzione di servitù e
demanio della Difesa rispetto alle altre regioni italiane descrivendo le
imposizioni militari come responsabili del freno allo sviluppo, del blocco
dell’espansione turistica, dell’abbandono di terre fertili come la piana di
Teulada o quella di Santadi. Mare e cieli inibiti portano limiti alla pesca e
al traffico aereo con allungamenti di rotte e conseguenti aumenti delle
tariffe. Il 5 e 6 maggio del 1981 seguì la conferenza nazionale sulle servitù
militari per effetto della quale il ministro della Difesa Lelio Lagorio si
impegnò a favorire una «riduzione quantitativa e qualitativa dei gravami
connessi con le esercitazioni a fuoco delle unità terrestri e aeree della
Sardegna». Impegno rimasto di fatto inattuato. Altri accordi si susseguirono
come quello tra il presidente della giunta regionale Melis e il ministro della
Difesa Giovanni Spadolini del marzo 1986 che portò all’insediamento di una
commissione stato-regione dal luglio 1986 al gennaio 1987 e a una mappatura di tutti i beni militari considerati
dismissibili con illustrazioni e cartografie.
Mappa della Sardegna con aree a mare e in
cielo sottoposte a vincoli militari, gentile concessione dell’Archivio
“Gettiamo le basi”.
La legge 104 del 2 maggio 1990, che tra
l’altro riconosce diverse modifiche alla norma del 1976 e un contributo annuo
in base alla percentuale dei gravami militari da destinare ai comuni
interessati, si può considerare un effetto formale e parziale dell’annosa
vertenza sarda con lo stato. Così come i numerosi protocolli d’intesa tra Roma
e Cagliari: sulla regolamentazione e sui criteri degli indennizzi che includevano
i pescatori (ottenuti dopo una protesta delle marinerie che comportò il blocco
delle esercitazioni) del 1999 (governi D’Alema e Palomba) e del 2005 (governi
Berlusconi e Soru). Gli accordi Parisi – Soru (2006) e l’intesa Pinotti-Pigliaru (2017). Questa mole di
provvedimenti ha in parte consentito la dismissione di piccole porzioni di beni
militari lasciando tuttavia irrisolto il nodo centrale sul riequilibrio reale del demanio asservito, delle esercitazioni e di
altre attività operative tra l’isola e il resto d’Italia,
considerazione emersa anche dall’indagine conoscitiva della Camera del 2014.
Non bisogna poi dimenticare il ruolo assunto dagli amministratori locali che in
certi casi hanno rappresentato un importante e unico punto di riferimento per
la ricerca di informazioni e per la tutela della trasparenza. Beniamino Camba,
sindaco di Teulada per svariate consiliature e memoria storica del Comitato
misto paritetico per le servitù militari della regione, ha denunciato in
più occasioni riserve di legittimità sulle modalità che hanno
governato gli espropri per la costituzione del poligono nel sud ovest
dell’isola descrivendo «l’abbandono forzato delle case da parte dei contadini
di alcune frazioni» e ha richiesto la bonifica del vasto territorio e del mare
inquinato da «discariche di vecchi ordigni» (Quaderni della Sardegna, 2000).
Pasqualino Serra, primo cittadino de La Maddalena dal 1993 al 1997, commissionò
nel 1999 uno studio su costi e benefici dovuti alla comunità
dalla presenza americana riscontrando che si procurava una perdita netta di
928mila euro per il bilancio pubblico (Mostallino, 2012). Antonio Pili, ex
sindaco di Villaputzu dal 1997 al 2002, medico oncologo, nel 2001 aveva
rilevato l’alta e inspiegabile incidenza di tumori al sistema emolinfatico nel
territorio comunale di Quirra, una frazione di 150 abitanti confinante con il
poligono, avviando il lungo percorso di ricostruzione degli effetti del grave
inquinamento ambientale causato dalla base militare. «C’è qualcosa laggiù che sta uccidendo uomini e donne»,
affermava Pili.
“Gettiamo le basi”
È sulla scorta di questo profondo vulnus
ai danni della sovranità territoriale della Sardegna, mai superato in decenni
di confronti istituzionali e dissenso, che nel 1997 si costituisce a Cagliari
il comitato sardo Gettiamo le basi. L’iniziativa fece seguito all’omonimo
convegno nazionale che si tenne a Pordenone dal 6 all’8 dicembre dello stesso
anno. Forse il più fecondo e longevo gruppo antimilitarista indipendente di
formazione regionale, ancora operativo dopo quasi 23 anni di attività
ininterrotta. L’organizzazione fondata da Mariella Cao, insegnante e a lungo
militante nell’ associazionismo di base, ha concentrato subito gli sforzi su un
approfondito lavoro di documentazione e di ricerca.
Un opuscolo autoprodotto di sedici pagine pubblicato nel 1998 ha rappresentato una fonte di informazione alternativa alle scarse notizie divulgate dalle fonti ufficiali e un testo aggiornato rispetto ai lavori degli anni settanta e ottanta. La presenza militare in Sardegna era il titolo e riportava al centro della copertina una cartina dell’isola costellata dalle numerose installazioni della Difesa sparse in tutto il territorio e segnata dalle sconfinate zone aree e marittime proibite durante le esercitazioni. Un’immagine che diverrà il logo del comitato. Dopo un elenco molto particolareggiato delle decine di strutture militari presenti nell’isola, l’opuscolo evidenziava i numeri dell’occupazione militare del territorio sardo: «Il demanio permanentemente impegnato consta di 24mila ettari, il 60 % del totale nazionale, a fronte dei 16mila di tutto il restante della penisola». A questa cifra vanno aggiunti i 12.000 ettari gravati dalle servitù. Mentre gli spazi aerei interdetti sono di fatto incommensurabili, quelli a mare, con 2.800.000 ettari, superano l’intera superficie dell’isola. Con numerose iniziative pubbliche e attraverso un costante rapporto con la stampa (tra le prime testate a raccogliere le denunce del comitato, si ricordano «L’Unione Sarda», «La Nuova Sardegna», «Liberazione», «il manifesto», «Metro», «Peacelink»), Gettiamo le basi ha indagato sull’impatto sanitario e ambientale delle basi e sull’incompatibilità tra lo sviluppo sostenibile e i vincoli militari.
Un opuscolo autoprodotto di sedici pagine pubblicato nel 1998 ha rappresentato una fonte di informazione alternativa alle scarse notizie divulgate dalle fonti ufficiali e un testo aggiornato rispetto ai lavori degli anni settanta e ottanta. La presenza militare in Sardegna era il titolo e riportava al centro della copertina una cartina dell’isola costellata dalle numerose installazioni della Difesa sparse in tutto il territorio e segnata dalle sconfinate zone aree e marittime proibite durante le esercitazioni. Un’immagine che diverrà il logo del comitato. Dopo un elenco molto particolareggiato delle decine di strutture militari presenti nell’isola, l’opuscolo evidenziava i numeri dell’occupazione militare del territorio sardo: «Il demanio permanentemente impegnato consta di 24mila ettari, il 60 % del totale nazionale, a fronte dei 16mila di tutto il restante della penisola». A questa cifra vanno aggiunti i 12.000 ettari gravati dalle servitù. Mentre gli spazi aerei interdetti sono di fatto incommensurabili, quelli a mare, con 2.800.000 ettari, superano l’intera superficie dell’isola. Con numerose iniziative pubbliche e attraverso un costante rapporto con la stampa (tra le prime testate a raccogliere le denunce del comitato, si ricordano «L’Unione Sarda», «La Nuova Sardegna», «Liberazione», «il manifesto», «Metro», «Peacelink»), Gettiamo le basi ha indagato sull’impatto sanitario e ambientale delle basi e sull’incompatibilità tra lo sviluppo sostenibile e i vincoli militari.
Sono state di particolare rilievo le
segnalazioni documentate, e sostenute dalle famiglie delle vittime, di soldati
e civili colpiti da patologie tumorali a seguito dell’esposizione a
contaminanti usati in zone di guerra e in aree addestrative. Anche per merito
dell’attività del comitato, a partire dalla fine del 1999, iniziano a
diffondersi nell’isola i primi dati sulle morti correlate all’attività bellica,
come il caso del caporalmaggiore della brigata Sassari, Salvatore Vacca, originario di Nuxis (Sud Sardegna),
mancato a 23 anni nel settembre 1999 a causa di una leucemia linfoblastica
acuta di ritorno da una missione in Bosnia. Per questa vicenda il Ministero
della Difesa è stato condannato a maggio del 2016 dalla Corte d’appello di Roma
a versare un risarcimento ai familiari di Vacca per condotta omissiva, ovvero
per non aver protetto adeguatamente il commilitone dalle polveri nocive
rilasciate dalla deflagrazione delle munizioni. Dopo i precedenti della Gulf war syndrome, le notizie sui casi di tumore
riconducibili agli effetti tossici di armi contenenti metalli pesanti o alla
dispersione di nanoparticelle nei teatri di guerra dei Balcani si susseguirono
sino a far scoppiare un caso internazionale. Le prime segnalazioni partite
dalla Sardegna, e si ricorda anche la vicenda di Valery Melis,
innescarono un effetto a catena che all’inizio del 2000 coinvolse la stampa
italiana ed europea. Il parlamento di Strasburgo votò una prima risoluzione per mettere al bando le armi
all’uranio impoverito il 17 gennaio 2001. Gettiamo le basi concentrò
immediatamente l’attenzione non solo sui militari colpiti di rientro dalle
missioni internazionali ma anche sulle attività a rischio che si svolgono
nei poligoni sardi raccogliendo una notevole quantità
di informazioni e richiedendo la cessazione delle esercitazioni nel rispetto
del principio di precauzione. Il 19 luglio 2003 il gruppo antimilitarista
spediva una petizione con 1.500 firme al presidente della Repubblica Carlo
Azeglio Ciampi denunciando gli effetti della “sindrome di Quirra”:
«In base al buon senso e all’elementare principio di precauzione, fino a quando
non sia stata trovata una ragionevole e convincente spiegazione alle troppe morti
e malattie sospette, si chiede l’immediata sospensione delle attività del
poligono interforze Salto di Quirra».
Nella lettera di accompagnamento
indirizzata al capo dello Stato si ricordava che «un generale e cinque militari
in servizio nel poligono interforze sono stati uccisi dalla leucemia, quattro
sono in lotta contro il male. A Quirra, frazione di Villaputzu con 150
abitanti, 12 persone sono state divorate da tumori al sistema emolinfatico, 2
decedute. A Escalaplano, paese confinante con la base, 2.600 abitanti, 12
bambini sono affetti da gravi malformazioni genetiche, 14 persone colpite da
tumore alla tiroide». Dal 2004 al 2018, dalla XIV alla XVII legislatura, le
Camere istituirono delle commissioni parlamentari d’inchiesta. Nel 2006, sotto
la presidenza di Lidia Menapace e del senatore eletto in Sardegna, Mauro
Bulgarelli, i deputati iniziarono a indagare non solo sul personale militare ma
anche sulle popolazioni civili «nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti
le basi militari».
Confronto, indagini e
media
Un aspetto caratterizzante della cifra
comunicativa del comitato è da ricercarsi nel linguaggio diretto e nell’analisi
essenziale delle problematiche che difficilmente cedeva al filtro ideologico.
In una ricerca sociologica di Daniela Volpi (2019) incentrata
sull’associazionismo in rapporto alle attività militari con elevato impatto
ambientale, l’intervento di Gettiamo le basi è
riconducibile a un contesto di self help:
«Il contesto in cui sorge questo
associazionismo è molto complesso, caratterizzato da cadute, fratture e carenze
tra le quali: la rottura di un patto di fiducia e di affidamento tra
rappresentanti e rappresentati nel sistema politico; la crisi dello stato
sociale; il rompersi di certezze ideologiche; la caduta di una partecipazione
politica tradizionale ormai svuotata di senso. Ma questo stesso contesto è
anche segnato da acquisizioni, dallo svilupparsi di una serie di “dotazioni”
per l’azione sociale che permettono la moltiplicazione di risorse
motivazionali, cognitive, pragmatiche per risolvere i problemi collettivi; il
moltiplicarsi delle risorse disponibili; l’allargamento delle cittadinanze e
l’evidenziarsi dei sistemi di autocorrezione della democrazia».
Iniziative come il convegno
internazionale L’opposizione alle basi
militari in Sardegna e nel mondo del luglio 2007, che a
Cagliari metteva a confronto le esperienze di Vieques-Portorico, Filippine ed
Ecuador, dimostra la significativa capacità di apertura al confronto che il gruppo
era in grado di mettere in campo. Parteciparono tra gli altri le leader
storiche del movimento antibasi portoricano, Nilda Medina e Wanda Colòn Cortes.
Per rafforzare la propria attività, Gettiamo le basi è
ricorso spesso al supporto dei gruppi di ricerca indipendente come “Scienziate
e scienziati contro la guerra”. Al convegno Il male invisibile sempre più
visibile. La presenza militare come tumore sociale che genera tumori reali che
si svolse ad Asti il 4 febbraio del 2005, furono ospitati quattro interventi
sulla Sardegna del comitato e di altri militanti e studiosi. I lavori della
fisica e bio-ingegnere Antonietta Gatti sono stati determinanti per
comprendere i meccanismi di trasmissione nell’uomo degli agenti inquinanti e
nocivi causati durante le esercitazioni o in zone di conflitto attraverso le
nanoparticelle. Nel gennaio 2011 il comitato sardo apprese i risultati di uno studio veterinario delle Asl di
Cagliari e di Lanusei svolto nell’ambito del progetto di monitoraggio
ambientale sul poligono di Quirra coordinato dalla Namsa, maintenance and supply agency della Nato, e
bandito il 28 maggio 2008. L’indagine confermava le denunce del comitato
antimilitarista.
«Un grave fenomeno sanitario»,
scrivevano gli estensori: «Il 65% del personale impegnato con la conduzione
degli animali negli allevamenti ubicati entro il raggio di 2,7 chilometri dalla
base militare di Capo San Lorenzo a Quirra, risulta colpito da gravi malattie
tumorali. In sette aziende su dodici sono stati riscontrati casi di tumore. Dal
2000 al 2010 le persone che risultano colpite da neoplasie sono dieci su
diciotto. E si evidenzia una tendenza all’incremento. Negli ultimi due anni
sono quattro i nuovi casi di neoplasie che hanno colpito altrettanti allevatori
della zona». Anche questo tassello ha probabilmente contributo all’apertura
nello stesso mese di gennaio del 2011 di un’inchiesta da parte della procura di
Lanusei allora coordinata da Domenico Fiordalisi. La pubblica accusa ipotizzò
inizialmente i reati di omicidio plurimo, disastro ambientale, omissione d’atti
d’ufficio in relazione agli effetti dell’inquinamento causato dalla base di
Quirra. In seguito la richiesta di rinvio a giudizio si concretizzò per venti
persone: ufficiali, amministratori locali, docenti, studiosi e medici, con i
seguenti capi di imputazione: omissione aggravata di cautele contro infortuni e
disastri; falso ideologico aggravato in atto pubblico e ostacolo aggravato alla
difesa da un disastro; omissione di atti d’ufficio dovuti per ragioni di sanità
e igiene; favoreggiamento aggravato. Dodici indagati furono prosciolti e il 29
ottobre 2014 si aprì il dibattimento che vide al banco degli imputati otto ex
comandanti del poligono di Quirra dal 2004 al 2010: Fabio Molteni, Alessio
Cecchetti, Roberto Quattrociocchi, Valter Mauloni, Carlo Landi e Paolo Ricci; e
i comandanti del distaccamento dell’aeronautica di Capo San Lorenzo, Gianfranco
Fois e Francesco Fulvio Ragazzon. Il 18 dicembre 2014 il processo appena
avviato si interruppe per un rinvio alla Corte Costituzionale di un’eccezione
(poi respinta) sull’ammissione di parte civile della Regione Sardegna per il
risarcimento del danno ambientale. L’11 novembre 2016 si tornò in aula: davanti
al giudice monocratico Nicole Serra i militari dovranno rispondere di omissione
dolosa aggravata di cautele contro infortuni e disastri. Non avrebbero messo in
atto tutte le procedure necessarie per evitare «Un
persistente e grave disastro ambientale con enorme pericolo chimico e
radioattivo per la salute» (Cristaldi, 2013).
Attraverso questo percorso di
informazione, denuncia, opposizione e resistenza antimilitarista, le iniziative
a tutti i livelli della società sarda, della politica e della magistratura,
hanno guadagnato l’attenzione di media e documentaristi internazionali, del
mondo dell’arte e della letteratura. Qui si ricordano solo alcuni titoli: Secret Sardinia,
reportage di Emma Alberici per «Al Jazeera» del 2020; Italian military officials’ trial ignites suspicions of links
between weapon testing and birth defects in Sardinia, inchiesta
del servizio pubblico radiotelevisivo australiano, «Abc»
del 2019; Balentes, documentario di Lisa
Camillo del 2018; Uran und Thorium. Sardiniens tödliches
Geheimnis, servizi messi in onda dalla tedesca «ZDF» nel 2012 in tre puntate; Poisons mortels: Quirra poubelle des
armées, di Livio Capra e Francoise
Begu trasmesso da «France Ô» nel 2014 dopo un lavoro di anni; il blogger
giapponese Ryusaku Tanaki si è occupato di Quirra nel 2011;Oltre il giardino, film della tv svizzera «Rtfi» del
2007. Sardegna teatro ha portato in scena nel 2017, L’avvoltoio, testo e indagine di
Anna Rita Signore, regia di Cesar Brie, Mauro Salis è l’autore dello
spettacolo Quirra megastore. Storie di poligoni e servitù
militari, Dr Drer e Crc Posse hanno composto Generale, Piero Marras
è l’autore di Quirra. Lo
scrittore Massimo Carlotto e Mama Sabot hanno dato alle stampe il noir Perdas de Fogu.
Dal 2011 e ogni 15 del mese Gettiamo le basi con i comitati Amparu, Su sentidu, “Famiglie
militari uccisi da tumore”, convoca un sit-in nella
piazza del Carmine di Cagliari, esattamente sotto le finestre della
rappresentanza del Governo italiano. Si tratta di un appuntamento consolidato
che si ispira alla celebre protesta delle Madri di plaza de Mayo e durante il
quale si avanzano sempre le stesse richieste da anni: «sospensione immediata
delle attività dei tre grandi poli militari della Sardegna dove si sono
registrate le patologie di guerra: Quirra, Teulada, Capo Frasca-Decimonannu;
evacuazione urgente dei militari in servizio nel Poligono Interforze Salto di
Quirra; allontanamento dei militari esposti alla contaminazione dei poligoni di
Capo Teulada, Decimomannu-Capo Frasca; ripristino ambientale e messa in
sicurezza delle aree contaminate a terra e a mare; risarcimento del danno
inferto al territorio e del danno – irrisarcibile! – della perdita della salute
e della vita». Le prime lettere di ciascuna rivendicazione compongono il vocabolo
in lingua sarda serrai. Che
significa: chiudere.
«Nessuna regione come la Sardegna ha
visto interdire praticamente da ogni attività̀ civile zone tanto vaste, ha
visto sorgere così preoccupanti impianti di armamenti non convenzionali. Tale
situazione pesa. ovviamente nella già precaria economia dell’isola, come pesa
nello sviluppo delle condizioni civili delle popolazioni» (Ugo Dessy, 1972).
Si ringrazia Mariella Cao
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Documenti
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PISQ. Relazione dei medici veterinari dr. Mellis Giorgio e dr
Lorrai Sandro, 13 novembre 2010
Sito dell’assemblea A FORAS. Contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna
«Peacelink»,
rete telematica attiva dal 1991, conserva un ricco archivio di note stampa e
articoli sull’antimilitarismo sardo
Portale di Ugo Dessy
Repertorio di Bruno
Sini con stampa internazionale
Inchieste
giornalistiche e documentari
§ Veronica Tarozzi,
intervista a Manlio Dinucci,Defender Europe 20”: l’alleanza USA-NATO ci difende o ci
espone a dei rischi?, «Pressenza», 14 marzo 2020
§ Massimo Coraddu, Massimo
Zucchetti,Bagni, morte e manette al poligono sperimentale di
Perdasdefogu-Quirra, «Contropiano», 8 giugno 2017
§ Quirra,
oltre l’aporia, regia di Cladinè Curreli (Sardegna, 2017)
§ Marco Mostallino,Fisco, la truppa gode. Esenzioni dei militari Usa in
Italia: un tesoretto da 500 mln, «Lettera 43», 25 gennaio
2012
§ Paolo Carta,Quirra, un poligono con troppi misteri Il rapporto della
Asl riaccende le polemiche, «L’Unione Sarda», 5 gennaio
2011
§ Ercole Olmi,Quirra, quel poligono che uccide uomo e fauna,
«Liberazione», 4 gennaio 2011
§ Costantino Cossu,“Gettiamo le basi”. Dalla Sardegna un no alla guerra,
«il manifesto» 8 luglio 2007
§ Sa
Lota. Pratobello 1969, di Francesca Ziccheddu e Maria Bassu,
(Sardegna, 2005).
§ Piccola pesca, regia di Enrico
Pitzianti (Sardegna, 2004)
§ Piero Mannironi, Alla Maddalena anomalia statistica: troppe malformazioni
gravi nei feti, «La Nuova Sardegna» 13 febbraio 2004.
§ Piero Mannironi ,Quirra, escalation di linfomi e leucemie Tracce di Cesio
134 e 137 all’interno del poligono di Perdasdefogu?, «La
Nuova Sardegna», 12 febbraio 2002
Walter Falgio, ISSASCO (Istituto sardo
per la storia dell’Antifascismo e della Società contemporanea)
https://www.facebook.com/IssascoSardegna/
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