Premessa
Credo fosse circa il 2013 o 2014:
ricevetti a Lucerna, dove vivo dal 1999, a distanza di un giorno l’una
dall’altra, due telefonate, una da un amico di Lucerna, svizzero alemanno (non
mi piace la dicitura ‘svizzero tedesco’), e una da Bologna, da un amico sardo.
La domanda era la stessa: «Dunque, hai davvero creato un’associazione per
proporre la Sardegna come Cantone della Svizzera?».
Nel 2004, essendo sposato con una donna
svizzera, mi era arrivata la concessione della cittadinanza svizzera, avendo
fatto io la richiesta qualche anno prima. Mi venne voglia di comunicare agli
amici italiani, a amici e colleghi di lavoro svizzeri, le mie considerazioni,
emozioni, motivazioni che mi avevano mosso a chiedere, convinto, la
cittadinanza svizzera. Dunque, scrissi una lunga comunicazione che inviai in
italiano e in tedesco, indirizzandomi soprattutto agli Svizzeri, cercando di
presentare brevemente e in maniera essenziale, quasi banale, la realtà della
Sardegna e cosa significava ‘essere sardo’ ‘essere italiano’, dal mio punto di
osservazione. Se chiedessi a un italiano medio se ha una qualche idea di cosa
può differenziare gli Svizzeri alemanni (germanofoni) da quelli romandi
(francofoni) o da quelli ticinesi e del Grigioni italofono, o dai grigionesi
romanci, non so cosa riuscirebbe a cavarne fuori né, probabilmente, avrebbe idea
di cosa e dove sia il Cantone Glarus o il Waadt, al pari di come uno svizzero
alemanno spesso confonde Sardegna e Sicilia.
Ma tornando alle due telefonate: l’amico
svizzero, che aveva ricevuto la mia lettera nel 2004 mi diceva che nella Neue
Luzerner Zeitung, il quotidiano di Lucerna, era comparso un articolo in cui
si parlava di un’Associazione di sardi che mirava all’adesione della
Sardegna alla Svizzera come Cantone Marittimo. Di questa
associazione i sardi avranno avuto occasione di leggere, soprattutto negli anni
passati. Anche l’amico sardo, che aveva anche lui ricevuto la mia lettera del
2004, mi poneva la stessa domanda, perché aveva letto qualcosa sul tema, forse
nell’Unione sarda o in qualche blog. Fu l’occasione per me, per
informarmi su questa associazione e per inviare anche ai suoi promotori la mia
lettera del 2004.
Per farla breve ecco quella lettera che,
a distanza di più di 15 anni, ritoccherei, ma credo sia più interessante
presentarla nella stesura del tempo. L’avevo ‘profeticamente’ intitolata:
In attesa che la Sardegna diventi il 27°
Cantone della Confederazione svizzera.
(Lettera a amici, conoscenti colleghi di
lavoro svizzeri e agli amici italiani. Agli amici e colleghi svizzeri il testo
fu inviato in tedesco)
Cari amici,
da oggi sono un cittadino svizzero. Che
senso abbia per me annunciarvelo, dirvi della mia emozione, cercherò di
spiegarlo brevemente. Ma non potrà essere troppo in breve, perché dovrò dire
tante cose che per un italiano possono risultare scontate, tanto più per un
sardo. Ma forse non lo sono per voi amici e colleghi svizzeri.
A parte la battuta dell’intestazione che
vi farà sorridere, chissà cosa potrò pensare, quando forse rileggerò queste
righe fra dieci anni o, forse, anche prima, cosa potrò pensare anche solo
riguardo al fatto di avere avuto l’esigenza di scriverle? Forse sorriderò
anch’io. Eppure, oggi sono contento ed emozionato di essere diventato svizzero,
come svizzere sono mia moglie e mia figlia. È per me una sensazione strana e
curiosa pensare che il mio cognome – forse il più sardo dei cognomi sardi –
figuri nel registro dei cognomi svizzeri e si sia dovuto fare un atto ufficiale
per tale inserimento.
Il mio passaporto, la mia carta di
identità sono italiani, ma prima di essere e sentirmi italiano – quale pure
sono – sono e mi sento sardo. Non so come uno Svizzero senta il suo essere
svizzero in rapporto a un ginevrino, non so come lo senta uno zurighese, un
vallesano, un grigionese, un ticinese; che tipo di appartenenza o non
appartenenza possiate sentire e quale grado di affinità tra di voi. E quanto si
potrebbe dire sul sentirsi italiani di un milanese, di un siciliano, di un
romano, di un fiorentino… cosa li accomuna?
Lasciamo perdere, al momento, la storia
lontana di secoli, che, pure, rimane – deve rimanere – come memoria, come
insegnamento, come orientamento, come ammonimento. Chi, meglio di voi Svizzeri,
santifica e tesaurizza la propria storia passata, i propri eroi?
Limitandomi a quanto io ho vissuto e
conosciuto, la mia esperienza di sempre è stata quella di uno Stato – parlo di
quello italiano – che ha sempre sottostimato, quando non disprezzato – nel
migliore dei casi ha folclorizzato – i valori della mia cultura d’appartenenza,
a cominciare dalla lingua; uno Stato che ha usato il territorio della Sardegna
come merce di scambio con altri stati, concedendo immensi territori e spazi di
terra e di mare per le più grandi basi militari d’Europa, dove si esercitano i
bombardieri di mezzo mondo, dove vengono sperimentati i missili nel più grande
poligono di lancio europeo, dove esiste una delle basi aeree militari tra le
più grandi d’Europa, se non la più grande. Dove approdano anche gli aerei da
combattimento della vostra – ora ‘nostra’ – neutrale Svizzera per esercitarsi
alla guerra.
Territori tolti alle popolazioni locali,
espropriati; i proprietari – perlopiù poveri contadini – spesso trascinati a
forza via dalle loro case, qualcuno morto di crepacuore. Lunghi tratti di coste
tra le più belle e pescose usate per sganciare bombe, per esercitazioni al
bersaglio per gli aerei.
Il rumore che uomini e animali devono
sopportare quando gli aerei da guerra sorvolano i centri abitati non sarebbe
tollerabile neppure un solo giorno dagli abitanti dell’area della vostra
Zurigo, che si mobilitano giustamente contro i rumori degli aerei in
avvicinamento all’aeroporto di Kloten. Potrebbe un cittadino svizzero concepire
e accettare un tale uso del suo territorio da parte di eserciti stranieri?
Proprio in questo inizio d’autunno,
decine di pescherecci della costa del mio Sulcis di cui forse vi ho parlato, la
costa sudoccidentale della Sardegna, stanno provando a impedire con la loro
presenza nelle acque Off limits, le esercitazioni a diecimila
soldati americani, italiani, tedeschi, olandesi e chissà quali altri, a
cinquanta navi da guerra, ad alcuni sommergibili, a decine di bombardieri. Non
c’è bisogno di pensare che quei pescatori intraprendano questa azione di
disturbo per ideologia antimilitarista o anticolonialista, quanto,
semplicemente, per mantenere la speranza di avere un reddito dal loro lavoro e
quindi di non dovere anche loro fuggire dalla propria terra.
Anche la polizia italiana ha sempre
avuto in Sardegna – e ha – i più importanti centri di addestramento e i
‘banditi sardi’ sono stati sempre una buona opportunità per l’addestramento;
per esempio circondando interi villaggi dell’interno, svegliando la popolazione
durante la notte e perquisendo tutte le case. Uomini, donne, bambini,
spettatori impotenti e comparse di un grande crudele gioco di guerra. Cose
ormai certo un po’ lontane. Ma non è molto lontano il tempo (neanche 20 anni
fa) in cui è capitato che i carabinieri abbiano esibito sulle loro jeep i corpi
dei banditi uccisi, facendo il giro del paese degli uccisi, come cacciatori che
esibiscono la preda di cinghiali abbattuti; riproposizione dal vivo di immagini
conservate da stinte fotografie della fine dell’Ottocento, che ritraggono
gruppi di Carabinieri con pose da eroi con la loro preda di caccia grossa:
banditi, uomini morti al suolo, ai piedi dei militari. E poco più di trent’anni
fa, in uno dei più autorevoli giornali italiani compariva la proposta di usare
il Napalm per stanare i banditi. Cose orribili che neppure un codice di guerra
ammette. Cose che voi non vi sognereste mai di pensare possibili, di questi
tempi, nella vicina Italia. Cose che neppure la gran parte degli italiani
conosce nella loro reale dimensione e portata.
Oggi le cose non sono così brutali,
certo, ma è ancora presto per cancellarle. E che senso avrebbe cancellarle? Non
si tratta di incentivare odi e risentimenti contro lo Stato italiano – tra i
politici che hanno portato a certe decisioni molti erano sardi e sardi erano e
sono anche i militari, carabinieri e poliziotti – ma semplicemente di
conservare testimonianze come importanti riferimenti per il futuro.
Oggi, addirittura, la lingua sarda è
entrata nella scuola e ha una parvenza di ufficialità – peccato che ora molti
sardi ne stiano facendo un uso folclorico essi stessi e che si dimentichi che
il valore di una lingua non sta nel farne un uso ‘ufficiale’ ma nell’usarla –
ma io e molti miei compagni di classe abbiamo fatto ancora in tempo, a scuola,
a ricevere le bacchettate sulle mani, quando utilizzavamo il sardo; ha fatto in
tempo a fare tale esperienza anche chi è più giovane di me. Molti dei miei
compagni, però, non hanno mai ricevuto bacchettate perché ormai erano
completamente italianizzati. Un problema sociale in più, tale separazione.
Può essere concepibile per voi,
svizzeri, che la Confederazione, da oggi a domani, imponga il Tedesco e che
proibisca l’uso della parlata materna, che invii circolari alle famiglie
invitandole a non utilizzare lo schwitzertütsch, la vostra lingua materna, per
esempio, con la motivazione che tale uso comprometterebbe l’apprendimento della
lingua ufficiale scritta (l’hochdeutsch, il tedesco letterario) e delle
altre lingue? Può concepirlo un cittadino svizzero? Che, magari, si imponga il
tedesco anche ai ticinesi e agli svizzeri romandi? Peraltro, sono pochissimi
gli italiani che sanno che qui nella svizzera alemanna non si parla tedesco e
che gli svizzeri alemanni non amano parlare in tedesco se non necessario
Così come voi, amici e colleghi svizzeri, non sapete tante cose
dell’Italia. Come quando qualcuno di voi non mi ha creduto (forse ancora)
quando ho detto che per tanti tempo l’Italia è stata lo stato a più bassa
natalità del mondo. Avete pensando stessi burlandomi di voi. Quante cose si
ignorano di chi vive nella porta accanto!
Noi sardi questa imposizione linguistica
– concepibile o meno che fosse – l’abbiamo dovuta subire come ‘normalità’ con
tanto di argomentazioni e motivazioni ‘pedagogiche’, ‘sociologiche’,
‘scientifiche’ elaborate ad hoc da linguisti, pedagoghi, politici prezzolati o,
come minimo, biechi ed ignoranti. Con molta normalità i maestri, professori, le
circolari ministeriali, dicevano che parlare in sardo avrebbe pregiudicato
l’apprendimento dell’italiano. Una sorta di condanna al monolinguismo
italofono.
Con mia figlia ho sempre parlato solo in
sardo, dal giorno in cui è nata, e dal giorno della sua nascita mia moglie le
ha parlato solo in schwitzertütsch, anche quando vivevamo in Italia. Nessuno
oggi potrebbe dire che lo schwitzertütsch di mia figlia non sia perfetto o che
non lo sia il suo italiano, per come può praticarlo in Svizzera; e il suo
tedesco letterario è perfetto nella media svizzera. E, ormai, orecchia
discretamente francese e inglese. Non mi sembra, quindi, che il sardo o lo
schwitzertütsch – lingue non ufficiali – abbiano compromesso le sue capacità di
apprendimento di quale che sia altra lingua.
Ma, se un genitore ad alto grado di
scolarizzazione oggi parla in sardo con un figlio, come minimo, si suppone da
parte sua una impegnativa presa di posizione ideologica, magari sofferta ecc.
Per me è stato l’istinto a decidere, perché in casa mia non si è mai usata una
parola di italiano, se non “tra virgolette”. Non voglio certo colpevolizzare
coloro che ai figli parlano in italiano: troppo complessa e ingarbugliata la
situazione sociolinguistica per esprimere giudizi ‘a metri’, come si dice. Non
finirò mai, comunque, di essere grato ai miei genitori per avere resistito alla
pressione che scuola e società ufficiale imponevano di parlare in italiano ai
propri figli. E loro sapevano parlare anche bene in italiano.
Per un genitore – dico uno che sia uno –
della Svizzera dei cantoni interni, cosiddetti ‘tedeschi’, non sarebbe
possibile parlare con il proprio figlio in altra lingua che in schwitzertütsch,
la lingua materna. Usare tra svizzeri, nella comunicazione, il tedesco – che
pure è la lingua ufficiale scritta – è semplicemente inconcepibile. Riuscite a
immaginarvi parlare con i vostri figli in tedesco o con vostra moglie svizzera
anche lei?
In questo tentativo di annientamento
dell’identità di un popolo non c`è spazio per troppo sottili distinzioni
ideologiche. Molto spesso, ancora oggi, quando si parla di autodeterminazione
di popoli, quando entra in gioco lo scontro di culture – e di economie – quando
stato e nazione non coincidono entro un territorio, quando questo territorio è
governato da un stato centralista miope, sembra che le linee tradizionali che
tracciano confini ideologici si deformino, assumano altri percorsi, vengano a
sovrapporsi, a divergere: cadono numerosi schemi o entrano in crisi. Banalizzando:
cadono le linee di demarcazione tradizionali tra destra e sinistra.
Molti hanno collaborato a tale disegno
di cancellazione dell’identità culturale e di popolo dei sardi: l’ideologia di
destra, di centro e di sinistra, spalleggiata dai servitori locali, quegli
intellettuali – così da noi vengono dipinti – uguali a cani che stanno
sotto il tavolo, aspettando che al padrone cada qualche briciola dalla tavola
imbandita. Ma, in generale, gran parte della popolazione, assuefatta alla
condizione di suddito, è rimasta passiva. Non tutti, per fortuna: non tutti
quelli di destra, non tutti quelli di centro, non tutti quelli di sinistra, non
tutti quelli non schierati da nessuna parte, si sono prestati a questo ruolo di
sudditi o di mediatori o di ruffiani.
L’ultima grande offensiva fatta – forse,
in termini di sconvolgimento reale, la più riuscita – è stata quella della
falsa industrializzazione della Sardegna, con l’insediamento di stabilimenti
industriali di un certo tipo, estremamente inquinanti e senza speranza di
innescare uno sviluppo economico. In vari territori non è più possibile la
coltivazione in quanto i terreni sono pesantemente avvelenati e i raccolti sono
proibiti; zone col più alto tasso mondiale di leucemie infantili, mortali, sono
un regalo dei processi di lavorazione di tali industrie. Questo massiccio
intervento che non ha nessun senso economico, ha avuto un senso prettamente
politico: per lo Stato è stato quello di dare un colpo, che voleva essere
mortale, alla cultura ed economia agropastorale, individuata come refrattaria a
una certa concezione di Stato; ma anche per certa ideologia che si opponeva al
potere dominante, il senso era pressoché lo stesso: „il pastore e il contadino
non sono classe operaia, sono poco permeabili alle idee del ‚progresso’, sono
difficilmente organizzabili, troppo attaccati al loro gregge, al loro piccolo
pezzo di terra; ben vengano le industrie, quali che siano, purché producano
degli operai”. Addirittura gruppi indipendentisti di sinistra, in buona parte
figli di pastori e contadini, arrivarono ad adottare come slogan “Ottana o
lotta partigiana”. Ottana è la petrolchimica nel centro della Sardegna che, a
un certo punto, si era pensato di dismettere .
Insediare un certo tipo di fabbriche,
non importa se le petrolchimiche (nel centro pastorale della Sardegna, assai
distante dai punti di attracco delle navi che trasportano il greggio, quindi in
contrasto con qualunque criterio economico) o la lavorazione dei fanghi rossi
della Bauxite a Portovesme, nel Sulcis, importata dall’Australia per estrarne
l’alluminio che poi per le lavorazioni più fini e pulite (e a maggior valore
aggiunto) viene trasportato in Italia, o altre industrie i cui processi di
lavoro determinano malattie invalidanti e mortali e, comunque, economicamente avulse
dal territorio, è stato un atto volutamente dirompente nei confronti di una
società che ancora resisteva – fosse anche per inerzia – all’italianizzazione
forzata.
Si dirà che è il tributo che bisogna
pagare al benessere. Quale benessere?
Si calcola che se i soldi pubblici
serviti per il finanziamento di tali industrie fossero stati distribuiti ai
dipendenti, questi avrebbero potuto vivere senza lavorare, con le loro
famiglie, da ricchi; l’ambiente non avrebbe sofferto e i soldi messi in circolo
avrebbero creato un qualche benessere. Si tratta di centinaia di milioni di
lire di allora per ciascun posto di lavoro; posti di lavoro rivelatisi in buona
parte improduttivi: gran parte di queste industrie oggi sono chiuse. Soldi
buttati al mare con tutte le scorie velenose e le conseguenze sociali che hanno
prodotto. Ma è cosa molto recente il rifinanziamento di alcune di queste
attività.
Oggi tutti questi attacchi, questi
interventi, si sono attenuati, hanno perso in brutalità, si è detto. Ormai la
scuola, la televisione, generazioni colpevolizzate per la propria lingua e
cultura, una malintesa ideologia progressista, hanno lavorato in profondità.
Hanno ormai scavato un solco che è un baratro, difficilmente colmabile, tra
passato e presente, tra sardi.
Oggi i ragazzi sardi, nei loro programmi
scolastici, finalmente, accanto alle piramidi egiziane, alle torri a ziqqurat
assiro babilonesi e ai templi greci, possono sentir parlare anche dei monumenti
megalitici vecchi di migliaia di anni che hanno intorno a casa: di nuraghi, di
dolmen e menhir, di complessi di grotte funerarie, di pozzi sacri, monumenti
presenti a migliaia nel territorio sardo e prima mai citati nei testi
scolastici degli studenti sardi, né di quelli italiani.
Stando così le cose, posso ragionevolmente
– meglio sarebbe dire, emozionalmente – sentirmi rappresentato dallo Stato
italiano? Fino a che punto posso sentire la mia appartenenza a uno Stato
simile?
Non sento neanche l’orgoglio
dell’eredità di Roma la quale, programmaticamente, si accanì nelle lunghe
guerre contro i sardi, e che considerò la Sardegna – so bene che ciò è nella
‘natura delle cose’ della Storia – solo come riserva di grano, di materie prime
e di schiavi, come tante altre sue provincie, secondo una logica, in fondo,
‘naturale’, non molto diversa dalla politica delle grandi potenze di oggi.
Terra dove confinare gli avversari politici condannandoli ad metalla,
cioè alla morte sicura nelle miniere. Non è curioso che anche il regime
fascista, nelle miniere di carbone in Sardegna confinasse dissenzienti,
oppositori e omosessuali? O che ancora, o fino a poco tempo fa, la Sardegna
fosse il luogo dove si inviavano anche i funzionari pubblici non desiderati,
perché inefficienti, perché lavativi, perché disonesti, ma talvolta anche perché
onesti o troppo efficienti?
Posso, certo, apprezzare il prodotto
culturale degli intellettuali che scrissero nella lingua di Roma, peraltro, in
gran parte, anch’essi appartenenti a popoli sottomessi da Roma (Stazio,
Terenzio, Sallustio, Cornelio Nepote, Livio, Virgilio, Ovidio, Livio Andronico,
Catullo, Seneca, Plinio, Lucano, Quintiliano, Marziale, Tertulliano e chissà
quanti altri). Non mi è certo simpatico Cicerone, quasi romano de Roma,
feroce nemico dei sardi.
Saltando i Vandali – pare che solo con questi
invasori in Sardegna si ebbe una discreta convivenza tra dominatori e dominati
– Bizantini, Pisani, Genovesi, Catalani, Spagnoli, Austriaci – questi ultimi
padroni per pochi anni della Sardegna che cedettero ai Savoia in cambio della
Sicilia, quasi si trattasse di fare cambio di piccoli oggetti di poco conto
come fanno i bambini tra di loro – si arriva ai Savoia, re ‘di Sardegna’, quasi
svizzeri – pensate cari amici e colleghi – e futuri re d’Italia. E sì perché la
Savoia tocca la Svizzera, e la cittadina di Carouge quasi attaccata a Ginevra
non era forse il confine della Savoia, quella cittadina con nomi di strade e
piazze che richiamano la Sardegna? Guarda un po’ che mi trovo ad essere
contento di diventare svizzero e dovere ammettere che sono scontento di uno
stato fondato da sovrani di origine svizzera!
Comunque, mentre nel Nord dell’Italia i
futuri italiani combattevano contro gli Austriaci, in Sardegna i sardi venivano
impiccati a decine, quelli che non ne volevano sapere né dei Carabinieri del Re
d’Italia né di diventare per forza Italiani e di rinunciare alle proprie leggi
consuetudinarie e scritte ormai da secoli. Che fossero delinquenti è tutto da
dimostrare come anche per quanto riguarda il brigantaggio in tutto il Sud e
Centro dell’Italia.
La storia così presentata – certamente
banalizzata, soprattutto ad usum Helvetiorum - non
è solo storia della Sardegna ma, senza allontanarci troppo, quella di molti
popoli e culture della Penisola italiana.
Per me, cittadino dello Stato italiano,
di uno Stato che non ha mai avuto la lungimiranza e capacità di valorizzare la
sua ricca, preziosissima, eterogenea e multiforme componente etnica e culturale
compresa entro i suoi burocratici confini, di uno Stato che ha condannato la
dimensione comunicativa a un monolinguismo imperfetto, per me acquisire la
cittadinanza di uno Stato plurilinguistico, multiculturale, multietnico, nel
quale questi elementi sono normale vita, esperienza e prassi quotidiana, è come
appartenere, finalmente, a una dimensione desiderata e pensata come possibile
anche per lo Stato italiano, ma mai raggiunta. Una dimensione in cui
riconoscermi. Se si vuole – devo ammettere – c’è un certo sentimento di rivalsa
nei confronti dell’Italia da parte mia. Per una parte, siamo fatti anche di
stomaco.
I cittadini svizzeri credo, mediamente,
non hanno piena coscienza di queste particolarità del loro Paese, di queste e
di altre che ne fanno un paese unico, un esempio che sarebbe un peccato se si
perdesse. Per uno svizzero – voi potrete confermare o smentire – tali
caratteristiche, tali concezioni, sono un dato acquisito dalla nascita, come i
monti, i laghi e qualunque altra cosa del paesaggio da cui sono circondati o in
cui sono avvolti. Se li sono trovati lì nascendo e non hanno dovuto fare nulla
per conquistarseli. Sono una eredità e basta. Niente, in questo senso, è da
conquistare per voi. La speranza è che sappiate conservarle come avete fatto
fino ad oggi. Fino ad oggi…
Rinnego quindi la mia italianità? E
penso che La Svizzera sia lo stato ideale?
A entrambe le domande rispondo: no di
certo!
Come posso non riconoscere che sono
anche italiano? Ho frequentato una scuola italiana, ho imparato bene la lingua
italiana, come tanti altri italiani, ho studiato la sua cultura, la sua
eccezionale letteratura e la sua grandiosa arte in genere, la sua storia del
pensiero, cose a cui hanno contribuito e contribuiscono anche sardi. E,
naturalmente, in molto di tutto ciò mi riconosco e molto di ciò ammiro. E forse
che posso dimenticare che gran parte tra i miei più cari amici sono italiani?
E grande ammirazione sento per tutti
quegli intellettuali, artisti, artigiani dell’Umanesimo e Rinascimento detti
‚italiani’ ma che erano cittadini di Firenze, di Perugia, di Venezia, di
Ferrara, di Mantova, Lombardi, (addirittura lombardo-ticinesi come Maderno,
Borromini) e altre realtà statali forti anche di uno spirito di indipendenza
culturale e di pensiero, che assicuravano, quando potevano farlo senza troppo
pericolo di incorrere in scomuniche e altre disgrazie, protezione a artisti e
pensatori altrove perseguitati per le loro idee.
E, indietro nel tempo, ammiro anche
quell’imperatore di Germania e re di Sicilia Federico II che seppe sconvolgere
certi schemi che volevano Cristiani e Mussulmani obbligati a combattersi e che,
pur fortemente amante del suo potere che difendeva contro i liberi comuni
italiani – come doveva essere nella ‘natura delle cose’ della Storia -, era un
gran protettore delle arti e degli artisti, egli stesso non disprezzabile poeta
in siciliano.
Certo non mi sento rappresentato nei
miei valori di italianità dalla Nazionale di calcio o dalla Ferrari e per come
vengono usati, o dall’inno nazionale di pessimo gusto e di pessima qualità
testuale; e provo anzi fastidio enorme per queste occasioni di identificazione
di massa che fanno dimenticare tante cose, utilizzate da giornali e TV di
stato, come droghe a buon mercato e che mutuano il loro linguaggio da quello
della guerra, salvo poi la politica – almeno quella italiana – mutuare
ampiamente il proprio linguaggio da quello del calcio. Insomma, che il
linguaggio del calcio diventi il metalinguaggio per la scienza della convivenza
della società, lo trovo il massimo del degrado politico, sociale e culturale.
Insomma mantengo il mio passaporto
italiano ma con il miraggio di un cambiamento di uno Stato che non ha mai avuto
il coraggio di ammettere la diversità e ha puntato forzatamente, non ultimo con
la violenza, a un comodo e pigro disegno di uniformità, di omogeneità che non
esiste e che è umanamente e culturalmente assurdo perseguire.
Ma non dico: “sono orgoglioso di essere
italiano”, come non dico neppure: “sono orgoglioso di essere sardo”, perché si
tratta di affermazioni assolute che prevedono un’identificazione in
toto che cancella l’individuo riducendolo a indistinta parte di una
massa, e che cancella le scelte individuali, la possibilità di critica. Posso
dire: “Sono italiano, ma prima ancora sono sardo, mi sento sardo”.
Non credo neanche che la Svizzera sia
uno stato ideale – temo anche gli sconvolgimenti, lenti o veloci che saranno,
che già si prospettano nel progressivo avvicinamento a un’integrazione europea
– ma forse sarebbe perlomeno di cattivo gusto, proprio in questo momento in cui
divento Svizzero su mia richiesta, elencare quelli che vedo come fatti
criticabili della mia seconda Patria (perché non Matria?); non
credete cari amici e colleghi?
Settembre 2004, Luzern
Aggiunta aprile 2020
Oggi scriverei questa lettera in maniera
diversa ma, fondamentalmente, tante considerazioni rimangono valide. Piuttosto,
nel frattempo ho imparato qualcosa di più sulla Svizzera. Mi limito solo a
segnalare qualche curiosa ‘co-occorrenza culturale’ o coincidenza tra Svizzera
e Sardegna che penso siano sconosciute a molti sardi e non solo, che può
incuriosire. Magari, partendo dall’esistenza di un incrocio bovino
sardo-svitto, credo avviato all’inizio del secolo scorso; o del fatto che
nell’ultima città programmata della Svizzera, nel secolo XVIII, la meravigliosa
Carouge, nella Savoia svizzera, in pratica in continuità con Ginevra, ha tra le
sue piazze principali la Place de Sardaigne; che Jean Jacques Marat, uno della
triade della rivoluzione francese con Danton e Robespierre, era anche lui uno
‘svitto-sardo’: figlio del sardo Giovanni Mara, convertito al Calvinismo
e espatriato, nacque in Svizzera da madre Svizzera, Louise Cabrol; che lo sport
nazionale della Svizzera (lo Schwingen) non è altro che la strumpa,
che in Svizzera si pratica in vere e proprie disfide, in meravigliosi
anfiteatri naturali in montagna con migliaia e migliaia di spettatori e che
riserva un premio in bestiame (bovini soprattutto) al vincitore; che nella
Valle Bregaglia c’è un paese, Bondo con la dimora di maggior prestigio che è la
casa Salis. Ma non ho mai capito, in ragione di notizie contrastanti, se si
tratti di una famiglia sarda che acquisì la nobiltà dopo il Mille in Como e da
lì passò in Svizzera, divenendo uno dei casati di maggior spicco della Svizzera
intera (oggi i discendenti sono quasi tutti in Gran Bretagna) o di una famiglia
proveniente da Salisburgo in Austria dove pure esistono i von Salis. Io ho
raccolto entrambe le versioni, la prima in Bondo stesso, da una colta signora
di Bondo, moglie di un famoso pittore, che mi assicurava di avere letto negli
archivi del Comune qualcosa riguardante la Sardegna in relazione alla famiglia
von Salis. Che dire poi della somiglianza di maschere sarde zoomorfe con le
maschere di certi luoghi della svizzera o dell’uomo col viso ricoperto di
fuliggine con una frusta di salice? Ma altre sono le co-occorrenze.
Vale la pena accennare al fatto che la
Svizzera ha tre lingue ufficiali (tedesco, francese e italiano), oltre al
romancio, lingua ‘solo’ nazionale. I cosiddetti svizzeri tedeschi però, non
parlano il tedesco ma lo schwitzertütsch, lingua germanica imparentata col
tedesco ma abbastanza distante da quello, quanto può essere il sardo
dall’italiano, e ogni località, al pari che il sardo in Sardegna, ha una
propria variante. Lo schwitzertütsch è l’unica lingua che gli svizzeri alemanni
parlano tra loro e che i tedeschi non capiscono (salvo non la imparino). Mai
uno svizzero alemanno parlerebbe in tedesco con un altro svizzero alemanno. Il
tedesco è una lingua strumentale, ufficiale, dei documenti ma non della
quotidianità. E per quanto le varianti locali siano distanti tra di loro non è
pensabile che tra svizzeri si ricorra al tedesco. Ma l’argomento merita una
trattazione articolata e attenta.
Qui, solo una considerazione. Quanto
sono più bravi dei sardi, più sensati, più naturali gli svizzeri alemanni nel
gestire lingua ufficiale e lingua materna! Forse perché non hanno mai
costituito comitati di ‘esperti’ per modelli unificati e unificanti? Forse
perché non hanno promosso il ‘glottocidio’ delle parlate locali come si fa oggi
in Sardegna? Forse perché non si fanno imporre da nessuno come devono parlare
la lingua che hanno imparato dalla madre, dal padre, dai compaesani, dalla
strada? Forse perché sono così dotati, che una varietà diversa non li spaventa
e neppure si accorgono, quasi, che l’altro parla una varietà diversa dalla sua?
Forse perché hanno come normale dimensione linguistica il multilinguismo e non
il monolinguismo cui la scuola italiana ha voluto educare e condannare l’Italia
e i sardi? Forse perché neppure uno svizzero si sognerebbe di bacchettare un
altro svizzero perché non parla come lui? Oggi, in Sardegna, i bacchettatori
che stanno riuscendo a fare quello che né il Fascismo né la scuola italiana è
riuscita a portare del tutto a termine col sardo, sono i sardi stessi, i
novelli pedagoghi che, peraltro, vogliono arrivare subito a un sardo ufficiale
già bell’e modellato. Ma con i figli, per non sbagliare, parlano in italiano,
perché, in fondo, hanno interiorizzato, forse, essi stessi, il diktat imposto.
Ma che gli Svizzeri siano più furbi dei
sardi, quanto a questo, lo mostra – dimenticavo un’altra cosa che ci unisce –
il fatto che ci hanno rifilato, via Piemonte, i nobili della Savoia, antica
regione tra Svizzera e Francia. Tuttavia, si sono liberati manu
militari anche degli Asburgo, peraltro anch’essi di origine svizzera
(del Cantone di Argau) e hanno pensato bene di stringere un patto federale tra
Cantoni, diversi ma uguali. La storia semplificata all’osso, se volete, in
soldoni è qui.
(Luzern aprile 2020)
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