Un nuovo stato sociale per uscire dalla crisi - Thomas Piketty
La crisi legata alla pandemia del covid-19 renderà più rapida la fine della globalizzazione liberista e farà emergere un nuovo modello più equo? È possibile, ma nulla è scontato. In questo momento la priorità è capire le dimensioni della crisi e fare di tutto per evitare il peggio. Ricordiamoci delle previsioni dei modelli epidemiologici. Senza un intervento, il covid-19 avrebbe potuto provocare la morte di circa quaranta milioni di persone nel mondo, di cui quattrocentomila in Francia, cioè circa lo 0,6 per cento della popolazione (nel mondo ci sono più di sette miliardi di abitanti, in Francia quasi settanta milioni). Pressappoco un anno di mortalità supplementare (in Francia ogni anno ci sono 550mila morti, nel mondo 55 milioni). In pratica questo significa che, per le regioni più colpite dal virus, nei momenti più critici il numero di bare avrebbe potuto essere tra cinque e dieci volte più alto del normale, come purtroppo è successo in alcuni focolai italiani.
La crisi legata alla pandemia del covid-19 renderà più rapida la fine della globalizzazione liberista e farà emergere un nuovo modello più equo? È possibile, ma nulla è scontato. In questo momento la priorità è capire le dimensioni della crisi e fare di tutto per evitare il peggio. Ricordiamoci delle previsioni dei modelli epidemiologici. Senza un intervento, il covid-19 avrebbe potuto provocare la morte di circa quaranta milioni di persone nel mondo, di cui quattrocentomila in Francia, cioè circa lo 0,6 per cento della popolazione (nel mondo ci sono più di sette miliardi di abitanti, in Francia quasi settanta milioni). Pressappoco un anno di mortalità supplementare (in Francia ogni anno ci sono 550mila morti, nel mondo 55 milioni). In pratica questo significa che, per le regioni più colpite dal virus, nei momenti più critici il numero di bare avrebbe potuto essere tra cinque e dieci volte più alto del normale, come purtroppo è successo in alcuni focolai italiani.
Per quanto
incerte, queste previsioni hanno convinto i governi che non si trattava di una
semplice influenza, e che bisognava far stare le persone a casa. Nessuno sa
quante saranno le perdite umane e quante avrebbero potuto essere senza il
confinamento. Gli epidemiologi sperano che il bilancio finale sia di dieci o
venti volte più contenuto rispetto alle previsioni, ma ci sono grandi
incertezze. Secondo il rapporto pubblicato dall’Imperial college di Londra il
27 marzo, solo test di massa e isolamento delle persone contagiate
permetteranno di ridurre le perdite. In altre parole, il confinamento da solo
non basterà a evitare il peggio.
Senza un
reddito minimo garantito presto i più poveri dovranno uscire di casa per
cercare lavoro, e questo rilancerà l’epidemia
L’unico
precedente storico a cui possiamo fare riferimento è quello dell’influenza
spagnola del 1918-1920, che provocò quasi cinquanta milioni di morti nel mondo,
il 2 per cento della popolazione dell’epoca. Usando i dati anagrafici, i
ricercatori hanno dimostrato che dietro la mortalità media si celavano immense
disparità: tra lo 0,5 per cento e l’1 per cento negli Stati Uniti contro il 3
per cento in Indonesia e in Sudafrica, e più del 5 per cento in India. È questo
che dovrebbe preoccuparci: la pandemia potrebbe toccare i punti più alti nei
paesi poveri, dove i sistemi sanitari non sono in grado di reggere l’urto,
tanto più dopo le politiche d’austerità imposte dall’ideologia dominante degli
ultimi decenni.
Applicare il
confinamento in sistemi fragili potrebbe rivelarsi quasi inefficace. Senza un
reddito minimo garantito presto i più poveri dovranno uscire di casa per
cercare lavoro, e questo rilancerà l’epidemia. In India il confinamento è
consistito nel cacciare dalle città i migranti e le persone provenienti dalla
campagna. Ci sono state violenze e spostamenti di massa, che potrebbero
favorire la diffusione del virus. Per evitare un’ecatombe abbiamo bisogno di
uno stato sociale, non di uno stato carcerario. Nell’urgenza le spese sociali
potranno essere finanziate con prestiti e con l’emissione di nuova moneta.
In Africa
occidentale questa è l’occasione di ripensare la nuova valuta comune e di
metterla al servizio di uno sviluppo fondato sugli investimenti nei giovani e
nelle infrastrutture, e non al servizio dei capitali dei più ricchi. Il tutto
dovrà fondarsi su un’architettura democratica più compiuta rispetto all’opacità
che vige tuttora nell’eurozona, dove ci si allieta in riunioni tra ministri
delle finanze a porte chiuse, con la stessa inefficacia dimostrata ai tempi
della crisi finanziaria.
Il nuovo
stato sociale richiederà una tassazione equa e un registro finanziario
internazionale, per obbligare i ricchi e le grandi aziende a contribuire. Il
regime attuale di libera circolazione del capitale, istituito a partire dagli
anni ottanta e novanta sotto l’influenza dei paesi ricchi (e in particolare
dell’Europa), favorisce l’evasione dei miliardari e delle multinazionali di
tutto il mondo e impedisce alle fragili strutture fiscali dei paesi poveri di
sviluppare imposte giuste, e questo rende più fragile la costruzione dello
stato.
La crisi può
essere anche l’occasione di pensare a una rendita sanitaria e scolastica minima
per tutti, finanziata da un diritto universale su una parte del gettito fiscale
a carico delle persone più ricche: grandi aziende, famiglie ad alto reddito e
grandi patrimoni (per esempio l’1 per cento più ricco del mondo). Dopo tutto il
loro benessere si basa su un sistema economico mondiale. Ci vuole quindi una
regolamentazione globale per assicurarne la sostenibilità sociale ed ecologica.
Per permettere una simile trasformazione dovremo rimettere in discussione molte cose. Per esempio, il presidente francese Emmanuel Macron e quello statunitense Donald Trump sono pronti ad annullare i regali fiscali che hanno concesso ai più ricchi all’inizio del loro mandato? La risposta dipenderà dalla mobilitazione delle opposizioni e delle maggioranze politiche. Ma una cosa è certa: i grandi sconvolgimenti politico-ideologici sono appena cominciati.
Per permettere una simile trasformazione dovremo rimettere in discussione molte cose. Per esempio, il presidente francese Emmanuel Macron e quello statunitense Donald Trump sono pronti ad annullare i regali fiscali che hanno concesso ai più ricchi all’inizio del loro mandato? La risposta dipenderà dalla mobilitazione delle opposizioni e delle maggioranze politiche. Ma una cosa è certa: i grandi sconvolgimenti politico-ideologici sono appena cominciati.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero
1354 di Internazionale
da qui
Una Commissione
Beveridge per l’Italia - Giulio Marcon
Nel 1942, durante la seconda guerra
mondiale, il governo bipartisan inglese guidato da Winston Churchill affidò a
William Beveridge – che aveva avuto incarichi di governo negli anni precedenti
– la guida di una Commissione per l’elaborazione di un piano “per le
assicurazioni sociali e i servizi assistenziali”.
Partito come un piano “tecnico”, divenne
la base politica e ideale della nascita del Welfare State in
Gran Bretagna. L’obiettivo del piano era abbattere i cinque giganti che martoriavano il paese: Miseria,
Ignoranza, Malattia, Squallore, Ozio. Da quel piano vennero le politiche
laburiste del secondo dopoguerra: il Servizio Sanitario Nazionale, un sistema
di assicurazioni sociali pubblico e obbligatorio, la previdenza pubblica, le
politiche per la piena occupazione, la nazionalizzazione dei servizi collettivi
e tanto altro.
Da una guerra mondiale la Gran Bretagna
rinacque.
Di fronte a questa tremenda crisi che
stiamo attraversando – che vedrà l’Italia con ogni probabilità affrontare un
calo del Pil di 7-8 punti e una disoccupazione in drammatica ascesa – il paese
può utilizzare questa occasione per ripartire su basi diverse: rendendo
protagoniste le politiche pubbliche, arginando il neoliberismo, lanciando un
grande piano di investimenti pubblici, mettendo al centro il lavoro e –
soprattutto – disegnando un modello di sviluppo nuovo, sostenibile, equo, di
qualità.
Più che le tante task force di tecnocrati che proliferano in questo
periodo, serve una sorta di “nuova Commissione Beveridge” capace di visione, di
progettare il futuro, con l’obiettivo di ripensare le politiche per il paese
per i prossimi anni.
Ecco perché l’appello In salute, giusta,
sostenibile. L’Italia che vogliamo che pubblichiamo sul nostro
sito – firmato da 41 personalità del mondo universitario,
della società civile, delle forze sociali ed economiche – va raccolto e
sostenuto. Attraverso l’individuazione di 10 punti fermi,
l’appello indica la giusta rotta per l’Italia che verrà: la sanità e la scuola
pubblica, il Green New Deal, una politica
industriale pubblica, la giustizia fiscale, la riduzione delle diseguaglianze,
il lavoro.
Ecco perché il sito di Sbilanciamoci!
darà spazio e sostegno a questa iniziativa, che è stata firmata anche da molti
esponenti delle associazioni aderenti alla campagna. Abbiamo bisogno, mai come
oggi, mai come in questa crisi, di un’Italia capace di futuro: un futuro che va
pensato e progettato su basi diverse. Bisogna cambiare registro, incamminarsi
su una strada nuova, quella di un’economia dell’interesse collettivo e non del
privilegio individuale; del benessere sociale e non delle diseguaglianze; che
faccia pace con il pianeta e non la guerra per le sue risorse.
Un’economia non per pochi, ma per tutti.
Tra le ricette
anti-crisi serve una patrimoniale - Michele Bavaro
Così come è avvenuto dopo la grave crisi economica del 2008, oggi ci si
interroga su come ripartire dopo lo shock causato dalla pandemia. All’epoca i
governi imboccarono la via della “socializzazione delle perdite” e i debiti
provocati dai fallimenti finanziari furono coperti dagli Stati, i quali
applicarono politiche di austerità per ridurre il debito pubblico accumulato.
Il peso della crisi ricadde così sulle fasce più vulnerabili. Oggi siamo
davanti allo stesso bivio e i governi devono scegliere chi debba sostenere i
costi della crisi. In quest’ottica, assume una grande rilevanza il tema
dell’introduzione di una tassa patrimoniale, un’imposta rivolta a ricchi e
super-ricchi. Partiamo da un dato di fatto: l’aumento delle disuguaglianze
negli ultimi decenni è ben noto, così come quello della concentrazione della
ricchezza. Secondo il Rapporto 2020 di Oxfam i
22 uomini più ricchi del pianeta possiedono una ricchezza superiore a quella di
tutte le donne in Africa.
Negli ultimi giorni è apparsa in Italia una proposta del Partito
Democratico definita “contributo di solidarietà”, che prevede un incremento
della progressività dell’aliquota marginale dell’Irpef. La soglia sarebbe
fissata a 80mila euro e poi ci sarebbe un’ulteriore progressività che permetterebbe
di incassare circa 1,25 miliardi di euro all’anno. Tralasciando l’arbitrarietà
della soglia stabilita, bisogna notare che l’Irpef cattura principalmente i
redditi da lavoro dipendente e da pensione (che rappresentano circa l’80% della
base imponibile), per cui non è appropriato riferirsi a questa proposta del Pd
come a una vera e propria tassa “patrimoniale”. Inoltre, le tasse patrimoniali
sono pagate annualmente e non una tantum e si
possono differenziare a seconda della base imponibile.
Il concetto di patrimonio è infatti onnicomprensivo e comprende forme di
ricchezza immobiliare, mobiliare e finanziaria. Un’altra grande categoria di
tasse patrimoniali è quella sugli immobili: in Italia un esempio è l’Imu, in
cui il livello di progressività, nonostante l’esenzione per la prima casa, non
è elevato. A queste si aggiungono le tasse che possono essere imposte sulle
transazioni di ricchezza. Un esempio in tal senso è la tassa sulle transazioni
finanziarie conosciuta anche come Tobin tax,
introdotta in Italia nel 2013, che garantisce ogni anno circa 400 milioni di
euro di introiti. Un altro esempio è la transazione intergenerazionale della
ricchezza, in altre parole la trasmissione ereditaria. In Italia su questo tipo
di tassazione siamo molto indietro: l’aliquota massima della tassa di
successione è al 4%, tra le più basse dei Paesi industrializzati (su questo
punto si veda qui).
Per quanto riguarda invece le tasse sul patrimonio, alcune tra le proposte
più popolari provengono dagli Stati Uniti. Ben due ex candidati democratici
alla nomination per la Presidenza presentavano una patrimoniale nel loro
programma, Elizabeth Warren e Bernie Sanders. Quella di Sanders è una proposta
radicale: far pagare l’1% a chi possiede più di 32 milioni di dollari di
patrimonio, con un’aliquota crescente fino all’8% per chi possiede più di 10
miliardi di dollari. Secondo le stime tratte dal sito di Sanders, la misura
consentirebbe di accumulare oltre 4.000 miliardi di dollari in 10 anni,
riducendo in modo sostanziale la concentrazione della ricchezza negli Stati
Uniti. La proposta di Elizabeth Warren consiste invece nell’imporre una tassa
del 6% sul patrimonio eccedente il miliardo di dollari. Come verificato
utilizzando i dati della classifica di
Forbes, se in Italia applicassimo questa misura si potrebbe
generare un gettito di circa sei miliardi e mezzo di euro colpendo solo 33
persone o famiglie. Le proposte di Sanders e Warren si ispirano peraltro a
quelle di Thomas Piketty nel suo Il Capitale nel XXI secolo.
Una tassa simile è stata implementata in Francia fino al 2018. Conosciuta
come ISF, Impôt de Solidarité sur la Fortune,
è stata sostituita dal governo Macron con un’imposta valida solo per la
ricchezza immobiliare. La struttura dell’imposta era complessa e si applicava a
patrimoni superiori agli 800mila euro, ma con aliquote marginali molto basse
(tra lo 0,5 e l’1,5%), garantendo all’incirca 4-5 miliardi all’anno. Una simulazione effettuata con i
dati italiani della Banca d’Italia mostra come in Italia
un’imposta così strutturata assicurerebbe un gettito di circa 4 miliardi all’anno.
Una misura analoga, con aliquote molto basse, è tuttora in vigore anche in
Spagna (Impuesta sobre el patrimonio).
D’altronde, questo tipo di tassazione sul patrimonio o sulla ricchezza
presenta un triplice problema di implementazione. In primo luogo, vi è la
difficoltà di conoscere in modo dettagliato l’ammontare e la composizione delle
grandi ricchezze: tutto ciò come conseguenza di un trentennio di politiche
neoliberiste che hanno smantellato le capacità statali di controllare queste
dinamiche all’estremo della distribuzione. Bernie Sanders, non a caso,
sottolinea nel suo programma l’importanza del rafforzamento dell’IRS (l’Agenzia
delle Entrate statunitense) come precondizione per un’applicazione efficace. La
stessa cosa vale ovviamente per l’Italia e gli altri paesi. E anche Piketty
sostiene nel suo libro sopra citato che la prima utilità di questa tassa
sarebbe proprio quella di produrre conoscenze e informazioni su patrimoni e
ricchezze.
Il secondo, e forse più gettonato, tra i punti critici di questo tipo di
imposta è legato alla libertà di movimento dei capitali: una tassa del genere
avrebbe più costi che benefici, in quanto farebbe scappare all’estero i grandi
capitalisti. Infine, questa imposizione fiscale sarebbe considerata ingiusta e
iniqua in quanto viene tassato annualmente uno stock (il patrimonio) e non un
flusso. Detto questo[1],
occorre sfatare due miti:
1. Qualsiasi tassa è difficile da far pagare, che colpisca uno stock oppure
un flusso. Ma la difficoltà nel far rispettare il regolare pagamento dei
tributi non può mai essere un elemento di dissuasione per l’imposizione di una
fiscalità.
2. La libertà di movimento dei capitali può essere arginata. Ci sono modi e
metodi per limitarla. L’architettura istituzionale dell’Unione Europea, però,
non facilita il compito. Certamente questo limite spinge a internazionalizzare
la mobilitazione per introdurre una tassa o una politica simile, dal momento
che una patrimoniale introdotta in più paesi moltiplicherebbe la sua efficacia.
Per quanto riguarda l’Italia, il problema dei dati a disposizione e di come
definire base imponibile e aliquote non può essere di certo trascurato, anche
se – come si è visto – ci sono vari esempi da cui prendere spunto. Inoltre,
nell’ottica di una necessaria riorganizzazione fiscale, a una tassa sul
patrimonio se ne possono e devono affiancare altre, come l’incremento della
progressività delle tasse sul reddito e sugli immobili, oppure una web tax per intercettare i profitti di chi si sta
avvantaggiando dalla crisi attuale: le grandi piattaforme ICT e i grandi player del web.
Quello che andrebbe tuttavia sottolineato è l’intento con cui va disegnata
la misura. Un’imposta patrimoniale non può essere pensata e costruita alla
stregua di una colletta filantropica tra i grandi industriali e capitalisti del
Paese per finanziare alcune opere pubbliche. Essa va interpretata piuttosto nel
segno di una politica fortemente redistributiva che miri a ridurre (se non
azzerare) la concentrazione dei grandi capitali. Inserire un’aliquota elevata
su determinate ricchezze deve avere l’effetto a lungo termine di erodere quelle
stesse ricchezze, riducendo via via gli introiti della tassa. Quindi,
un’efficace imposta patrimoniale è una tassa a tempo con cui si prevede che
entro un certo periodo si vada assottigliando il numero di coloro che sono
chiamati a pagarla. L’obiettivo dovrebbe essere eradicare i super-privilegiati,
partendo dal presupposto che con una ricchezza redistribuita in più mani è la
società intera a beneficiarne e a poter raggiungere risultati migliori.
[1] Per una trattazione più approfondita sul tema si rimanda a questa
pubblicazione dell’Ocse.
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