Per una
scuola libera e viva (dentro e fuori le mura) - Giovanni Carosotti, Rossella
Latempa, Renata Puleo, Andrea Cerroni, Gianni Vacchelli, Ivan Cervesato,
Vittorio Perego
Premessa
Lungi
dall’essere un’opportunità per cambiare paradigma, come alcuni sembrano
suggerire, la Didattica a Distanza è solo la risposta immediata, necessaria e
temporanea, ad una crisi sanitaria senza precedenti.
Non una
scelta, ma uno sforzo collettivo; non un destino, ma una didattica
dell’emergenza, generosamente disomogenea, a tratti improvvisata agli inizi,
progressivamente più condivisa e organizzata col trascorrere delle settimane.
Una
manifestazione di deontologia professionale, nel rispetto del compito educativo
che la nostra Costituzione attribuisce agli insegnanti e, con modalità e
profili diversi, alle figure genitoriali, all’intero corpo sociale. Una
garanzia per il diritto-dovere all’istruzione, la cui tutela è ancor più
necessaria – oggi – a scuola sospesa, costretta al solo spazio virtuale. Anche
perché la tecnologia è una “cultura”, che non è in alcun modo neutra, ma che
nasce situata e “situa” chi la usa. Come dimenticare poi lo stretto e ormai
soffocante legame tra tecnologia ed economicizzazione/aziendalizzazione della
scuola, nel regno della quantificazione e della misurabilità?
Nell’ipotesi
di un ritorno nelle classi controllato, da parte di circa 8 milioni di studenti
e quasi un milione di insegnanti, e nell’attesa di condividere, non appena
possibile, luoghi e spazi fisici in presenza, pensiamo valga la pena sottolineare
alcuni aspetti che fanno sì che la scuola possa essere ancora libera, viva e
significativa: dentro e fuori le mura.
- Niente Linee Guida, nessuna
standardizzazione
Il fascino
per Linee Guida e curricoli chiavi in mano, per la didattica a distanza e non
solo, distinti per ordini e discipline, non ha cessato di sedurre le politiche
scolastiche degli ultimi decenni. Efficientamento e standardizzazione,
monitoraggio e rendicontazione, appaiono mascherati dalla retorica
dell’inclusione, dell’equità di accesso e da presunte opportunità alla pari.
Una visione povera e al ribasso, priva di qualsiasi profondità politica e
civile. Non accettiamo l’idea che l’emergenza possa trasformarsi in
un’occasione da impiegare con destrezza, per realizzare progetti di riforma,
vecchi o nuovi. Essi devono essere frutto di ampia dialettica politica e non
scelta tecnica dell’ennesima task force di esperti.
La scuola
non ha bisogno di alcuna pedagogia della distanza. Il suo compito è scritto
nella Costituzione, la sua organizzazione nei Decreti Delegati, il suo sfondo
culturale nelle Indicazioni Nazionali: prima, durante e dopo l’emergenza.
Non serve
indicare metodi, tipo flipped classroom, o modelli di elearning, fornire
elenchi di Unità di Apprendimento a Distanza. Nessuna metodologia
preferenziale può surrogare la scuola viva che nasce dall’incontro e dal
contesto, soprattutto per gli studenti più fragili. L’apprendimento di saperi è
frutto di relazioni ed esperienza; la qualità emergente, tipica del legame
sistemico, consente la continua elaborazione dei saperi, il loro uso come
chiavi di lettura critica del mondo. Standardizzare l’apprendimento non
salvaguarda dalle iniquità; le disuguaglianze non si annullano con lo stesso
insegnante on line. La possibilità per tutti di accesso alla rete e il possesso
di dispositivi digitali non deve avere lo scopo di uniformare l’insegnamento e
di produrre conformismo e omologazione, ma rappresenta un diritto alla
fruizione di un bene collettivo (Internet Bill of Rights – Commissione S. Rodotà
2015).
- La
libertà di insegnamento come garanzia di ricchezza
Il libero
confronto, la pluralità di mezzi, strumenti e scambi, la ricchezza di opzioni e
approcci possono rendere la didattica a distanza, nonostante le condizioni
inedite e avverse, un’esperienza arricchente e significativa. I supporti
rassicuranti e orientanti, formulati dalle migliori menti didattiche del Paese
– i Content Manager – gestite dagli efficienti Instructional Designer, non sono
che una versione rilucidata di pratiche di training e formazione aziendale, una
trasmissione apodittica, in contrasto con l’art.33 della nostra Costituzione.
La libertà intellettuale, la possibilità di scegliere contenuti e metodi sono
garanzie di pluralismo e di sviluppo di una coscienza civile critica e capace
di decifrare in maniera libera la complessa realtà che stiamo vivendo.
- In presenza e a distanza
Esistono
pratiche e discipline in cui è insostituibile la presenza, ad esempio i
laboratori previsti per alcuni ordini di scuola, le attività sperimentali (lo
stesso potremmo dire per i tirocini in classe per gli insegnanti in anno di
prova), ma è altrettanto vero che ogni sapere – dalla filosofia alla
progettazione artistica o tecnica – necessita di essere costruito attraverso un
confronto vivo e articolato, con attività e materiali da sviluppare e su
cui far ragionare assieme mente-mano. L’insegnante non è un mero supporto
ostensivo-assistenziale e la relazione educativa è una relazione comunicativa
complessa e coinvolgente; non uno scambio di bit da una stazione di controllo
all’altra.
- La formazione
degli insegnanti
Secondo
alcuni, sarebbe oggi fondamentale fornire ai docenti una formazione focalizzata
sulla Didattica a Distanza. Questo breve periodo ha tuttavia mostrato, da parte
di una categoria per ragioni anagrafiche non nativa digitale, una grande
capacità di adattamento all’emergenza. La proposta di formazione standardizzata
e generalizzata è una falsa necessità, mentre denota una volontà di
disciplinamento. Buone pratiche didattiche, altrettanto buone relazioni con gli
alunni, sono messe in atto da coloro che già hanno lavorato con dedizione e uno
stile docente coltivato nella scuola in presenza. Spesso – è stato fatto notare
– proprio coloro che hanno praticato una didattica della distanza già nelle
loro classi, trovano rifugio nella standardizzazione dei formati proposti dal
web. Pensiamo che mai come in questa fase occorra ridefinire i compiti di
istituto dell’INDIRE. Si tratta non tanto di spalleggiare l’innovazione
didattica (vera o presunta tale) tipica da questa fase eccezionale, ma di
offrire ai docenti – come proposta e non come obbligo formativo – una banca di
esperienze di lavoro, con una inedita capacità di raccogliere e mettere a
disposizione quello che migliaia di insegnanti e di pedagogisti hanno costruito
negli ultimi cinquanta anni. Azzardiamo: comprese le esperienze non
replicabili, e quelle di cui si possono oggi intravvedere le aporie: la
formazione, come ogni altro apprendimento, si fa anche a partire dalla
riconsiderazione degli errori.
- Sulla valutazione
Crediamo non
più derogabile una moratoria sui dispositivi di valutazione, nell’attesa di un
dibattito e di un ripensamento dell’intero Sistema Nazionale di Valutazione;
riconsiderazione già più volte – ben prima di questa fase emergenziale –
sollecitata dalle organizzazioni sindacali di categoria, da associazioni di
insegnanti, dalle famiglie, dalle unioni degli studenti, dai pedagogisti più
avvertiti. Tale sospensione si rende oggi assolutamente necessaria.
La condizione
di emergenza ci ha ricordato una volta di più che ogni didattica, in presenza o
a distanza, è sempre confutabile, legata ai contesti, alla pragmatica della
comunicazione. Nessuna Unità Didattica, nemmeno la più rigorosa nell’impianto,
sarà mai uguale alla sua replica.
Eppure,
anche a distanza, è proseguita la ricerca spasmodica di una valutazione
quantitativa, la volontà di perseguire a tutti i costi una misurazione in
termini numerici del rendimento: l’attribuzione dei voti, chi merita 5 avrà 5,
dunque delle verifiche, e della procedura degli esami, seri e rigorosi (L.
Azzolina, Ministra). Con il rischio di incorrere nella farsa della promozione
per tutti ma scalettata con voti, ricavati in media fra un primo quadrimestre
“normale” e un secondo emergenziale. L’aspetto formale ha continuato ad essere
prevalente, snaturando il concetto stesso di valutazione, con la stessa logica
burocratica, contrassegnata da presunte efficienza e serietà, che prescrive
l’espletamento del programma.
Solo se del
processo di valutazione sarà privilegiato l’aspetto formativo, articolato sulla
discussione dell’errore, verranno ad essere superflui molti dispositivi pensati
dalla più recente normativa sulla valutazione (Regolamento 80/2013 e Dlgs
62/2017): rapporti, piani di miglioramento, confronti fra scuole a carattere
competitivo, improbabili calcoli sul valore aggiunto.
Spariti in
un soffio solo test INVALSI, addestramenti e Alternanza Scuola Lavoro
(PCTO), usiamo questa parentesi, breve o lunga che sia, per alimentare il desiderio
della scuola che vogliamo, proprio a partire da quelle esperienze a nostro
giudizio poco virtuose.
Proposte
Nel merito,
formuliamo alcune proposte, con diverso grado di fattibilità per ordine di
scuola, considerando che esiste una forte limitazione, in quelle già altrove
formulate, per alcune fasce di alunni. Pensiamo ai più piccoli, che frequentano
la scuola dell’infanzia e almeno i primi tre anni della primaria, ai minori
sotto protezione delle norme per l’inclusione a causa di problematiche di diverso
tipo (fisico, cognitivo, relazionale, bisognosi di assistenza alla
comunicazione in LIS e in Braille). Così come occorre pensare a forme di
frequenza in sicurezza per le bambine e i bambini della fascia 0/3 (livello
essenziale non solo per ragioni assistenziali, di welfare, ma per motivazioni
educative, pedagogiche). In questi casi serve lo slancio congiunto di
intelligenze e di collaborazione fra soggetti istituzionali, un notevole sforzo
economico e organizzativo di supporto al lavoro di cura rivolto alle figure
genitoriali.
- Classi con numero
ridotto di alunni(10-15)
- Investimentonell’organico dei docenti:
un’azione di programmazione consapevole di duplicazione degli organici
(potenziamento del tempo pieno nella scuola dell’infanzia e primaria)
mediante assunzioni, senza ricorso ad un precariato stremato da anni di
incertezza
- Potenziamento delle reti
civiche di connettività
- Insegnanti in aula(dal
primo giorno di scuola) dotati di tutti i dispositivi sanitari adeguati,
con buona strumentazione informatica e altri usuali sussidi didattici.
- Impiego di locali
inutilizzati(caserme, fabbriche dismesse, etc), coinvolgimento
degli enti locali per l’individuazione di spazi e risorse
(servizi educativi, mobilità), delle realtà associative.
- Adeguamento agli standard
di sicurezza, agibilità e abitabilità degli edifici scolastici,
soprattutto degli spazi esterni, guadagnandone di nuovi, ove possibile
(cortili, aree limitrofe, campi gioco anche di altre pertinenze come in
progetti avviati nel passato di uso di spazi condominiali vicini alla
scuola)
- Aperture straordinariedi biblioteche, luoghi di aggregazione,
teatri, spazi di quartiere, i cui ambienti e materiali possano essere
fruiti con turnazioni e in sicurezza.
Infine,
nell’attesa di un dibattito ampio con tutte le parti sociali, ribadiamo: moratoria
sui dispositivi di valutazione vigenti.
Conclusioni
Se
opportunità deve essere, questa emergenza dovrà esserlo per tenere bene in
mente cosa è essenziale, cosa è superfluo, cosa è dannoso per il futuro: non
rimpiangiamo astrattamente la scuola di ieri – di cui ben conosciamo i difetti
dovuti a anni e anni di assenza di buone politiche e di un succedersi di
riforme e controriforme – né prefiguriamo la scuola digitale di domani (ogni
studente, un device; ogni istituto, un cloud). Eppure, è proprio la scuola del
pluralismo e dei Decreti Delegati, nonostante tutti i tentativi di
delegittimazione subiti nel corso di oltre 30 anni, che sta mostrando tutte le
sue risorse intellettuali e professionali nella partita dell’emergenza.
Solo una
scuola libera è una scuola viva.
INVALSI,
Fase 2: vergogna! - Anna Angelucci
Nella fase
1, che dura da anni e che ci ammorba ben prima del coronavirus, l’Invalsi ha
lavorato alacremente per inoculare nella scuola il veleno della misurazione,
delle competenze, dell’oggettività di fantomatici apprendimenti degli studenti
da testare con il suo fastidiosissimo termometro, ancorché spuntato. Nessuna
‘falsificazione’ di popperiana memoria, quantunque prevista e necessaria per la
verifica di qualsivoglia teoria scientifica, ha potuto neppure incrinare il suo
principio di veridizione, assurto metafisicamente a dogma dai tronfi sacerdoti
dell’Istituto, da generazioni di politici-lacchè di destra, sinistra e centro e
da inossidabili burocrati ministeriali, tutti fedelmente preposti al rito vuoto
della valutazione del sistema d’istruzione. Che trovava in sé, a prescindere
dall’infondatezza e dall’autoreferenzialità degli strumenti messi in campo per
misurare tutto e non modificare nulla, la sua soddisfatta ragion d’essere.
Tanto capillare – e costosa – quanto inutile.
Nel
frattempo, la scuola (che nasceva, sarebbe bene ricordarlo urbi et orbi,
come istituzione della Repubblica costituzionalmente preposta a sanare le
differenze socio-culturali di partenza), sempre più trasformata in ente locale
erogatore di servizi on demand, gestita da un sistema misto
pubblico-privato guidato da incapaci staff dirigenziali, subiva le pressioni
del mondo produttivo 4.0[1] che la voleva piegata alla mera
formazione di lavoratori operativamente competenti ma cerebralmente incapienti,
abili nel fare rapidi copia-incolla ma privi di cultura e capacità di
comprensione di sé e del mondo. L’uso pervasivo dei test standardizzati a
crocette inaugurato dall’Invalsi si è travasato rapidamente nelle pratiche
didattiche delle scuole, realizzando da valle quella torsione
pedagogica a monte che ha trasformato l’educazione in
addestramento, sotto lo sguardo attonito di chi, sempre più solo e sempre più
marginalizzato, ha continuato a difendere i percorsi lunghi, lenti, faticosi,
soggettivi, situati, personali e incorporati (e dunque
soggettivamente valutabili) dell’acquisizione della conoscenza e dei
saperi. Vox clamantis in deserto[2].
Poi è
arrivato il coronavirus. Che, nella crisi sanitaria, ha imposto di necessità il
trasloco armi e bagagli della scuola in presenza nella distanza di 8 milioni di
case, tante quanti sono i nostri studenti. Mentre i docenti si arrabattavano con
gli alunni non solo per svolgere ma soprattutto per dare senso a
questa didattica dell’emergenza, la ministra esternava sui
media improbabili soluzioni concrete puntualmente rimangiate,
i suoi fidi collaboratori poetavano su circolari scritte in versi burocratici
suggerimenti didattici grondanti di retorica bonomia, e infine si insediava
anche al MIUR una bella task force guidata dall’ennesimo economista preposta a
riorganizzare la scuola dell’era Covid a suon di investimenti ultramilionari
non per la necessaria e indifferibile edilizia scolastica ecosostenibile ma per
comprare computer dalle multinazionali e incrementare le connessioni della
rete. La scuola 4.0 immaginata come una mega infrastruttura digitale.
Ci aspettavamo che i signori
Invalsi, un ente preposto e finanziato anche per la ricerca educativa, ci
dessero nel frattempo qualche utile suggerimento. Che la presidente
dell’Invalsi, ordinaria di Psicologia dello sviluppo, aiutasse maestre,
studenti e famiglie nella gestione delicata di una didattica a distanza
rocambolescamente e angosciosamente adottata, giorno dopo giorno, nella paura,
nella preoccupazione, nelle difficoltà economiche, nel divario sociale, nel
contesto politico patogeno, ben più del virus, che con le sue scelte scellerate
passate e presenti sta compromettendo drammaticamente la possibilità di futuro
di 60 milioni di italiani.
Niente di
tutto questo. Due mesi di assordante silenzio, rotto solo adesso dall’improvvida notizia che per settembre
l’Istituto ha messo a punto la sua bella, stra-ordinaria, ennesima batteria di
test per misurare le “competenze apprese durante il periodo della
didattica a distanza”. Senza minimamente intervenire, neppure una sola
volta, nel merito della didattica a distanza svolta in condizioni d’emergenza,
delle sue implicazioni, dei suoi correlati cognitivi e metacognitivi, dei suoi
risvolti scientifici, della complessità dei suoi aspetti teoretici e del suo
svolgimento pratico, l’Istituto ha alacremente lavorato per noi. Nulla di
obbligatorio e calendarizzato, per carità. Il direttore generale Paolo Mazzoli,
che quando era un semplice dirigente scolastico e prima ancora maestro
elementare, pensava che “fare scienze vuol dire aiutare i bambini a guardare
con curiosità i fatti del mondo”[3], ci tranquillizza dicendo che
queste prove “non sono obbligatorie e non hanno alcun significato valutativo,
ma vogliono essere una misurazione per scopi di progettazione didattica”,
specificando altresì che Invalsi, servizievolmente – bontà sua – offre a scuole
e docenti la possibilità di una “valutazione attendibile”[4].
Perché,
quella che i docenti stanno implementando in queste settimane di impegno e di
fatica, non lo è? Il coronavirus è forse l’occasione ghiotta per commissariare
definitivamente gli insegnanti? L’occasione ghiotta per distruggere il poco che
resta della scuola dopo la truffa della “buona scuola”; dopo la torsione
pedagogica delle ‘competenze trasversali’ e dello ‘spirito di
imprenditorialità’; dopo l’istituzione di un Sistema Nazionale di Valutazione
che ha frullato e impastato per anni numeri, dati e statistiche senza produrre
un solo effetto migliorativo sulla scuola italiana, piuttosto peggiorandolo;
dopo la trasformazione burocratica della disabilità in BES; dopo
l’insufflamento nelle classi pollaio che oggi si pensa di risolvere con gli
schermi pollaio; dopo che la sopravvivenza fisica è garantita alle sole figure
apicali del Ministero e dell’Invalsi lautamente remunerate, mentre 8 milioni di
studenti e 800.000 docenti stanno per scomparire nel web senza che nessuno si
ponga il problema delle implicazioni psicologiche, antropologiche, pedagogiche,
professionali, o più semplicemente umane, che questo potrà comportare?
A fronte di
un quadro tanto devastato che anche un cieco ormai sarebbe in grado di vedere,
quello che conta davvero è solo produrre in silenzio l’ennesima batteria di
test attendibili.
Perché in
questo momento non mi viene in mente nessun’altra parola se non VERGOGNA?
[1] Anna Angelucci, Giuseppe Aragno, Le
mani sulla scuola. La crisi della libertà di insegnare e di imparare,
Castelvecchi, Roma, 2020
[2] Si leggano gli articoli sulla scuola di
Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Renata Puleo et al. pubblicati sul sito
di Roars
[3] N. Lanciano, M.Iacona, F. Fedele (a cura
di), L’educazione scientifica nelle scuole dei piccoli, vol.1,
Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2008, p.28
[4] Alex Corlazzoli, “Coronavirus,
la proposta Invalsi: “Test per misurare le competenze apprese dagli studenti
durante i mesi di didattica a distanza”, Il Fatto Quohttps://www.roars.it/online/invalsi-fase-2-vergogna/
tidiano, 29
aprile 2020
Perché non
mi associo all’entusiasmo sulla didattica a distanza - Teodoro Margarita
Collegi
docenti, consigli di classe, opinionisti, colleghi esimi tutti entusiasti del
nuovo verbo magico, il mantra che sta pervadendo la scuola italiana in
questi tempi di coronavirus. È un peana immenso, una gran celebrazione di
questi nuovi strumenti telematici.
Faccio
l’insegnante da circa trent’anni. Soprattutto, lo faccio alle scuole medie,
ovvero le scuole di tutti, quelle dell’obbligo, ossia la vera “trincea” la
scuola che prende in carico i figlie e le figlie di tutti. Non mi associo al
generale entusiasmo per queste nuove modalità educative. Soprattutto non mi
persuadono alla scuola dell’obbligo e per i minori. Si enfatizza la scuola come
“comunità educante”, e lo è, lo deve essere. Un insegnante dovrebbe essere una
figura di riferimento sociale importante nella sua comunità. Certo, la
precarizzazione, i tagli lineari perseguiti dai governi in questi ultimi dieci
anni, così come nella Sanità, non hanno certo contribuito a costruire
questa, adesso tanto invocata, “comunità educante” per non tacere del vero e
proprio fango a palate gettato da capi del governo come Berlusconi contro gli
insegnanti, dell’opera di demolizione capillare della figura del professore,
ripresa ed enfatizzata dai social. Gli insegnanti sbattuti in prima pagina in
ogni occasione possibile come mostri. Il risultato è stato il venir fuori di
una guerra tra poveri sfociata in attacchi talvolta anche fisici, contro di
essi. Tutto questo fango sollevato per giustificare i tagli, tagli di
insegnanti, tagli pesantissimi al bilancio, dieci miliardi di euro. Tagli e
contemporaneamente, sussidi e riconoscimenti sempre più tangibili alla scuola
privata in barba al sacrosanto principio costituzionale dell’insegnamento
privato garantito ma “non a carico dello Stato”. Adesso su piattaforme private
improvvisate, italiane o americane, si è spostata la didattica. Gli studi più
seri indicano il gap tra diverse Italie: da regioni dove la didattica a
distanza raggiunge tutti o quasi (e quel “quasi” non è trascurabile) a regioni
dove neppure il segnale arriva dappertutto. Noi non siamo insegnanti
lavoranti in proprio, facciamo parte di un sistema educativo nazionale. Un sistema
educativo nazionale che ha i propri pilastri nei valori unificanti e tra
questi, soprattutto, c’è il fare lezione in aule più o meno bene illuminate e
spaziose, in scuole più o meno attrezzate ma scuole dove la vigilanza è
garantita dalla presenza fisica degli insegnanti che non solo insegnano ma
osservano, annusano l’aria, capiscono i propri ragazzi e hanno il dovere di
segnalare le anomalie o quanto possa turbare la vita non solo scolastica degli
alunni. Con la didattica a distanza tutto ciò viene irrimediabilmente
meno.
Questa
pandemia con i suoi lutti e le sue sofferenze, ci ha colto tutti di sorpresa
anche nel mondo della scuola. Giustamente sospese le attività didattiche nelle
aule, per limitare il contagio, si lancia questo mai tentato, collaudato prima,
esperimento di massa di didattica a distanza. Con poca formazione, senza una
necessaria ed esaustiva conoscenza di tutte le conseguenze, positive e
negative, senza nessuna precauzione, senza riflessioni serie sull’impatto che
questo ha sulla salute psicofisica degli alunni e degli insegnanti, si procede.
Eppure, sono
infinite le obiezioni, e pesantissime, che si possono e si devono muovere a
questa fattispecie di didattica, in special modo se rivolta a minori. Già
vedevamo i nostri alunni in preda agli smartphone, i cellulari o telefonini,
non è necessario esibire gli infiniti studi sulla deprivazione sensoriale che
questi comportano usati in maniera compulsiva. Dai videogiochi alle chat, dalle
piattaforme social come Instagram o Tik Tok, lamentiamo che l’attenzione dei
nostri ragazzi alle lezioni è sempre ridotta, orientare la propria vista su uno
schermo, perdere progressivamente la visione a trecentosessanta gradi della
realtà, spossessa e depriva, la messe di lavori che attestano l’insorgere di
depressione e ansia, l’incapacità di articolare un linguaggio, il rinchiudersi
in se stessi e quindi, da parte della scuola il dovere e la necessità di
“aprire gli occhi e il cuore” dei nostri ragazzi verso il mondo reale, non è
messo in discussione da una didattica a distanza praticata acriticamente?
Questa
metodologia è solo un surrogato di scuola. Nessuna “comunità educante” potrà
mai prescindere dalla viva e vigile dell’insegnante. L’insegnante più
sprovveduto, quello meno preparato, saprà pur capire perché un bambino appare
demotivato, perché arriva in classe con gli occhi gonfi o indossa sempre gli
stessi abiti e magari non proprio lindi. Un senso del fare scuola sta in
questo, sta nel proporre non solamente una “didattica” ma nel porgere occasione
a tutti, ma proprio a tutti, per esempio, una visita a un museo, a un
luogo d’arte o anche una gita in una riserva naturale. Quante famiglie mai e
poi mai, per mancanza di mezzi o per disinteresse totale, non si danno o non
possono neppure permettersi simili, basilari cose? La scuola è il presidio
della cultura della nazione. La scuola è la sede naturale dove crescere
generazioni preparate, consapevoli, coscienti del proprio dovere di aumentare
tutte le competenze personali, non solo quelle di tipo tecnico. Sapere apprezzare
un quadro, avere sguardi per un paesaggio, riconoscere la poesia e la
delicatezza di un linguaggio più ricco dalla sconcezza di tanto latrare da
social: questa una missione che la scuola italiana compie. E che ogni
insegnante ma proprio tutti, compiono.
A distanza
tutto questo non esiste. A distanza tutto questo non esiste e non è possibile.
Nella mia
scuola, molto a malincuore, dopo oltre trent’anni, è stato annullato un viaggio
in Francia, un gemellaggio che ha una tradizione consolidata. La mia didattica
quotidiana, insegno lingua francese, prevede, naturalmente, nella descrizione
di un paese transalpino, quella di uno esistente davvero, ci siamo stati decine
di volte, relazioni personali, amicizie, accoglienza sono scaturite, persino
occasioni di lavoro, affetti, in seguito a questi viaggi.
Non abbiamo
neppure avuto il tempo di riflettere sul senso di questa perdita.
E non è solo
questo. Per effettuare la didattica a distanza vengono adottate piattaforme le
più disparate. Sapendo che il responsabile per la privacy dello Stato tedesco
dell’Assia, la regione di Francoforte, per intenderci, grande ed equivalente
alla Lombardia, ha espressamente vietato e bandito ogni uso nelle proprie
scuole di Michael Ronellenfitsch Open Office 365 e il sistema Windows 10,
l’accusa, provata, era che questo sistema violava le norme europee e dell’Assia
sulla riservatezza dei dati che in base al Cloud Act di Donald Trump, Windows
puramente e semplicemente inviava negli Stati Uniti: detto semplicemente, le
scuole che usavano quel sistema erano profilate, spiate, una messe di
dati sensibili regalati agli istituti americani. Noi siamo tenuti alla
riservatezza, siamo tenuti alla vigilanza più scrupolosa su questi dati,
adoperiamo, per esempio, siamo tenuti a farlo, sistemi di mail criptati ed ogni
volta dobbiamo ricevere un codice apposito quando comunichiamo dati sensibili
su alunni diversamente abili. Allora, non si pone la necessità assoluta di una
piattaforma nazionale garantita dallo Stato italiano e non da Google, Microsoft
o chissà da chi, ente multinazionale privato che dei nostri dati può fare e fa
quello che vuole ai fini di una profilazione di massa di ogni tendenza,
pensiero, espressione di problematicità nella nostra scuola? Gli
insegnanti non possono e né devono tacere su queste cose.
Se noi
docenti non siamo l’espressione più viva e consapevole dei presupposti
ontologici del nostro fare scuola anche a distanza, non siamo docenti. Lo Stato
deve provvedere all’adozione di una propria piattaforma per la didattica a
distanza, questo è il minimo dovuto, per garantire la sovranità nella gestione
dei dati. Non è possibile che un insegnante, in buona fede, lavori su
piattaforme telematiche, Google, per esempio, col dubbio di essere spiato,
profilato, sorvegliato. Se qualcuno ha la legittimità, in base a presupposti
legali incontrovertibili e dimostrabili in sede legale, questi è lo Stato. Solo
lo Stato, nelle vesti del Ministero della pubblica istruzione e nessun altro.
Esistono
altri pericoli, e parlo di minacce ai diritti del lavoratore, a proposito di
“didattica a distanza”. Se un insegnante si rompe una gamba, e quindi sta a
casa, sarà tenuto, per il futuro, a lavorare comunque a distanza? Una domanda
non peregrina come potrebbe sembrare.
Questo
improvviso esperimento di massa chiamato “didattica a distanza” pone
innumerevoli e gravosi dubbi, che non soltanto gli “esperti” siano chiamati a
pensare ed elaborare strumenti di risoluzione delle criticità, che
ciascun docente si debba porre questioni come queste, è ineludibile. Il mondo
della scuola deve pensare. Al mondo della scuola appartiene il paese Italia per
intero.
Ho provato
ad esprimermi, a cercare di capire. Poi, sono certamente persuaso che è meglio,
in tempi di quarantena, di assoluta e necessaria impossibilitò di una vita
sociale normale, impegnare gli alunni in video conferenze, diversamente, molti,
cosa farebbero? Solamente, sulle piattaforme adoperate, sulla garanzia del
trattamento dei dati, su infinite e spinose questioni del controllo e
della democrazia, sulla libertà del pensiero, credo che si debba ragionare e
non poco.
Ma la scuola
non può vendersi ai giganti del web – Giuseppe Caliceti
Per la
scuola a distanza, il ministero dell’istruzione ha dato indicazioni agli
istituti attraverso circolare protocollata sulle piattaforme da
usare. Quali? Colossi statunitensi della tecnologia: Google Suite, Office 365,
WeSchool, Amazon. Perché? Per avere garanzie di affidabilità, probabilmente. Ma
anche perché esse si sono offerte, almeno per ora, gratuitamente.
Non è una
cosa da poco: una istituzione pubblica come la scuola ha utilizzato aziende
private senza far certo troppe gare di appalto; multinazionali che, come è
dichiarato nei loro statuti, hanno come principale obiettivo non certo la
formazione, ma la raccolta di dati e comportamenti da
rivendere o da usare per individuare gusti e orientamenti. E come fine ultimo
quello di manipolarli in nome dell’aumento del proprio fatturato.
Non è mai accaduto in una istituzione pubblica un evento così grave.
Si potrà
dire che è una roba da poco e non c’erano altre alternative.
L’alternativa
c’era
Falso.
L’alternativa migliore era puntare su software liberi e non privati,
che erano anche più sicuri e più collaborativi, cioè adatti alla formazione.
Non si è fatto. Probabilmente perché sarebbero occorsi maggiori fondi,
competenze, preparazione. Così molti dirigenti scolastici che preferivano l’utilizzo
di piattaforme libere, alla fine sono stati caldamente invitati dal ministero a
sottoscrivere, per le loro scuole e i loro docenti e studenti, licenze d’uso
per i software di queste multinazionali private.
Si potrà
dire che in fondo non si è trasgredita alcuna legge.
Ancora una
volta: falso.
Il
regolamento europeo sulla privacy per la protezione dei dati
(Gdpr) è operativo in Italia dal maggio 2018 e vieta che le
scuole facciano quello che hanno fatto. Che cosa si pensa di fare, ora?
Aggiungere una clausola in cui si dirà che in situazioni di emergenza queste
regole non valgono?
Questione di
affidabilità
Queste
multinazionali hanno giurato di tenere separati i dati europei da quelli degli
altri. Ma ci si deve chiedere quali affidabilità reali abbiano dato al nostro
governo multinazionali come Google che recentemente ha investito milioni di
dollari sull’intelligenza artificiale per consentire alle macchine di
“imparare” attraverso l’interazione con gli utenti, – profilandoli, come si
dice, – cioè immagazzinando informazioni su di loro dal modo
in cui si muovono in rete.
Quali
garanzie ha avuto il nostro governo repubblicano da queste multinazionali
private perché questo accada veramente? Come ha potuto incoraggiare tutto il
mondo della scuola a vendere i dati di milioni di docenti e studenti e famiglie
di studenti? E soprattutto: lo poteva fare?
Lettera
aperta alla ministra dell’istruzione - Maria Chiara Acciarini, Alba
Sasso e Laura Pennacchi
Gentile
prof. Lucia Azzolina,
a causa
dell’emergenza sanitaria, da due mesi gli allievi della scuola italiana sono a
casa ed è ormai certo che vi resteranno sino alla fine dell’anno scolastico,
perdendo così più di un altro mese di lezioni. Sappiamo anche, ormai con
certezza, che l’allentamento delle disposizioni sul distanziamento sociale e la
sia pur cauta riapertura di una parte delle attività economiche, messi in atto
a partire dal 4 maggio, non li riguarderanno in alcun modo, se si esclude la
prospettiva di far svolgere gli esami di maturità a scuola, con la presenza
fisica di alunni e docenti.
Si è così
compiuta una scelta molto netta, che avrà, innanzitutto, pesanti ripercussioni
sul lavoro femminile, ma che, tuttavia, non vogliamo in questo momento mettere
in discussione. Ci interessa invece pensare a quanto accadrà al momento
dell’inizio del prossimo anno scolastico.
Le sue più
recenti dichiarazioni, signora Ministra, sembrano avere attenuato il drastico
messaggio inizialmente lanciato in cui si utilizzava un metodo più indicato a
stabilire come si distribuiscono gli utili di una società che a individuare un
progetto educativo: un fifty-fifty di presenza a scuola e di didattica a
distanza. Tuttavia, le linee indicate per la ripresa delle attività scolastiche
sono rimaste generiche e imprecisate.
Ci preme
sottolineare che, al contrario, per il sistema educativo italiano, dai nidi
alle università, occorre una programmazione seria e articolata, che parta,
innanzitutto, dalla consapevolezza di quanto è stato sottratto in termini di
conoscenza e di socialità alle bambine e ai bambini, alle ragazze e ai ragazzi
italiani. Che forse, da questo punto di vista, avranno anche un po’ meno di
quello che sarà garantito nei prossimi mesi agli allievi di altre scuole
europee, anch’esse chiamate ad affrontare il problema del COVID-19.
Cerchiamo
allora di ricompensarli in qualche modo e di farli tornare a scuola nella
migliore delle condizioni possibili, pur tenendo conto del probabile permanere
di un quadro sanitario complesso. Cerchiamo di farli tornare in scuole
accoglienti, in cui tutti questi mesi di chiusura dovranno produrre risultati
in termini di pulizia accurata, di manutenzione ordinaria e straordinaria,
senza escludere il recupero di locali che possano essere utilizzati per una
didattica a piccoli gruppi. A questo proposito qualche margine potrà anche
essere garantito dalla costante flessione – pari a circa l’1% annuo – della
popolazione scolastica. Siamo pienamente consapevoli che i problemi
dell’edilizia scolastica non sono certo risolvibili in pochi mesi, ma un paese
civile – a questa svolta delicatissima della sua storia ‒ ha l’obbligo di fare
un piano di investimenti per superare almeno una parte di questi problemi.
Cerchiamo di
garantire a tutti gli alunni delle scuole dell’infanzia e della primaria la
possibilità di essere ogni giorno a scuola con i loro compagni e i loro
insegnanti: la didattica a distanza non è ulteriormente per loro proponibile,
soprattutto dal momento in cui i genitori, ritornati al lavoro, non potranno
più essere gli “assistenti” dei loro figli. Per la secondaria l’uso della
didattica a distanza può, in caso di necessità essere ammesso, ma evitiamolo in
modo assoluto nelle classi prime dei due gradi di scuola, quando è importante
che si crei fra tra alunne e alunni uno spirito di comunità, indispensabile per
il proseguimento degli studi. Anche per le classi terminali si deve avere la
stessa attenzione, seppur per motivi diversi.
Desideriamo
inoltre invitare, anche quando si scelga in particolari condizioni di
utilizzare la didattica a distanza, a valutare bene quali siano le sue
potenzialità e i suoi limiti. Limiti oggettivi, innanzitutto. Lei stessa,
signora Ministro ha dichiarato che in questi mesi ha raggiunto con una certa
continuità circa 6.700.000 alunni su 8.300.000. Allora prima di proporre di
adottare “senza se e senza ma” la didattica a distanza si deve cercare di:
capire dove e come si sono verificate le maggiori carenze nella sua attuazione
e individuare gli strumenti per superarle; tenere conto di quanto il mondo
della scuola è andato via via osservando e documentando; valorizzare le buone
pratiche che, nell’ambito della propria autonomia, le singole scuole possono
avere messo in atto nel corso di questi difficilissimi mesi dell’anno
scolastico 2019-20.
Occorre,
inoltre, esaminare attentamente, in un serrato confronto sindacale, il modo di
garantire i diritti degli insegnanti, anche dal punto di vista della
formazione, senza escludere la possibilità di varare subito un piano
straordinario di assunzioni che permetta di fare fronte alla probabile e
necessaria articolazione delle classi in gruppi di lavoro, per una parte
dell’orario scolastico.
Perché una
cosa è certa: molto dovrà essere fatto per recuperare le disuguaglianze che, in
questi mesi, sono andate ad accrescere quelle già presenti nelle realtà più
disagiate. Verso gli alunni in maggiore difficoltà – sia essa fisica, psichica
o economica – lo Stato italiano ha un debito e deve pensare a come saldarlo con
l’aiuto di tutti.
Bisogna
ascoltare allievi, insegnanti, famiglie. Le scelte politiche devono essere
fatte aprendosi sul mondo, non chiudendosi nelle stanze ministeriali.
Siamo
perfettamente coscienti che si tratta di un lavoro estremamente complesso. Ma
dal fatto che esso sia svolto bene dipende il futuro dell’Italia e il presente
di più di un terzo dei suoi cittadini. Quindi, occorre investire, programmare,
attuare.
Non sarà
sola, signora Ministra, se chiederà risorse, impegno e cura per la scuola.
Glielo assicuriamo.
La didattica
con lo sguardo impossibile «da remoto» - Walter Lapini
Spero che
nessuno dimenticherà il sacrificio, non solo contrattuale e sindacale, che la
scuola dell’emergenza si sta sobbarcando in questi mesi. Unico antidoto ai
social, essa ha dovuto rapidamente impararne il linguaggio, accettare una
lunga suspension of dignity, infliggersi il gioco a guardie-e-ladri
con allievi che sfuggono o copiano, si collegano e scollegano, facendosi beffe
dell’insipienza informatica degli adulti, dei boomers, spesso
peraltro immaginaria. Scattato il blocco, i professori hanno reagito in maniera
fulminea e sincrona, senza aspettare imbeccate dall’alto. Si sono attivati con
i mezzi che avevano – Skype, Zoom e quant’altro – e hanno salvato quello che si
poteva salvare del quadrimestre appena iniziato. È stata una grande prova di
forza e di vitalità, di coscienza civica, di etica professionale. Sia chiaro
perciò che – pur con le eccezioni, i buchi neri, le furbizie immancabili – la
classe docente ha fatto e fa miracoli.
Ma sia
chiaro anche che la scuola non è questa. Le videolezioni vanno bene per qualche materia
che finisce in -gìa, funzionano con chi è già imparato, per chi già sa. Non
funzionano invece con le hard skills, con i saperi profondi, che si
trasmettono non solo con la parola ma anche attraverso il contatto, la
prossemica, lo sguardo. A nulla serve la didattica da remoto quando non si
tratta di intonacare i muri bensì di gettare le fondamenta, forti, durature. Perché
insegnare, come direbbe il professor Franzò, non è insegnare, ma insegnare a
capire se hai capito. E a tale scopo occorre vedere quella luce che brilla,
quella palpebra che batte, quella fronte che si increspa.
Solo allora
riesci a dire se il transfert è avvenuto. Non sto facendo letteratura, o retorica a buon
mercato. Gli addetti ai lavori mi intendono. Essi sanno bene che solo in
presenza è possibile giudicare quali semi daranno frutto e quali si perderanno
nel vento. È una lezione antica: Platone diceva che occorre lunga
frequentazione fra maestri e allievi perché la fiamma più grande arrivi a far
sprizzare una scintilla nella coscienza altrui e ad alimentarla.
L’anno 2020
è andato, facciamocene una ragione. Esami e scrutini saranno una pantomima, un trionfo del
liberi tutti. Ma non è del 2020 che dobbiamo preoccuparci, bensì degli anni che
seguiranno, poiché c’è da scommettere che in questo momento qualcuno sta
facendo i suoi conti su quanto si risparmierebbe mandando cinque professori su
dieci a cuocere hot dog, mettendone uno solo a sdottorare per tutti da dietro
una telecamera e usando i rimanenti come carne da sportello, impegnati in un
baby-sitting h24. Dopotutto i professori hanno tanto tempo libero, tante
vacanze, e se durante l’emergenza hanno fatto lezione anche di pomeriggio e di
sabato e nelle feste comandate, nulla vieta che possano farlo sempre…
Una grande
opera: la scuola di tutti - Mirco Pieralisi
Per chi
insegna lo scandalo dell’inuguaglianza ha volti, nomi e cognomi, radicati nella sua memoria fin
primi anni in cui è andato a scuola, quei ricordi lontani che il mestiere ha
più volte riportato alla luce, ha volti e nomi che hanno attraversato, e spesso
segnato, la sua esperienza, volti e nomi di chi, ai tempi della
didattica di emergenza, è aggrappato con mezzi di fortuna alla sua classe,
volti e nomi di chi resta in silenzio perché non ha adulti al suo fianco, volti
e nomi di coloro che sono scomparsi o addirittura non sono mai stati presenti.
Lo scandalo della disuguaglianza ha anche delle cifre e le più ottimistiche
gridano comunque allo scandalo, anche perché le cifre, oltre che al milione e
mezzo di giovanissimi corpi lasciati indietro, non fanno riferimento alle tante
zone d’ombra che sono emerse in questo straordinario e al tempo stesso
terribile rapporto tra presenza e assenza nella quasi quotidiana, diurna e
notturna, scuola delle distanze.
Lo scandalo
degli scandali però è quello a cui stiamo assistendo in questi giorni, con le
aule delle nostre scuole deserte, avvolte dentro e fuori dalla ragnatela di
chiacchiere in libertà, lo scandalo delle dichiarazioni di principio, proclami
apologetici sull’informatizzazione ma inerzia e silenzio spettrale su cosa si
dovrebbe fare per restituire la scuola a tutte e tutti quelli che
legittimamente la devono abitare. Abbiamo dovuto subire anche le umilianti
dissertazioni sull’ignoranza o la mancata formazione delle maestre. Ma che se
ne stiano tutti tranquilli, per imparare a usare le piattaforme fatte
per essere vendute a clienti di tutto il mondo è bastata qualche notte e
qualche giorno, mentre le più brave maestre e i più bravi maestri sanno che non
basta una vita per insegnare meglio di come si è fatto. E sono loro, quelle e
quelli che non hanno mollato, quelle e quelli che hanno trascorso e trascorrono
quotidianamente in rete, al telefono, in video o in voce, una quantità di tempo
superiore a ogni previsione possibile con classi intere, gruppi di alunne e
alunni, genitori, colleghe, dirigenti e burocrazia scolastica, che ci dicono in
maniera chiara e distinta, come fanno centinaia di docenti bolognesi, che “ora,
dopo nove settimane di esperienza possiamo e vogliamo dirvi che il re é
nudo: la didattica a distanza non esiste... le lezioni messe in
campo… sono un surrogato di cattivo sapore di ciò che é la didattica che
realizziamo quotidianamente a scuola”.
Una sentenza
senza appello da parte di chi nella scuola pubblica ci mette anima e corpo (e
sì, certo, lo dico per tranquillizzare i tuttologi che sputano sentenze senza
conoscere l’argomento, esistono qua e là anche gli “imboscati”, i famosi uomini
che mordono i cani che permettono a qualche indignato della domenica di
spargere fango sul lavoro di centinaia di migliaia di persone di scuola.) Alla
luce di quello che è emerso in questi mesi, e lo dico ancora, alla luce dei
nomi e dei volti di quelle alunni e alunni presenti o lontani, c’è
l’urgenza assoluta di ricominciare la scuola a settembre in luoghi dove corpi,
emozioni, ansie, paure e gioie, scoperte ed incertezze si incontrino e si
parlino negli occhi, ed è semplicemente immorale non avere già un piano ora che
definisca tempi e modi di un intervento adeguato.
La scuola è
un percorso di apprendimento che ha bisogno di tre dimensioni, lo spazio, il
tempo e la relazione. Ora come non mai, grazie alla tragica prova a cui siamo
sottoposti, è il momento di ripensare a ognuna di queste dimensioni. Per questo
è inaccettabile che le scuole siano vuote in questi giorni. Io non vorrei le scuole restassero
vuote neanche in maggio. Le vorrei con dentro ingegneri, tecnici dei
Comuni e delle città metropolitane, architetti, con insegnanti e dirigenti che
spieghino le esigenze del fare scuola, operai pronti a intervenire per ampliare
dove si può, per tirare giù muri e fare se serve prefabbricati, costruire con
le tecniche più moderne altri edifici, progettare e mettere in sicurezza luoghi
nel territorio per utilizzarli ai fini scolastici, ipotizzare una formazione
delle classi che dica addio per sempre alle classi numerose e un piano
straordinario di reclutamento di personale.
Se non si
lavora da subito per aprire le scuole a settembre e in sicurezza la situazione
sarà drammatica, perché come abbiamo visto in questi mesi di doverosa e
necessaria didattica di emergenza, e come ci hanno spiegato insegnanti che in
questi mesi l’hanno realizzata, come ci hanno raccontato anche tante madri e
padri, stiamo perdendo non tempo ma persone, in particolare i più
fragili (e le fragilità sono anche quelle più insospettabili).
Pensare di
tornare a settembre immaginando meno scuola, orari ridotti e didattica a
distanza sarebbe già una resa. Se non si lavora per una vero ritorno a scuola
rischiamo di provocare una lesione culturale e sociale soprattutto
in quelle fasi decisive della crescita della persona che sono l’infanzia e
l’adolescenza. Per questo la ricostruzione della scuola pubblica, delle
scuole pubbliche, deve essere la nostra grande opera.
VERSO UN
NUOVO DUALISMO CARTESIANO NELLA SCUOLA? NO, PER FAVORE NO! - Simone Digennaro
Comincia a
emergere una certa apprensione; o forse una preoccupazione, ed
anche piuttosto acuta, per quanto sta accadendo nel mondo della scuola.
Preoccupazione che solo in parte è dovuta alle enormi sfide di carattere organizzativo:
si tratta, in effetti, di una questione più strettamente legata alla didattica e
al fare scuola. Ci sono voluti anni per far “entrare” il
corpo nella scuola, per far capire in maniera chiara e inequivocabile
che se attraverso il corpo noi diamo «significazione al mondo» – per utilizzare
le parole di Maurice Merleau-Ponty -, sviluppiamo i
nostri saperi e costruiamo la nostra intera esistenza, non è possibile
escludere il corpo dalla scuola. Scuola che invece è stata a lungo
arroccata in una posizione intransigente, di profondo dualismo
cartesiano, di divisione della mente dal corpo, con il primato concesso
alla mente, vero e proprio oggetto di interesse – per certi versi di ossessione
– da parte degli insegnanti, tutti presi a travasare informazioni e nozioni in
cervelli scissi da tutto il resto. Studenti scorporati, privi di
materialità, anestetizzati, a cui veniva chiesto di mettere da parte
qualsiasi interferenza che potesse in qualche modo intaccare la relazione tra
la mente del docente e la mente del discente.
Lungamente
dimenticato, utilizzato come un contenitore in cui riversare conoscenze, il
corpo a scuola – e nella didattica – ha fatto una fatica enorme a emergere.
Si è dovuto far ricorso a tutto il gotha dello studio della corporeità per fare
un minimo di breccia nelle roccaforti ideologiche della scuola. Oltre alle
riflessioni del già citato Merleau-Ponty, si è fatto ricorso anche all’idee
di Michel Foucault, André Breton, Pierre Bordieu, Umberto Galimberti,
Damasio. Si sono mobilitati anche molti campi di studio: la sociologia, la
psicologia, le neuroscienze, la filosofia. È persino nata una nuova corrente di
studio: gli embodiment studies. E sulla questione si sono
espressi, ovviamente, numerosi pedagogisti tra cui Robinson, Freire,
Dewey, giusto per citarne alcuni. Tutta questa grande mobilitazione per
dimostrare e argomentare sull’impossibilità di una didattica senza corpo,
sull’inutilità di pretendere di avere un apprendimento basato sulla sola mente,
sull’inconcludenza storica, culturale, sociale e antropologica di una scissione
tra mente e corpo, su di un dualismo cartesiano, che specie a scuola, non ha
ragione di essere.
Questo
enorme sforzo stava mostrando nella scuola italiana i suoi primi frutti. Finalmente, si erano aperte
delle brecce, delle piccole fessure nell’impostazione della didattica. E in
queste spaccature si stava riversando il corpo, e tutta la ricchezza
esistenziale che in esso è contenuta. Nella didattica avevano trovato spazio
le emozioni, non solo come oggetto di studio, ma come elemento di
discussione, di confronto e come tramite attraverso cui sviluppare nuovi
apprendimenti. La corporeità stava acquistando nuovi spazi, nuove possibilità
di espressione nei rapporti con i compagni di classe ma anche in quelli con gli
insegnanti. La necessità del movimento come elemento fondante dell’esistenza
stessa dell’individuo aveva ottenuto un riconoscimento – non completo, per
carità – anche tra quegli insegnamenti definiti, per impostazione, teorici, che
tanto distanti sembrano volersi collocare dalla materialità esistenziale.
Persino sulla grande sfida della multiculturalità e
dell’integrazione si era visto nel corpo – punto di incontro tra natura e
cultura, come ci ricorda Foucault – un potentissimo dispositivo
educativo, in grado di avviare un dialogo laddove altri mezzi avevano
fallito.
Il corpo,
insomma, stava prendendo spazio, e attraverso di esso era stato avviato un
lento ma inesorabile processo di cambiamento di tutta l’impalcatura didattica
della scuola. Perché, una volta che il corpo entra in classe, tutto cambia (e
questo spiega i motivi di tanta resistenza). Se dai attenzione al corpo non
puoi pretendere che esso rimanga inerte per ore ad ascoltare passivamente una
lezione: deve muoversi! Non puoi pretendere che le emozioni vengano represse
perché esse si esprimono attraverso la corporeità, i gesti, la mimica, la
prossemica, il tatto. E lo stesso dicasi per la personalità degli alunni la
quale si manifesta attraverso la gestualità. E su questo Milan
Kundera è stato piuttosto illuminante quando ha fatto notare che il
«gesto è più individuale dell’individuo».
La pandemia
determinata dalla diffusione capillare del COVID-19 sta stravolgendo dalle
fondamenta la società e con essa la scuola. E su quanto sta accadendo trova alimento molta
preoccupazione. Evidentemente è necessario un totale ripensamento
dei tempi, dei luoghi e delle modalità di fare scuola, questo è innegabile:
la salute è un diritto fondamentale inalienabile, che deve essere tutelato e
salvaguardato. Tuttavia, il dibattito che sta accompagnando questo
cambiamento sembra non prestare la dovuta attenzione ad alcune questioni
fondamentali. C’è un gran parlare di come riorganizzare gli spazi in classe, di
come rendere possibile la didattica a distanza anche per quegli studenti che
non hanno accesso alla tecnologia necessaria, di come gestire i turni, ecc. C’è
poi tutta la questione degli esami di maturità e di terza media e
di come dare dei voti a milioni di studenti che da marzo sono costretti a stare
a casa, senza un reale contatto con gli insegnanti. Il dibattito
sull’opportunità di un 6 politico, di una promozione d’ufficio o
sull’eventualità di un annullamento di questo anno scolastico ha chiamato in
causa numerosi esperti e politici, con posizioni spesso diametralmente opposte.
Lungi dal
ritenere inutile queste forme di dibattito – stiamo vivendo un periodo che non
ha precedenti nella storia recente, e la circolazione di idee è un bene – è
opportuno però esprimere in questa sede una perplessità, o per lo
meno reclamare attenzione su di una mancanza. Se da un lato è
necessario preoccuparsi di come riorganizzare gli spazi a scuola, non sarebbe
anche necessario, dall’altro, preoccuparsi di come riorganizzare la
didattica? Si tratta di una questione ugualmente importante. Perché,
se la prospettiva è quella di tornare a un’impostazione didattica in cui si sta
in classe, seduti, immobili sui propri banchi – tra l’altro singoli – isolati
ad ascoltare concetti vuoti trasmessi da un insegnante ingessato alla propria
cattedra, anche se si riuscisse – come auspicabile – a fermare una nuova
trasmissione del virus, favoriremmo, d’altro canto, una nuova forma di
contagio, più subdola, che rischia di portare la scuola e l’insegnamento
indietro di decenni.
Con questo
non si vuole certamente argomentare in favore di un totale superamento del
distanziamento sociale: è una misura fondamentale, specie in un contesto
affollato come la scuola. Però non possiamo neanche correre il rischio
che con il distanziamento sociale si torni a rimarcare una nuova scissione tra
la mente e il corpo degli alunni. È un rischio che non ci possiamo
permettere! Dopo anni di battaglie, non si può tornare indietro. Quale, dunque,
la soluzione? Non è semplice, e per questo occorre dedicare alla questione
tempo, energie e risorse. Così come ci si affanna per riorganizzare la
struttura della scuola, i suoi tempi, i suoi spazi, occorre dedicarsi anche ad
un ripensamento della didattica, che è la vera essenza della scuola. Perché il
punto non è solo quello della didattica a distanza, di come permettere la
trasmissione dei saperi, di come esprimere i voti. Ci sono anche tutte le
questioni legate alla relazione educativa, dell’apprendimento
tra pari, alle emozioni, alla conoscenza del mondo attraverso il
corpo e i sensi che non possono essere derubricati e che richiedono
massima attenzione.
I limiti
della didattica a distanza - Fiorella Farinelli
Aver vissuto
la pandemia ci farà diventare migliori? Impareremo a non massacrare il
pianeta in nome del profitto e del mercato, saremo meno complici di un modello
economico e sociale devastante, ci convinceremo che il bene di ciascuno passa
dal bene di tutti? Non fa bene, forse, un troppo facile ottimismo. Ma è certo
che stiamo reimparando l’essenziale. Come il valore di una scuola di tutti e
per tutti, capace di tener conto delle caratteristiche di ciascuno, fiduciosa
nella possibilità di chiunque di imparare e di migliorare.
Per molto tempo è stato sottovalutato o distorto, e troppi – proprio come per i sistemi sanitari pubblici e per la ricerca scientifica di base – hanno applaudito distratti e distruttori. Ma ora sappiamo cosa significa avere le scuole chiuse. Sembrava un problema dei soli Paesi poveri, quelli massacrati da guerre infinite o da ricorrenti catastrofi ambientali, quelli sotto il giogo di poteri determinati ad escludere. Oggi è diventata esperienza anche dell’Occidente ricco, evoluto e più o meno democratico.
A marzo l’Unesco, l’Agenzia delle Nazioni Unite che promuove l’istruzione e la cultura, ha calcolato che più di tre quarti del miliardo e 500.000 studenti del mondo erano rimasti senza scuola. Per quanto tempo e con quali prospettive di ritorno alla normalità non è chiaro neanche a maggio. Non era mai successo, con questa durata ed estensione, neppure sotto le bombe o dopo i terremoti.
I costi sociali sono altissimi. Ci sono quelli dei genitori di bambini piccoli, le mamme soprattutto, che non possono lavorare perché i figli sono a casa. E quelli del mancato apprendimento che colpiscono gli studenti, anche se non tutti con la stessa gravità. Secondo alcuni studi, per le troppo lunghe vacanze estive i bambini della scuola primaria perdono tra il 20 e il 50 per cento di quello che imparano in un anno, cosa ci lascerà la lunga chiusura del 2020? Ma non è tutto, la scuola che funziona bene è anche lo spazio pubblico in cui tutti sono eguali «davanti alla legge», e dove talento e impegno possono liberare dal destino sociale iscritto nelle condizioni familiari. E poi le relazioni tra coetanei e con gli adulti, tra poveri e ricchi, bianchi e neri, sani e disabili, che insegnano intelligenza e solidarietà, e l’equilibrio così prezioso nei due primi decenni di vita tra bisogno di tutela e desiderio di autonomia. Non che la scuola sia l’unica agenzia educativa, ma anche l’educazione familiare ha un gran bisogno del controcanto dell’educazione pubblica. E la seconda di una certa distanza dalla prima.
Per molto tempo è stato sottovalutato o distorto, e troppi – proprio come per i sistemi sanitari pubblici e per la ricerca scientifica di base – hanno applaudito distratti e distruttori. Ma ora sappiamo cosa significa avere le scuole chiuse. Sembrava un problema dei soli Paesi poveri, quelli massacrati da guerre infinite o da ricorrenti catastrofi ambientali, quelli sotto il giogo di poteri determinati ad escludere. Oggi è diventata esperienza anche dell’Occidente ricco, evoluto e più o meno democratico.
A marzo l’Unesco, l’Agenzia delle Nazioni Unite che promuove l’istruzione e la cultura, ha calcolato che più di tre quarti del miliardo e 500.000 studenti del mondo erano rimasti senza scuola. Per quanto tempo e con quali prospettive di ritorno alla normalità non è chiaro neanche a maggio. Non era mai successo, con questa durata ed estensione, neppure sotto le bombe o dopo i terremoti.
I costi sociali sono altissimi. Ci sono quelli dei genitori di bambini piccoli, le mamme soprattutto, che non possono lavorare perché i figli sono a casa. E quelli del mancato apprendimento che colpiscono gli studenti, anche se non tutti con la stessa gravità. Secondo alcuni studi, per le troppo lunghe vacanze estive i bambini della scuola primaria perdono tra il 20 e il 50 per cento di quello che imparano in un anno, cosa ci lascerà la lunga chiusura del 2020? Ma non è tutto, la scuola che funziona bene è anche lo spazio pubblico in cui tutti sono eguali «davanti alla legge», e dove talento e impegno possono liberare dal destino sociale iscritto nelle condizioni familiari. E poi le relazioni tra coetanei e con gli adulti, tra poveri e ricchi, bianchi e neri, sani e disabili, che insegnano intelligenza e solidarietà, e l’equilibrio così prezioso nei due primi decenni di vita tra bisogno di tutela e desiderio di autonomia. Non che la scuola sia l’unica agenzia educativa, ma anche l’educazione familiare ha un gran bisogno del controcanto dell’educazione pubblica. E la seconda di una certa distanza dalla prima.
utilizzo
delle tecnologie
Nei paesi che se lo possono permettere, si è cercato di rimediare con la didattica online, detta didattica a distanza. Anche in Italia, dove sembrava più problematico che altrove se non altro per l’alta età media degli insegnanti, tutti hanno dovuto misurarsi con l’utilizzo delle tecnologie. Cantano vittoria gli entusiasti della Dad (dentro, oltre a una parte dei docenti e a un grappolo di pedagogisti, c’è un ampio e variegato mondo di editori, produttori di software, giganti delle telecomunicazioni come Google e Microsoft, enti di formazione). Sostengono che sarà questo il cavallo di Troia per il superamento dell’obsoleto modello trasmissivo dell’insegnamento – lezioni-esercitazioni-verifiche-valutazione – e dell’ingresso trionfale di una didattica creativa, interattiva, liberatoria. Tra gli entusiasti anche la ministra dell’istruzione Azzolina, figlia di un movimento che alle piattaforme telematiche avrebbe voluto consegnare addirittura tutte le carte della partecipazione e del gioco democratico. Sono bastate poche settimane perché apparisse il rovescio della medaglia. Fatto non solo dell’improvvisazione dovuta alle circostanze emergenziali della prima attuazione, ma anche di una diffusa e tenace tentazione di travasare nel «nuovo» gran parte del vecchio: inclusi il disciplinarismo, le valanghe di compiti, le ansie di programmi smisurati. Ma se a questi limiti si potrà porre rimedio più avanti, lavorando sulla falsariga delle esperienze migliori e sull’analisi delle peggiori, la criticità principale sta nell’intreccio forzato tra utilizzo delle nuove tecnologie e homeschooling – cioè nel trasferimento in toto dell’attività scolastica in ambiente domestico. Perché sparendo la «comunità di eguali» dello spazio scolastico pubblico, sull’apprendimento e anche sull’insegnamento si sono scaricate le diseguaglianze della dimensione familiare. Non solo l’ineguale disponibilità di devices e connessioni (che ora si cerca di risolvere con il modesto impegno degli 85 milioni del Decreto Scuola del 17 marzo) ma la variabilità delle abitazioni, in tanti casi prive di spazi dedicabili all’apprendimento, tanto più per la diffusione dello smart working. E poi c’è la differenza fondamentale – già esaltata dall’eccessiva valorizzazione dello «studio individuale», ovvero dei compiti a casa – fatta della diseguale disponibilità di tempo, attenzione, strumenti culturali necessari ai genitori per supportare l’accesso alle piattaforme e la gestione delle attività dei più piccoli, quelli che, pur «nati digitali», non sono ancora autonomi nel rapporto con l’informatica.
Non che non lo si sapesse che una cosa è realizzare nelle scuole «ambienti di apprendimento» per la didattica digitale e un’altra è affidarsi alle risorse familiari (secondo Istat 2019 il 14,3% delle famiglie con almeno un minore non ha né computer né tablet, e anche in quelle che ne sono provviste è raro che ce ne siano di indivi- duali per ogni componente), né che le dimensioni medie di un appartamento non superano in Italia gli 81metri quadrati.
Nei paesi che se lo possono permettere, si è cercato di rimediare con la didattica online, detta didattica a distanza. Anche in Italia, dove sembrava più problematico che altrove se non altro per l’alta età media degli insegnanti, tutti hanno dovuto misurarsi con l’utilizzo delle tecnologie. Cantano vittoria gli entusiasti della Dad (dentro, oltre a una parte dei docenti e a un grappolo di pedagogisti, c’è un ampio e variegato mondo di editori, produttori di software, giganti delle telecomunicazioni come Google e Microsoft, enti di formazione). Sostengono che sarà questo il cavallo di Troia per il superamento dell’obsoleto modello trasmissivo dell’insegnamento – lezioni-esercitazioni-verifiche-valutazione – e dell’ingresso trionfale di una didattica creativa, interattiva, liberatoria. Tra gli entusiasti anche la ministra dell’istruzione Azzolina, figlia di un movimento che alle piattaforme telematiche avrebbe voluto consegnare addirittura tutte le carte della partecipazione e del gioco democratico. Sono bastate poche settimane perché apparisse il rovescio della medaglia. Fatto non solo dell’improvvisazione dovuta alle circostanze emergenziali della prima attuazione, ma anche di una diffusa e tenace tentazione di travasare nel «nuovo» gran parte del vecchio: inclusi il disciplinarismo, le valanghe di compiti, le ansie di programmi smisurati. Ma se a questi limiti si potrà porre rimedio più avanti, lavorando sulla falsariga delle esperienze migliori e sull’analisi delle peggiori, la criticità principale sta nell’intreccio forzato tra utilizzo delle nuove tecnologie e homeschooling – cioè nel trasferimento in toto dell’attività scolastica in ambiente domestico. Perché sparendo la «comunità di eguali» dello spazio scolastico pubblico, sull’apprendimento e anche sull’insegnamento si sono scaricate le diseguaglianze della dimensione familiare. Non solo l’ineguale disponibilità di devices e connessioni (che ora si cerca di risolvere con il modesto impegno degli 85 milioni del Decreto Scuola del 17 marzo) ma la variabilità delle abitazioni, in tanti casi prive di spazi dedicabili all’apprendimento, tanto più per la diffusione dello smart working. E poi c’è la differenza fondamentale – già esaltata dall’eccessiva valorizzazione dello «studio individuale», ovvero dei compiti a casa – fatta della diseguale disponibilità di tempo, attenzione, strumenti culturali necessari ai genitori per supportare l’accesso alle piattaforme e la gestione delle attività dei più piccoli, quelli che, pur «nati digitali», non sono ancora autonomi nel rapporto con l’informatica.
Non che non lo si sapesse che una cosa è realizzare nelle scuole «ambienti di apprendimento» per la didattica digitale e un’altra è affidarsi alle risorse familiari (secondo Istat 2019 il 14,3% delle famiglie con almeno un minore non ha né computer né tablet, e anche in quelle che ne sono provviste è raro che ce ne siano di indivi- duali per ogni componente), né che le dimensioni medie di un appartamento non superano in Italia gli 81metri quadrati.
diseguaglianze
che si aggiungono a diseguaglianze
Non è una novità, d’altra parte, che anche tra le fasce più giovani della popolazione, quella con figli in età scolare, decenni di alti tassi di abbandoni precoci e di percorsi scolastici poco capaci di sviluppare e consolidare gli apprendimenti hanno depositato livelli troppo bassi di istruzione e di cultura. E tuttavia molti si sono sorpresi di fronte all’evidenza di una Dad che, nelle condizioni date, scarica altre diseguaglianze su un sistema scolastico peggiore di altri per «equità sociale», cioè per capacità di affrancare il successo scolastico dalle condizioni economiche, sociali, culturali di origine. Diseguaglianze che si aggiungono a diseguaglianze, dunque. In cui a pagare i costi più alti sono i più deboli. I bambini e i ragazzi più poveri, quelli con problemi di disabilità, quelli con back ground migratorio, ben più del 20% ammesso anche da viale Trastevere.
Le notizie che arrivano dalle scuole non sono buone. Troppi gli studenti che non si sono mai connessi, che partecipano spo- radicamente alle lezioni a distanza, che stentano a stare al passo, che hanno abbandonato. E troppi, al momento, i limiti di una didattica on line ancora troppo standardizzata rispetto alla pluralità delle caratteristiche e dei bisogni formativi individuali. La situazione più grave, energicamente sollevata dai genitori e dalle loro associazioni, è quella dei ragazzi disabili o con «bisogni educativi speciali», che con la scuola fisica hanno perso anche relazioni preziose e stimoli essenziali, e che hanno spesso enormi difficoltà ad adattarsi alle tecnicalità e alla manualità richiesta dalla Dad. Ma la perdita colpisce tutti.
Non è una novità, d’altra parte, che anche tra le fasce più giovani della popolazione, quella con figli in età scolare, decenni di alti tassi di abbandoni precoci e di percorsi scolastici poco capaci di sviluppare e consolidare gli apprendimenti hanno depositato livelli troppo bassi di istruzione e di cultura. E tuttavia molti si sono sorpresi di fronte all’evidenza di una Dad che, nelle condizioni date, scarica altre diseguaglianze su un sistema scolastico peggiore di altri per «equità sociale», cioè per capacità di affrancare il successo scolastico dalle condizioni economiche, sociali, culturali di origine. Diseguaglianze che si aggiungono a diseguaglianze, dunque. In cui a pagare i costi più alti sono i più deboli. I bambini e i ragazzi più poveri, quelli con problemi di disabilità, quelli con back ground migratorio, ben più del 20% ammesso anche da viale Trastevere.
Le notizie che arrivano dalle scuole non sono buone. Troppi gli studenti che non si sono mai connessi, che partecipano spo- radicamente alle lezioni a distanza, che stentano a stare al passo, che hanno abbandonato. E troppi, al momento, i limiti di una didattica on line ancora troppo standardizzata rispetto alla pluralità delle caratteristiche e dei bisogni formativi individuali. La situazione più grave, energicamente sollevata dai genitori e dalle loro associazioni, è quella dei ragazzi disabili o con «bisogni educativi speciali», che con la scuola fisica hanno perso anche relazioni preziose e stimoli essenziali, e che hanno spesso enormi difficoltà ad adattarsi alle tecnicalità e alla manualità richiesta dalla Dad. Ma la perdita colpisce tutti.
un’estate
insieme
Anche per tutti questi motivi, oltre che per l’esigenza dei genitori di riprendere le attività lavorative, in tutti i Paesi si guarda con ansia alla riapertura delle scuole. A quando e a come bambini e ragazzi potranno ritornarci, sia pure con le precauzioni che dovranno esserci finché non si verrà a capo, con terapie e vaccini, della maledetta pandemia. Un’ansia che in Italia viene alimentata non solo dall’incertezza sul quando e sul come, ma anche dall’evidente sottovalutazione da parte dei responsabili istituzionali del bisogno di recuperare da subito, anche in forme leggere e simboliche, il rapporto fisico con la scuola, i compagni, gli insegnanti. Si potrebbero almeno salutarli
gli studenti, in spazi aperti e nel rispetto della sicurezza, alla fine dell’anno scolastico. Si potrebbe dedicare un po’ di tempo, dopo il 9 giugno, a incontri individuali o di piccoli gruppi con gli insegnanti. Invece niente, neppure per i mesi estivi, quando molti non potranno andare in vacanza perché i genitori devono lavorare e i nonni, questa volta, non potranno occuparsene.
Si dovrebbe fin d’ora organizzare una «estate insieme», come suggeriscono molte associazioni, nelle scuole, negli spazi pubblici, nei parchi, giardini, strutture sportive e musei deserti, con attività di socializzazione, giochi e educazione ambientale. Molti in questi mesi hanno subìto discriminazioni, esclusioni, sofferenze psicologiche, talora anche lutti, non ci si può limitare a prevedere soltanto, a settembre e ottobre, momenti di recupero didattico. E invece niente, dovranno essere i Comuni, le associazioni, il volontariato ad organizzare i «Centri estivi», ma senza impegno alcuno delle scuole e degli insegnanti. Una volta stabilito che, grazie alla Dad, l’anno scolastico è «valido» e che, grazie a passaggi all’anno successivo esenti da bocciature, non ci sarà spazio per possibili ricorsi, viale Trastevere sembra al momento lavarsene le mani. Non va bene. E preoccupa se per settembre non si fosse capaci di prevedere niente altro che un mix tra scuola in presenza e scuola a distanza, con sequenze che potrebbero costringere ancora le famiglie a barcamenarsi tra il lavoro e la cura domestica dei figli e del loro rapporto con le piattaforme telematiche. Cosa succederà ai più piccoli, quelli che a settembre entreranno per la prima volta, senza aver mai visto in faccia gli insegnanti e senza conoscere ancora i loro compagni, nelle scuole per l’infanzia e nella primaria? Anche tra i più convinti delle grandi potenzialità dell’uso didattico delle tecnologie, sono ormai in tanti ad augurarsi che il ricorso alla Dad in alternativa alla didattica «in presenza» non sia necessario, o almeno che vi si debba ricorrere solo in condizioni di assoluta emergenza e per periodi brevi. Anche se questo dovesse richiedere, per una volta, investimenti straordinari in nuovi spazi fisici e in nuove risorse professionali.
Anche per tutti questi motivi, oltre che per l’esigenza dei genitori di riprendere le attività lavorative, in tutti i Paesi si guarda con ansia alla riapertura delle scuole. A quando e a come bambini e ragazzi potranno ritornarci, sia pure con le precauzioni che dovranno esserci finché non si verrà a capo, con terapie e vaccini, della maledetta pandemia. Un’ansia che in Italia viene alimentata non solo dall’incertezza sul quando e sul come, ma anche dall’evidente sottovalutazione da parte dei responsabili istituzionali del bisogno di recuperare da subito, anche in forme leggere e simboliche, il rapporto fisico con la scuola, i compagni, gli insegnanti. Si potrebbero almeno salutarli
gli studenti, in spazi aperti e nel rispetto della sicurezza, alla fine dell’anno scolastico. Si potrebbe dedicare un po’ di tempo, dopo il 9 giugno, a incontri individuali o di piccoli gruppi con gli insegnanti. Invece niente, neppure per i mesi estivi, quando molti non potranno andare in vacanza perché i genitori devono lavorare e i nonni, questa volta, non potranno occuparsene.
Si dovrebbe fin d’ora organizzare una «estate insieme», come suggeriscono molte associazioni, nelle scuole, negli spazi pubblici, nei parchi, giardini, strutture sportive e musei deserti, con attività di socializzazione, giochi e educazione ambientale. Molti in questi mesi hanno subìto discriminazioni, esclusioni, sofferenze psicologiche, talora anche lutti, non ci si può limitare a prevedere soltanto, a settembre e ottobre, momenti di recupero didattico. E invece niente, dovranno essere i Comuni, le associazioni, il volontariato ad organizzare i «Centri estivi», ma senza impegno alcuno delle scuole e degli insegnanti. Una volta stabilito che, grazie alla Dad, l’anno scolastico è «valido» e che, grazie a passaggi all’anno successivo esenti da bocciature, non ci sarà spazio per possibili ricorsi, viale Trastevere sembra al momento lavarsene le mani. Non va bene. E preoccupa se per settembre non si fosse capaci di prevedere niente altro che un mix tra scuola in presenza e scuola a distanza, con sequenze che potrebbero costringere ancora le famiglie a barcamenarsi tra il lavoro e la cura domestica dei figli e del loro rapporto con le piattaforme telematiche. Cosa succederà ai più piccoli, quelli che a settembre entreranno per la prima volta, senza aver mai visto in faccia gli insegnanti e senza conoscere ancora i loro compagni, nelle scuole per l’infanzia e nella primaria? Anche tra i più convinti delle grandi potenzialità dell’uso didattico delle tecnologie, sono ormai in tanti ad augurarsi che il ricorso alla Dad in alternativa alla didattica «in presenza» non sia necessario, o almeno che vi si debba ricorrere solo in condizioni di assoluta emergenza e per periodi brevi. Anche se questo dovesse richiedere, per una volta, investimenti straordinari in nuovi spazi fisici e in nuove risorse professionali.
Senza
perdere la testa - Un gruppo di insegnanti di Bologna
Noi docenti
dell’Istituto Comprensivo 8 di Bologna abbiamo iniziato subito a riflettere e
confrontarci su questo periodo e sulla scuola che verrà, molto prima che tutto
arrivasse alla ribalta sui giornali e sui social.
Noi
insegnanti abbiamo vissuto quelle prime convulse settimane e sappiamo bene cosa
è stato il “fai da te”: docenti al lavoro senza orario per attivare spazi
digitali sicuri, docenti attivi su drive, registro elettronico e anche telefono
personale per preparare materiale, riceverlo dagli alunni e tenere contatti.
Ricordiamolo:
la situazione era imprevista ed eccezionale.
Non si può
negare la mancanza di direttive e di un contesto legislativo chiaro, di
preparazione e di strumenti, non c’è stato il tempo per una discussione
pedagogica negli organi collegiali, non ce lo ha lasciato l’emergenza.
Emergenza:
questa è la parola corretta.
E noi
insegnanti, come il saggio Ulisse raccontato da Mino Milani, abbiamo
saputo agire in fretta in giorni convulsi e incerti senza mai “perdere la
testa”, senza mai dimenticarci che, alla base di ogni nostra azione, c’è e
ci deve essere sempre, anche in emergenza, lo spazio per una riflessione
didattica e pedagogica, che parta dall’attenzione ai singoli studenti e al loro
essere classe.
Nel libro di
Milani, Anceo insegna ad Ulisse che anche quando sarà
costretto a scappare non dovrà mai perdere la testa e quindi se stesso. In
qualche maniera anche noi insegnanti siamo stati costretti a scappare dalle
scuole, che da un giorno all’altro sono state chiuse, e da quella quotidianità
e presenza, che sta alla base della nostra azione. Non abbiamo mai perso, però,
la testa e quindi noi stessi.
Così, mentre
a distanza abbiamo provato a tenere le fila delle nostre classi, e siamo
entrati con discrezione nelle case e nelle vite dei nostri alunni, sentivamo in
sottofondo la voce di chi intanto stava coniando un nuovo acronimo DAD, didattica
a distanza.
La Didattica
a Distanza, o meglio la Formazione a Distanza (FAD), è l’insieme delle
attività didattiche svolte all’interno di
un progetto formativo che prevede la non
compresenza di docenti e discenti nello
stesso luogo e ha ormai una storia
lunga alle spalle. Parlando di FAD, si è soliti distinguerne
addirittura tre generazioni diverse, in base al tipo di
supporto utilizzato: la prima generazione è quella che avveniva per corrispondenza
postale (dalla metà Ottocento), la seconda generazione era basata
sulle tecnologie audiovisive (dagli inizi del XX secolo) e la
terza generazione è quella incentrata sulle tecnologie informatiche (dagli
anni ‘80), a sua volta suddivisa in FAD off line e in FAD on line.
È bene
sottolineare però che tutte queste modalità erano nate e dunque erano
state progettate in modo specifico per la formazione degli adulti (come
conferma il diffondersi negli ultimi anni di corsi universitari, atenei
telematici e corsi di formazione professionale rivolti a studenti e
lavoratori) e che, pur essendo state suggerite e introdotte da
una ventina d’anni anche per la didattica scolastica, non hanno mai
sostituito del tutto (e nemmeno in parte) la didattica in
presenza, dato che il loro utilizzo è quanto più difficile e problematico
mano a mano che si abbassa l’età dei discenti.
Ora, dopo 9
settimane di esperienza possiamo e vogliamo dirvi che “il re è nudo”: la
didattica a distanza non esiste. Dare i nomi corretti serve a capire le realtà di cui
si parla. Tutte le azioni messe in campo dai docenti in questo
eccezionale periodo sono un surrogato, di cattivo sapore come tutti i
surrogati, di ciò che è la didattica che realizziamo quotidianamente a scuola.
È oggettiva
la difficoltà dei docenti, per esempio, a conservare durante la video-lezione
una prospettiva laboratoriale e partecipata, così come, a fatica, molti di noi l’avevano
costruita nella quotidiana pratica didattica in classe. La continua e
necessaria verifica della funzionalità del canale comunicativo ci obbliga a
microfoni spenti, rigidi turni di parola e gestione degli interventi che
“ingessano” oltremodo la video-lezione, inibendo la possibilità di una reale e
pienamente soddisfacente dimensione di scambio. Si potrebbe definire la
Didattica a Distanza una didattica “radiale”, che tende, nel migliore dei casi,
a far convergere le domande e le considerazioni dei discenti sul docente, in
una relazione uno a uno, e molto meno fra i discenti fra loro. Viene dunque a
mancare il senso vero del gruppo-classe, della comunità discente che impara
(e cresce) grazie al confronto avviato al suo interno.
Partiamo
dagli alunni in situazione di difficoltà per arrivare a tutti
gli alunni. La scuola pubblica italiana garantisce il diritto all’apprendimento
a tutti gli studenti, qualunque sia la loro nazionalità e situazione sociale.
La scuola pubblica italiana garantisce il diritto all’apprendimento agli alunni
con disabilità. Questi diritti sono gravemente a rischio nell’attuale
situazione, nonostante tutti gli sforzi fatti (distribuzione di dispositivi in
comodato d’uso, assistenza tecnica a distanza…) e nonostante la grande
creatività e impegno e la cura di docenti ed educatori.
Le forme di
insegnamento a distanza, ammesso anche di essere nelle migliori condizioni possibili
dal punto di vista dei supporti, della connessione e della preparazione, non
sono in grado in nessuna maniera di sostituire per nessuno dei nostri alunni
l’appartenenza alla società educante della scuola e delle classi, dove si
impara dalla relazione, dal confronto, dalla diversità.
Ma entriamo
ancor più nel merito. Per molti la didattica a distanza si realizza in un unico
modo possibile: attraverso la lezione on line, detta anche lezione in
sincrono.
Proviamo a
smontare un’immagine: alunno fermo, insegnante che parla. Chi pensa alla scuola
a partire da qui non entra in una scuola da molto, di certo non in una scuola
Primaria, ma non solo. Immaginare una lezione on line, panacea di tutti i mali,
in questo modo: bambino “vuoto” che viene riempito dalle parole del docente, è
decisamente fuorviante.
Non è così
che funziona. Per questo i docenti, davanti all’emergenza e alle incerte, poco
note, vie della DaD, hanno in primo luogo pensato, non hanno “perso la testa” e
hanno recuperato la lucidità per le necessarie riflessioni pedagogiche.
Abbiamo
pensato e immaginato i nostri alunni a casa, in questa situazione, in primo luogo. Tutti insieme,
e uno a uno: Andrea che ha bisogno che io ripeta più volte la consegna
perché è ansioso, Lucia che prende sempre la parola, Luca che non riesce a star
fermo, Anna, che ha tre sorelle e una sola stanza, ma anche Marco che non parla
perché affetto da sindrome autistica… tutti e ognuno.
Gli
insegnanti si sono fermati a pensare, progettare e costruire, senza correre
dietro alle sirene della “lezione in sincrono”, e spesso, come è normale che
sia, hanno compiuto scelte didattiche diverse.
Cosa c’è
dietro a queste scelte? Ci sono discernimento e responsabilità. A questo fa
riferimento la nostra Costituzione quando stabilisce la libertà di
insegnamento. Qui la faccenda si fa importante: si tratta di tenere ben
fermo un principio costituzionale, che non fu scritto a “difesa” dei docenti,
ma a difesa del diritto all’educazione dei giovani cittadini
secondo i principi di una democrazia. L’insegnante non solo può, ma
deve rivendicare la sua discrezionalità, ovvero la sua libera scelta
responsabile che è in grado di motivare, di cui sa rendere ragione. È l’arte
del progettare, del programmare, del modificare e del riprogettare che è il suo
mestiere. L’apprendimento – insegnamento è un percorso e richiede
queste capacità.
Abbiamo
imparato molto e in fretta noi e i nostri studenti, anche i più piccoli: ci
siamo mossi, prima impacciati e poi sempre più spediti, nel linguaggio e nella
grafica dei nuovi mezzi, alcuni ci piacciono e non li abbandoneremo; abbiamo
recuperato, anche in campo informatico, l’arte del problem solving,
forse un po’ abbandonata mentre percorrevamo sentieri informatici divenuti
familiari. Abbiamo scoperto che i dispositivi e le piattaforme di condivisone
pongono problemi che neppure i cosiddetti “nativi digitali” si erano mai posti.
Anche loro, nell’emergenza, affiancati dai “dinosauri” digitali, hanno scoperto
come muoversi fuori dal rassicurante mondo delle app social e
del touch screen.
Noi ci siamo
assunti il dovere di renderli utilizzatori consapevoli di un mezzo che molti di
loro non conoscevano come strumento di lavoro ma solo di gioco, abbiamo ancora
una volta noi insegnanti svolto il nostro compito di insegnare ai ragazzi la
differenza tra consumatore di un bene e utilizzatore, e per farlo abbiamo
insegnato loro la responsabilità.
Come e più
che nelle lezioni in presenza, il docente è stato guida in questo apprendistato
cognitivo, facendosi
carico della selezione e validazione dei materiali, indicando risorse e
fornendo stimoli, avviando negli alunni l’apprendimento cooperativo e la
necessaria riflessione metacognitiva, nonché la critica delle informazioni.
Come e più
che nelle lezioni in presenza, il nostro agire didattico è oggi il frutto di
confronto, scambio e condivisione di buone prassi. Confronto tra
insegnanti curricolari, confronto tra insegnanti curricolari e
insegnanti di sostegno, tra insegnanti ed educatori, confronto tra insegnanti
di ruolo e insegnanti precari. Questi ultimi, spesso nominati ad anno
scolastico già in corso, si assumono la responsabilità didattica ed educativa
di classi nuove in scuole appena conosciute, con garanzie contrattuali e di
stipendio incerte, e anche in questa eccezionale situazione d’emergenza hanno
confermato la necessità della loro presenza e non sono mai venuti meno alla
propria responsabilità professionale.
Ma adesso,
cosa davvero ci preme? Pensare alla scuola che verrà.
Cosa ci
preoccupa? Non sentiamo parole riflettute, non percepiamo un progetto che
partendo da quanto sperimentato ci lanci in una vera innovazione. Non sentiamo,
non vediamo scelte politiche.
Si deve
continuare a investire per potenziare gli strumenti informatici delle nostre
scuole per le situazioni di emergenza, come quella che viviamo, e per
continuare ad arricchire gli attrezzi del nostro mestiere. Ma come? Davvero
l’unica strada è quella utilizzata in questa emergenza, ovvero affidarsi a
piattaforme di natura proprietaria? davvero non possiamo costruirci su risorse
open source?
Il vero
vuoto noi lo percepiamo là dove non si analizza la situazione, là dove non si
vede, non si vuole vedere perché “il re è nudo”: la scuola non potrà far fronte
alla fase 2 non perché non preparata e non provvista dal punto di vista
tecnologico, ma perché povera, estremamente povera.
Povera
di personale anzitutto, depredato dalle scellerate scelte dei
governi degli ultimi decenni; povera di spazi, perché in un paese
in cui nessun governo ha saputo affrontare l’enorme e delinquenziale evasione
fiscale, le strutture scolastiche, bene comune, erano già pesantemente
inadeguate alla vita quotidiana degli studenti.
L’emergenza
ha drammaticamente fatto venire al pettine i nodi di una politica di tagli che
ha privato di risorse essenziali la scuola, ma ha anche mostrato quanto la
scuola continui ad essere un cuore pulsante nella società e un punto di
riferimento per le famiglie.
Non va
lasciata sola.
Occorre non
solo investire sulla scuola dal punto di vista economico, ma anche riattivare
la rete di relazioni che le stanno intorno. Occorre oliare la grande macchina del Welfare,
riattivando le relazioni con le istituzioni locali, i Servizi Sociali ed
Educativi, la Neuropsichiatria e i medici di base per far fronte anche alle
molte sofferenze che il lockdown può avere acuito in alcuni contesti famigliari
a rischio, in minori con disabilità, di recente migrazione o in area devianza.
Ecco allora
ciò che davvero ci preme, è semplice, è fattibile, frutto di una necessaria
scelta politica:
- che la scuola sia considerata
dalla nostra politica una priorità;
- che i bambini e i ragazzi
tornino a frequentare la scuola, fondamentale comunità educante in cui
possono crescere e apprendere;
- che vengano stanziati fondi per
aumentare il personale, anche attraverso la stabilizzazione del personale
precario, per consentire la formazione di classi con minor numero di
alunni, per creare/reperire più spazi e renderli adeguati, per aumentare
il personale ausiliario e garantire la corretta pulizia degli ambienti,
che vengano cambiate le modalità di collaborazione tra scuola ed
educatori, figure professionali insostituibili e fortemente penalizzate.
La scuola
non è scuola se è solo tecnologia – Umberto Curi
Per quanto
ancora frammentari e non univoci, i messaggi che ci raggiungono in questo
esordio della fase 2 a proposito della scuola sono ben
più che allarmanti. Pur prescindendo dai provvedimenti adottati a partire dalla
fine di febbraio, e sostanzialmente prorogati fino al prossimo mese di
settembre, concentrati sulla chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, ciò
che preoccupa non poco è quanto filtra relativamente a ciò che dovrebbe
accadere nel prossimo anno scolastico. Per dirla in estrema – ma realistica –
sintesi, la prospettiva che emerge è quella di una definitiva e
irreversibile liquidazione della scuola nella sua configurazione
tradizionale, sostituita da un’ulteriore generalizzazione e da una ancor più
pervasiva estensione delle modalità telematiche di
insegnamento.
Esibendo in
numerose occasioni un atteggiamento immotivatamente trionfalistico, neanche si
trattasse di annunciare la cancellazione del contagio virale, i responsabili
governativi della pubblica istruzione hanno delineato la nuova fisionomia che
le scuole dovrebbero assumere. Non si tratterà soltanto di utilizzare le
tecnologie da remoto per trasmettere i contenuti delle varie
discipline, ma piuttosto di convertire una sciagura in un’opportunità,
attraverso un profondo rinnovamento del “fare scuola” da ogni punto di vista.
Ebbene, si
può certamente riconoscere – come da più parti nel corso degli ultimi anni si è
sostenuto in maniera argomentata – che la scuola italiana avrebbe bisogno di
interventi mirati, collocati su piani diversi, tali da investire gli stessi
modelli della formazione e lo statuto epistemologico delle varie discipline. Ma
altro è porre all’ordine del giorno un complessivo e articolato processo
di riforma, frutto di una preventiva e meditata elaborazione
teorica, altra cosa è sacrificare sul paganissimo altare della tecnologia
identità, ruolo, funzioni, obbiettivi, della scuola, considerando comunque
secondaria e pleonastica la dimensione della socialità, sia in senso
orizzontale, fra gli allievi, sia nella direzione verticale del rapporto con i
docenti. Altro è assumere iniziative di protezione dei discenti e del personale
scolastico, e altro è appiattire il complesso processo dell’educazione sulla
dimensione riduttiva dell’istruzione.
Nessuno
sottovaluta i vincoli oggettivi che potrebbero persistere anche nel
prossimo autunno, rendendo troppo rischioso il tentativo di ritorno
alla normalità. Ma dare superficialmente per assodata l’intercambiabilità fra
le due modalità di insegnamento – in presenza o da remoto – vuol dire non aver
colto il fondamento culturale e civile della scuola, dimostrandosi immemori di
una tradizione che dura da più di due millenni e mezzo e che non può essere
allegramente rimpiazzata dai monitor dei computer o dalla
distribuzione di tablet. E’ probabilmente superfluo ricordare che il termine
greco scholé, dal quale derivano i termini che nelle lingue moderne
descrivono la scuola, indica originariamente quella dimensione di tempo che è
liberata dalle necessità del lavoro servile, e può dunque essere impegnata per
lo svolgimento di attività più nobili, più corrispondenti alla dignità dell’uomo.
Erede non indegna di questa tradizione, la scuola italiana rischia
concretamente di essere spazzata via non dal virus, ma da una
inappropriata e irresponsabile risposta all’incombere della minaccia virale.
SCUOLA
RESISTENTE AL TEMPO DEL COVID19: FINESTRA SU FORMAZIONE E DINTORNI, di Stefano
Bertoldi e Nicola Giua
QUI si può ascoltare la trasmissione su Radio
Onda d’Urto
Oltre l’emergenza. Proposte per una scuola sconfinata – Anna Polo
Una vera e
propria maratona. Domenica 10 maggio dalle 16.30 alle 19.30 trentatré relatrici
e relatori si fanno promotori di una scuola che risponda all’emergenza,
coniugando quella educativa e quella della salute. Cinque minuti a
testa per presentare le prime proposte da sottoporre all’amministrazione
comunale di Milano.
Immaginare
la scuola del futuro ponendo al centro il benessere dei bambini e delle
bambine, senza ridurre la discussione sulla ripartenza solo ad aspetti medici e
tecnici: questo è l’obiettivo del convegno in streaming ‘La Scuola sconfinata.
Oltre l’emergenza. Proposte per la città di Milano’ organizzato dal movimento ‘E Tu Da Che
Parte Stai?’ che riunisce domenica prossima intorno a tavoli
tematici docenti, pedagogisti, medici, dirigenti scolastici, architetti,
educatori. Tutti insieme per confrontarsi e presentare proposte concrete, da
inserire in un documento che verrà poi consegnato all’amministrazione milanese.
Abbiamo
intervistato Annabella Coiro della rete di scuole EDUMANA e Antonella Meiani,
maestra di scuola primaria e autrice di vari libri, entrambe co-fondatrici del
movimento ‘Etudachepartestai?’, in prima linea nell’organizzazione di questo
appuntamento:
C’è molta
confusione sulla riapertura delle scuole. Cosa aggiunge questa maratona di
idee?
Annabella: C’è una tendenza crescente a
considerare la riapertura delle scuole come un insieme di problemi puramente
tecnici. Noi vogliamo mettere a disposizione le nostre esperienze e competenze
per proporre un percorso partecipativo e orientato al futuro, un insieme di
visioni e pratiche. E’ questo che ci appare oggi necessario ed è su questo che
vogliamo lavorare, con l’obiettivo di indicare sia gli indirizzi sia gli
strumenti utili per una scuola che risponda non solo alle esigenze di oggi, ma
anche a quelle di un futuro sempre più complesso, come teorizzato da molti
studiosi. Le nostre proposte sono dirette al Comune di Milano, ma speriamo che
possano essere utili anche altrove.
Perché
questo appuntamento proprio ora?
Antonella: L’emergenza sanitaria causata dal
Covid-19 ha sconvolto le vite di tutti e ancor più quelle dei bambini e delle
bambine, dei ragazzi e delle ragazze, che hanno visto sospendere
improvvisamente le lezioni e insieme ad esse la loro socialità. Questo nuovo
virus ci obbliga ora a ripensare gli spazi della scuola, ma in questa necessità
c’è anche una sfida che vogliamo cogliere, quella di pensare al futuro partendo
dalle esigenze di coloro che ogni giorno vivono le classi e mettendo a
confronto idee e proposte. Per un futuro che superi temporalmente quello del
Covid-19.
Perché un
format così serrato? Non sarebbe stato meglio un dibattito, un confronto?
Annabella: È da molto tempo che ci
confrontiamo. Ci sono molte persone che da anni lavorano su questi temi;
indipendentemente dal Covid-19, desideriamo raccogliere questi pensieri e
renderli concreti, per poi pubblicare gli studi, i dibattiti e il confronto
anche con la stessa amministrazione comunale. Oggi lo sforzo è quello di
trovare dei punti in comune che non solo ci facciano uscire dalla crisi, ma ci
permettano anche di trasformare la scuola, rimettendola al centro di un
processo educativo fondamentale per la crescita sana e evolutiva dei cittadini
e delle cittadine che popoleranno il futuro.
In passato
ti sei occupata di comunicazione. Perché questo titolo: La Scuola sconfinata?
Annabella: Le parole sono molto importanti.
Abbiamo chiesto a Paolo Mamo dell’agenzia Altavia di aiutarci e abbiamo
condiviso l’idea che la scuola abbia bisogno di pensarsi senza confini, fisici
o immateriali. Così è nata La Scuola Sconfinata. Abbiamo bisogno di una scuola
capace di essere davvero aperta: aperta al valore delle differenze, aperta ai
territori, diffusa. Una scuola sconfinata è una scuola che condivide il suo
valore anche oltre il perimetro della comunità scolastica. Inoltre l’evento
sarà seguito in diretta dal Graphic Recorder Roberto Sitta, perché pensiamo che
sia necessario parlare direttamente anche con i più giovani, utilizzando un
multi-linguaggio.
Chi sono i
relatori e le relatrici e come li avete scelti?
Antonella: Potete trovare qui l’elenco completo sul sito. Sono persone famose e
meno famose, ma tutte impegnate da anni sui temi di una scuola educativa di
tutte e tutti. È solo un primo appuntamento; le persone che abbiamo pensato di
coinvolgere da subito sono tra i promotori e i firmatari del Manifesto Umanità
o Indifferenza e persone che riteniamo sostengano concretamente
le aree tematiche che lo compongono.
Puoi
anticipare in poche parole qual è la vostra proposta di scuola del futuro?
Annabella: Ascolteremo tante proposte dai relatori e dalle relatrici. La
risposta non è una sola; io posso parlare della mia idea generale, che è anche
quella del Movimento Etudachepartestai e della rete EDUMANA. La
scuola non è un problema tecnico e la didattica a distanza non è la soluzione.
Parliamo di una scuola con più persone dedicate e competenze
differenziate, più spazi significativi, più tempo, più prevenzione, più
importanza alla relazione generativa. La scuola è il perno per eliminare le diseguaglianze
e promuovere una cultura della nonviolenza e del dialogo e questa non è una
questione di emergenza.
QUI
la registrazione dell’incontro
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