venerdì 15 maggio 2020

L'insostenibile pesantezza della didattica a distanza


Per una scuola libera e viva (dentro e fuori le mura) - Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Renata Puleo, Andrea Cerroni, Gianni Vacchelli, Ivan Cervesato, Vittorio Perego

Premessa
Lungi dall’essere un’opportunità per cambiare paradigma, come alcuni sembrano suggerire, la Didattica a Distanza è solo la risposta immediata, necessaria e temporanea, ad una crisi sanitaria senza precedenti.
Non una scelta, ma uno sforzo collettivo; non un destino, ma una didattica dell’emergenza, generosamente disomogenea, a tratti improvvisata agli inizi, progressivamente più condivisa e organizzata col trascorrere delle settimane.
Una manifestazione di deontologia professionale, nel rispetto del compito educativo che la nostra Costituzione attribuisce agli insegnanti e, con modalità e profili diversi, alle figure genitoriali, all’intero corpo sociale. Una garanzia per il diritto-dovere all’istruzione, la cui tutela è ancor più necessaria – oggi – a scuola sospesa, costretta al solo spazio virtuale. Anche perché la tecnologia è una “cultura”, che non è in alcun modo neutra, ma che nasce situata e “situa” chi la usa. Come dimenticare poi lo stretto e ormai soffocante legame tra tecnologia ed economicizzazione/aziendalizzazione della scuola, nel regno della quantificazione e della misurabilità?
Nell’ipotesi di un ritorno nelle classi controllato, da parte di circa 8 milioni di studenti e quasi un milione di insegnanti, e nell’attesa di condividere, non appena possibile, luoghi e spazi fisici in presenza, pensiamo valga la pena sottolineare alcuni aspetti che fanno sì che la scuola possa essere ancora libera, viva e significativa: dentro e fuori le mura.
  • Niente Linee Guida, nessuna standardizzazione
Il fascino per Linee Guida e curricoli chiavi in mano, per la didattica a distanza e non solo, distinti per ordini e discipline, non ha cessato di sedurre le politiche scolastiche degli ultimi decenni. Efficientamento e standardizzazione, monitoraggio e rendicontazione, appaiono mascherati dalla retorica dell’inclusione, dell’equità di accesso e da presunte opportunità alla pari. Una visione povera e al ribasso, priva di qualsiasi profondità politica e civile. Non accettiamo l’idea che l’emergenza possa trasformarsi in un’occasione da impiegare con destrezza, per realizzare progetti di riforma, vecchi o nuovi. Essi devono essere frutto di ampia dialettica politica e non scelta tecnica dell’ennesima task force di esperti.
La scuola non ha bisogno di alcuna pedagogia della distanza. Il suo compito è scritto nella Costituzione, la sua organizzazione nei Decreti Delegati, il suo sfondo culturale nelle Indicazioni Nazionali: prima, durante e dopo l’emergenza.
Non serve indicare metodi, tipo flipped classroom, o modelli di elearning, fornire elenchi di Unità di Apprendimento a Distanza.  Nessuna metodologia preferenziale può surrogare la scuola viva che nasce dall’incontro e dal contesto, soprattutto per gli studenti più fragili. L’apprendimento di saperi è frutto di relazioni ed esperienza; la qualità emergente, tipica del legame sistemico, consente la continua elaborazione dei saperi, il loro uso come chiavi di lettura critica del mondo. Standardizzare l’apprendimento non salvaguarda dalle iniquità; le disuguaglianze non si annullano con lo stesso insegnante on line. La possibilità per tutti di accesso alla rete e il possesso di dispositivi digitali non deve avere lo scopo di uniformare l’insegnamento e di produrre conformismo e omologazione, ma rappresenta un diritto alla fruizione di un bene collettivo (Internet Bill of Rights – Commissione S. Rodotà 2015).
  •     La libertà di insegnamento come garanzia di ricchezza
Il libero confronto, la pluralità di mezzi, strumenti e scambi, la ricchezza di opzioni e approcci possono rendere la didattica a distanza, nonostante le condizioni inedite e avverse, un’esperienza arricchente e significativa. I supporti rassicuranti e orientanti, formulati dalle migliori menti didattiche del Paese – i Content Manager – gestite dagli efficienti Instructional Designer, non sono che una versione rilucidata di pratiche di training e formazione aziendale, una trasmissione apodittica, in contrasto con l’art.33 della nostra Costituzione. La libertà intellettuale, la possibilità di scegliere contenuti e metodi sono garanzie di pluralismo e di sviluppo di una coscienza civile critica e capace di decifrare in maniera libera la complessa realtà che stiamo vivendo.
  •  In presenza e a distanza
Esistono pratiche e discipline in cui è insostituibile la presenza, ad esempio  i laboratori previsti per alcuni ordini di scuola, le attività sperimentali (lo stesso potremmo dire per i tirocini in classe per gli insegnanti in anno di prova), ma è altrettanto vero che ogni sapere – dalla filosofia alla progettazione artistica o tecnica – necessita di essere costruito attraverso un confronto vivo e articolato, con attività e materiali da sviluppare e su cui  far ragionare assieme mente-mano. L’insegnante non è un mero supporto ostensivo-assistenziale e la relazione educativa è una relazione comunicativa complessa e coinvolgente; non uno scambio di bit da una stazione di controllo all’altra.
  •   La formazione degli insegnanti
Secondo alcuni, sarebbe oggi fondamentale fornire ai docenti una formazione focalizzata sulla Didattica a Distanza. Questo breve periodo ha tuttavia mostrato, da parte di una categoria per ragioni anagrafiche non nativa digitale, una grande capacità di adattamento all’emergenza. La proposta di formazione standardizzata e generalizzata è una falsa necessità, mentre denota una volontà di disciplinamento. Buone pratiche didattiche, altrettanto buone relazioni con gli alunni, sono messe in atto da coloro che già hanno lavorato con dedizione e uno stile docente coltivato nella scuola in presenza. Spesso – è stato fatto notare – proprio coloro che hanno praticato una didattica della distanza già nelle loro classi, trovano rifugio nella standardizzazione dei formati proposti dal web. Pensiamo che mai come in questa fase occorra ridefinire i compiti di istituto dell’INDIRE. Si tratta non tanto di spalleggiare l’innovazione didattica (vera o presunta tale) tipica da questa fase eccezionale, ma di offrire ai docenti – come proposta e non come obbligo formativo – una banca di esperienze di lavoro, con una inedita capacità di raccogliere e mettere a disposizione quello che migliaia di insegnanti e di pedagogisti hanno costruito negli ultimi cinquanta anni. Azzardiamo: comprese le esperienze non replicabili, e quelle di cui si possono oggi intravvedere le aporie: la formazione, come ogni altro apprendimento, si fa anche a partire dalla riconsiderazione degli errori.
  •    Sulla valutazione
Crediamo non più derogabile una moratoria sui dispositivi di valutazione, nell’attesa di un dibattito e di un ripensamento dell’intero Sistema Nazionale di Valutazione; riconsiderazione già più volte – ben prima di questa fase emergenziale – sollecitata dalle organizzazioni sindacali di categoria, da associazioni di insegnanti, dalle famiglie, dalle unioni degli studenti, dai pedagogisti più avvertiti. Tale sospensione si rende oggi assolutamente necessaria.
La condizione di emergenza ci ha ricordato una volta di più che ogni didattica, in presenza o a distanza, è sempre confutabile, legata ai contesti, alla pragmatica della comunicazione. Nessuna Unità Didattica, nemmeno la più rigorosa nell’impianto, sarà mai uguale alla sua replica.
Eppure, anche a distanza, è proseguita la ricerca spasmodica di una valutazione quantitativa, la volontà di perseguire a tutti i costi una misurazione in termini numerici del rendimento: l’attribuzione dei voti, chi merita 5 avrà 5, dunque delle verifiche, e della procedura degli esami, seri e rigorosi (L. Azzolina, Ministra). Con il rischio di incorrere nella farsa della promozione per tutti ma scalettata con voti, ricavati in media fra un primo quadrimestre “normale” e un secondo emergenziale. L’aspetto formale ha continuato ad essere prevalente, snaturando il concetto stesso di valutazione, con la stessa logica burocratica, contrassegnata da presunte efficienza e serietà, che prescrive l’espletamento del programma.
Solo se del processo di valutazione sarà privilegiato l’aspetto formativo, articolato sulla discussione dell’errore, verranno ad essere superflui molti dispositivi pensati dalla più recente normativa sulla valutazione (Regolamento 80/2013 e Dlgs 62/2017): rapporti, piani di miglioramento, confronti fra scuole a carattere competitivo, improbabili calcoli sul valore aggiunto.
Spariti in un soffio solo test INVALSI, addestramenti e Alternanza Scuola Lavoro  (PCTO), usiamo questa parentesi, breve o lunga che sia, per alimentare il desiderio della scuola che vogliamo, proprio a partire da quelle esperienze a nostro giudizio poco virtuose.
Proposte
Nel merito, formuliamo alcune proposte, con diverso grado di fattibilità per ordine di scuola, considerando che esiste una forte limitazione, in quelle già altrove formulate, per alcune fasce di alunni. Pensiamo ai più piccoli, che frequentano la scuola dell’infanzia e almeno i primi tre anni della primaria, ai minori sotto protezione delle norme per l’inclusione a causa di problematiche di diverso tipo (fisico, cognitivo, relazionale, bisognosi di assistenza alla comunicazione in LIS e in Braille). Così come occorre pensare a forme di frequenza in sicurezza per le bambine e i bambini della fascia 0/3 (livello essenziale non solo per ragioni assistenziali, di welfare, ma per motivazioni educative, pedagogiche).  In questi casi serve lo slancio congiunto di intelligenze e di collaborazione fra soggetti istituzionali, un notevole sforzo economico e organizzativo di supporto al lavoro di cura rivolto alle figure genitoriali.
  1. Classi con numero ridotto di alunni(10-15)
  2. Investimentonell’organico dei docenti: un’azione di programmazione consapevole di duplicazione degli organici (potenziamento del tempo pieno nella scuola dell’infanzia e primaria) mediante assunzioni, senza ricorso ad un precariato stremato da anni di incertezza
  3. Potenziamento delle reti civiche di connettività
  4. Insegnanti in aula(dal primo giorno di scuola) dotati di tutti i dispositivi sanitari adeguati, con buona strumentazione informatica e altri usuali sussidi didattici.
  5. Impiego di locali inutilizzati(caserme, fabbriche dismesse, etc), coinvolgimento degli enti locali per l’individuazione di spazi e risorse (servizi educativi, mobilità), delle realtà associative.
  6. Adeguamento agli standard di sicurezza, agibilità e abitabilità degli edifici scolastici, soprattutto degli spazi esterni, guadagnandone di nuovi, ove possibile (cortili, aree limitrofe, campi gioco anche di altre pertinenze come in progetti avviati nel passato di uso di spazi condominiali vicini alla scuola)
  7. Aperture straordinariedi biblioteche, luoghi di aggregazione, teatri, spazi di quartiere, i cui ambienti e materiali possano essere fruiti con turnazioni e in sicurezza.
Infine, nell’attesa di un dibattito ampio con tutte le parti sociali, ribadiamo: moratoria sui dispositivi di valutazione vigenti.
Conclusioni
Se opportunità deve essere, questa emergenza dovrà esserlo per tenere bene in mente cosa è essenziale, cosa è superfluo, cosa è dannoso per il futuro: non rimpiangiamo astrattamente la scuola di ieri – di cui ben conosciamo i difetti dovuti a anni e anni di assenza di buone politiche e di un succedersi di riforme e controriforme – né prefiguriamo la scuola digitale di domani (ogni studente, un device; ogni istituto, un cloud). Eppure, è proprio la scuola del pluralismo e dei Decreti Delegati, nonostante tutti i tentativi di delegittimazione subiti nel corso di oltre 30 anni, che sta mostrando tutte le sue risorse intellettuali e professionali nella partita dell’emergenza.
Solo una scuola libera è una scuola viva.


INVALSI, Fase 2: vergogna! - Anna Angelucci

Nella fase 1, che dura da anni e che ci ammorba ben prima del coronavirus, l’Invalsi ha lavorato alacremente per inoculare nella scuola il veleno della misurazione, delle competenze, dell’oggettività di fantomatici apprendimenti degli studenti da testare con il suo fastidiosissimo termometro, ancorché spuntato. Nessuna ‘falsificazione’ di popperiana memoria, quantunque prevista e necessaria per la verifica di qualsivoglia teoria scientifica, ha potuto neppure incrinare il suo principio di veridizione, assurto metafisicamente a dogma dai tronfi sacerdoti dell’Istituto, da generazioni di politici-lacchè di destra, sinistra e centro e da inossidabili burocrati ministeriali, tutti fedelmente preposti al rito vuoto della valutazione del sistema d’istruzione. Che trovava in sé, a prescindere dall’infondatezza e dall’autoreferenzialità degli strumenti messi in campo per misurare tutto e non modificare nulla, la sua soddisfatta ragion d’essere. Tanto capillare – e costosa – quanto inutile.
Nel frattempo, la scuola (che nasceva, sarebbe bene ricordarlo urbi et orbi, come istituzione della Repubblica costituzionalmente preposta a sanare le differenze socio-culturali di partenza), sempre più trasformata in ente locale erogatore di servizi on demand, gestita da un sistema misto pubblico-privato guidato da incapaci staff dirigenziali, subiva le pressioni del mondo produttivo 4.0[1] che la voleva piegata alla mera formazione di lavoratori operativamente competenti ma cerebralmente incapienti, abili nel fare rapidi copia-incolla ma privi di cultura e capacità di comprensione di sé e del mondo. L’uso pervasivo dei test standardizzati a crocette inaugurato dall’Invalsi si è travasato rapidamente nelle pratiche didattiche delle scuole, realizzando da valle quella torsione pedagogica a monte che ha trasformato l’educazione in addestramento, sotto lo sguardo attonito di chi, sempre più solo e sempre più marginalizzato, ha continuato a difendere i percorsi lunghi, lenti, faticosi, soggettivi, situati, personali e incorporati (e dunque soggettivamente valutabili) dell’acquisizione della conoscenza e dei saperi. Vox clamantis in deserto[2].
Poi è arrivato il coronavirus. Che, nella crisi sanitaria, ha imposto di necessità il trasloco armi e bagagli della scuola in presenza nella distanza di 8 milioni di case, tante quanti sono i nostri studenti. Mentre i docenti si arrabattavano con gli alunni non solo per svolgere ma soprattutto per dare senso a questa didattica dell’emergenza, la ministra esternava sui media improbabili soluzioni concrete puntualmente rimangiate, i suoi fidi collaboratori poetavano su circolari scritte in versi burocratici suggerimenti didattici grondanti di retorica bonomia, e infine si insediava anche al MIUR una bella task force guidata dall’ennesimo economista preposta a riorganizzare la scuola dell’era Covid a suon di investimenti ultramilionari non per la necessaria e indifferibile edilizia scolastica ecosostenibile ma per comprare computer dalle multinazionali e incrementare le connessioni della rete. La scuola 4.0 immaginata come una mega infrastruttura digitale.
                Ci aspettavamo che i signori Invalsi, un ente preposto e finanziato anche per la ricerca educativa, ci dessero nel frattempo qualche utile suggerimento. Che la presidente dell’Invalsi, ordinaria di Psicologia dello sviluppo, aiutasse maestre, studenti e famiglie nella gestione delicata di una didattica a distanza rocambolescamente e angosciosamente adottata, giorno dopo giorno, nella paura, nella preoccupazione, nelle difficoltà economiche, nel divario sociale, nel contesto politico patogeno, ben più del virus, che con le sue scelte scellerate passate e presenti sta compromettendo drammaticamente la possibilità di futuro di 60 milioni di italiani.
Niente di tutto questo. Due mesi di assordante silenzio, rotto solo adesso dall’improvvida notizia che per settembre l’Istituto ha messo a punto la sua bella, stra-ordinaria, ennesima batteria di test per misurare le “competenze apprese durante il periodo della didattica a distanza”. Senza minimamente intervenire, neppure una sola volta, nel merito della didattica a distanza svolta in condizioni d’emergenza, delle sue implicazioni, dei suoi correlati cognitivi e metacognitivi, dei suoi risvolti scientifici, della complessità dei suoi aspetti teoretici e del suo svolgimento pratico, l’Istituto ha alacremente lavorato per noi. Nulla di obbligatorio e calendarizzato, per carità. Il direttore generale Paolo Mazzoli, che quando era un semplice dirigente scolastico e prima ancora maestro elementare, pensava che “fare scienze vuol dire aiutare i bambini a guardare con curiosità i fatti del mondo”[3]ci tranquillizza dicendo che queste prove “non sono obbligatorie e non hanno alcun significato valutativo, ma vogliono essere una misurazione per scopi di progettazione didattica”, specificando altresì che Invalsi, servizievolmente – bontà sua – offre a scuole e docenti la possibilità di una “valutazione attendibile”[4].
Perché, quella che i docenti stanno implementando in queste settimane di impegno e di fatica, non lo è? Il coronavirus è forse l’occasione ghiotta per commissariare definitivamente gli insegnanti? L’occasione ghiotta per distruggere il poco che resta della scuola dopo la truffa della “buona scuola”; dopo la torsione pedagogica delle ‘competenze trasversali’ e dello ‘spirito di imprenditorialità’; dopo l’istituzione di un Sistema Nazionale di Valutazione che ha frullato e impastato per anni numeri, dati e statistiche senza produrre un solo effetto migliorativo sulla scuola italiana, piuttosto peggiorandolo; dopo la trasformazione burocratica della disabilità in BES; dopo l’insufflamento nelle classi pollaio che oggi si pensa di risolvere con gli schermi pollaio; dopo che la sopravvivenza fisica è garantita alle sole figure apicali del Ministero e dell’Invalsi lautamente remunerate, mentre 8 milioni di studenti e 800.000 docenti stanno per scomparire nel web senza che nessuno si ponga il problema delle implicazioni psicologiche, antropologiche, pedagogiche, professionali, o più semplicemente umane, che questo potrà comportare?
A fronte di un quadro tanto devastato che anche un cieco ormai sarebbe in grado di vedere, quello che conta davvero è solo produrre in silenzio l’ennesima batteria di test attendibili.
Perché in questo momento non mi viene in mente nessun’altra parola se non VERGOGNA?

[1] Anna Angelucci, Giuseppe Aragno, Le mani sulla scuola. La crisi della libertà di insegnare e di imparare, Castelvecchi, Roma, 2020
[2] Si leggano gli articoli sulla scuola di Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Renata Puleo et al. pubblicati sul sito di Roars
[3] N. Lanciano, M.Iacona, F. Fedele (a cura di), L’educazione scientifica nelle scuole dei piccoli, vol.1, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2008, p.28
[4] Alex Corlazzoli, “Coronavirus, la proposta Invalsi: “Test per misurare le competenze apprese dagli studenti durante i mesi di didattica a distanza”, Il Fatto Quohttps://www.roars.it/online/invalsi-fase-2-vergogna/
tidiano, 29 aprile 2020

Perché non mi associo all’entusiasmo sulla didattica a distanza - Teodoro Margarita

Collegi docenti, consigli di classe, opinionisti, colleghi esimi tutti entusiasti del nuovo verbo magico, il mantra che sta pervadendo la scuola italiana in questi  tempi di coronavirus. È un peana immenso, una gran celebrazione di questi nuovi strumenti telematici.
Faccio l’insegnante da circa trent’anni. Soprattutto, lo faccio alle scuole medie, ovvero le scuole di tutti, quelle dell’obbligo, ossia la vera “trincea” la scuola che prende in carico i figlie e le figlie di tutti. Non mi associo al generale entusiasmo per queste nuove modalità educative. Soprattutto non mi persuadono alla scuola dell’obbligo e per i minori. Si enfatizza la scuola come “comunità educante”, e lo è, lo deve essere. Un insegnante dovrebbe essere una figura di riferimento sociale importante nella sua comunità. Certo, la precarizzazione, i tagli lineari perseguiti dai governi in questi ultimi dieci anni, così come  nella Sanità, non hanno certo contribuito a costruire questa, adesso tanto invocata, “comunità educante” per non tacere del vero e proprio fango a palate gettato da capi del governo come Berlusconi contro gli insegnanti, dell’opera di demolizione capillare della figura del professore, ripresa ed enfatizzata dai social. Gli insegnanti sbattuti in prima pagina in ogni occasione possibile come mostri. Il risultato è stato il venir fuori di una guerra tra poveri sfociata in attacchi talvolta anche fisici, contro di essi. Tutto questo fango sollevato per giustificare i tagli, tagli di insegnanti, tagli pesantissimi al bilancio, dieci miliardi di euro. Tagli e contemporaneamente, sussidi e riconoscimenti sempre più tangibili alla scuola privata in barba al sacrosanto principio costituzionale dell’insegnamento privato garantito ma “non a carico dello Stato”. Adesso su piattaforme private improvvisate, italiane o americane, si è spostata la didattica. Gli studi più seri indicano il gap tra diverse Italie: da regioni dove la didattica a distanza raggiunge tutti o quasi (e quel “quasi” non è trascurabile) a regioni dove neppure il segnale arriva dappertutto. Noi  non siamo insegnanti lavoranti in proprio, facciamo parte di un sistema educativo nazionale. Un sistema educativo nazionale che ha i propri pilastri nei valori unificanti e tra questi, soprattutto, c’è il fare lezione in aule più o meno bene illuminate e spaziose, in scuole più o meno attrezzate ma scuole dove la vigilanza è garantita dalla presenza fisica degli insegnanti che non solo insegnano ma osservano, annusano l’aria, capiscono i propri ragazzi e hanno il dovere di segnalare le anomalie o quanto possa turbare la vita non solo scolastica degli alunni. Con la didattica a distanza tutto ciò viene irrimediabilmente meno. 
Questa pandemia con i suoi lutti e le sue sofferenze, ci ha colto tutti di sorpresa anche nel mondo della scuola. Giustamente sospese le attività didattiche nelle aule, per limitare il contagio, si lancia questo mai tentato, collaudato prima, esperimento di massa di didattica a distanza. Con poca formazione, senza una necessaria ed esaustiva conoscenza di tutte le conseguenze, positive e negative, senza nessuna precauzione, senza riflessioni serie sull’impatto che questo ha sulla salute psicofisica degli alunni e degli insegnanti, si procede.
Eppure, sono infinite le obiezioni, e pesantissime, che si possono e si devono muovere a questa fattispecie di didattica, in special modo se rivolta a minori. Già vedevamo i nostri alunni in preda agli smartphone, i cellulari o telefonini, non è necessario esibire gli infiniti studi sulla deprivazione sensoriale che questi comportano usati in maniera compulsiva. Dai videogiochi alle chat, dalle piattaforme social come Instagram o Tik Tok, lamentiamo che l’attenzione dei nostri ragazzi alle lezioni è sempre ridotta, orientare la propria vista su uno schermo, perdere progressivamente la visione a trecentosessanta gradi della realtà, spossessa e depriva, la messe di lavori che attestano l’insorgere di depressione e ansia, l’incapacità di articolare un linguaggio, il rinchiudersi in se stessi e quindi, da parte della scuola il dovere e la necessità di “aprire gli occhi e il cuore” dei nostri ragazzi verso il mondo reale, non è messo in discussione da una didattica a distanza praticata acriticamente?
Questa metodologia è solo un surrogato di scuola. Nessuna “comunità educante” potrà mai prescindere dalla viva e vigile dell’insegnante. L’insegnante più sprovveduto, quello meno preparato, saprà pur capire perché un bambino appare demotivato, perché arriva in classe con gli occhi gonfi o indossa sempre gli stessi abiti e magari non proprio lindi. Un senso del fare scuola sta in questo, sta nel proporre non solamente una “didattica” ma nel porgere occasione a tutti, ma proprio a tutti, per esempio, una visita a un museo, a un  luogo d’arte o anche una gita in una riserva naturale. Quante famiglie mai e poi mai, per mancanza di mezzi o per disinteresse totale, non si danno o non possono neppure permettersi simili, basilari cose? La scuola è il presidio della cultura della nazione. La scuola è la sede naturale dove crescere generazioni preparate, consapevoli, coscienti del proprio dovere di aumentare tutte le competenze personali, non solo quelle di tipo tecnico. Sapere apprezzare un quadro, avere sguardi per un paesaggio, riconoscere la poesia e la delicatezza di un linguaggio più ricco dalla sconcezza di tanto latrare da social: questa una missione che la scuola italiana compie. E che ogni insegnante ma proprio tutti, compiono.
A distanza tutto questo non esiste. A distanza tutto questo non esiste e non è possibile.
Nella mia scuola, molto a malincuore, dopo oltre trent’anni, è stato annullato un viaggio in Francia, un gemellaggio che ha una tradizione consolidata. La mia didattica quotidiana, insegno lingua francese, prevede, naturalmente, nella descrizione di un paese transalpino, quella di uno esistente davvero, ci siamo stati decine di volte, relazioni personali, amicizie, accoglienza sono scaturite, persino occasioni di lavoro, affetti, in seguito a questi viaggi.
Non abbiamo neppure avuto il tempo di riflettere sul senso di questa perdita.
E non è solo questo. Per effettuare la didattica a distanza vengono adottate piattaforme le più disparate. Sapendo che il responsabile per la privacy dello Stato tedesco dell’Assia, la regione di Francoforte, per intenderci, grande ed equivalente alla Lombardia, ha espressamente vietato e bandito ogni uso nelle proprie scuole di Michael Ronellenfitsch Open Office 365 e il sistema Windows 10, l’accusa, provata, era che questo sistema violava le norme europee e dell’Assia sulla riservatezza dei dati che in base al Cloud Act di Donald Trump, Windows puramente e semplicemente inviava negli Stati Uniti: detto semplicemente, le scuole che usavano quel sistema erano  profilate, spiate, una messe di dati sensibili regalati agli istituti americani. Noi siamo tenuti alla riservatezza, siamo tenuti alla vigilanza più scrupolosa su questi dati, adoperiamo, per esempio, siamo tenuti a farlo, sistemi di mail criptati ed ogni volta dobbiamo ricevere un codice apposito quando comunichiamo dati sensibili su alunni diversamente abili. Allora, non si pone la necessità assoluta di una piattaforma nazionale garantita dallo Stato italiano e non da Google, Microsoft o chissà da chi, ente multinazionale privato che dei nostri dati può fare e fa quello che vuole ai fini di una profilazione di massa di ogni tendenza, pensiero, espressione di problematicità nella  nostra scuola?  Gli insegnanti non possono e né devono tacere su queste cose.
Se noi docenti non siamo l’espressione più viva e consapevole dei presupposti ontologici del nostro fare scuola anche a distanza, non siamo docenti. Lo Stato deve provvedere all’adozione di una propria piattaforma per la didattica a distanza, questo è il minimo dovuto, per garantire la sovranità nella gestione dei dati. Non è possibile che un insegnante, in buona fede, lavori su piattaforme telematiche, Google, per esempio, col dubbio di essere spiato, profilato, sorvegliato. Se qualcuno ha la legittimità, in base a presupposti legali incontrovertibili e dimostrabili in sede legale, questi è lo Stato. Solo lo Stato, nelle vesti del Ministero della pubblica istruzione e nessun altro.
Esistono altri pericoli, e parlo di minacce ai diritti del lavoratore, a proposito di “didattica a distanza”. Se un insegnante si rompe una gamba, e quindi sta a casa, sarà tenuto, per il futuro, a lavorare comunque a distanza? Una domanda non peregrina come potrebbe sembrare.
Questo improvviso esperimento di massa chiamato “didattica a distanza” pone innumerevoli e gravosi dubbi, che non soltanto gli “esperti” siano chiamati a pensare ed  elaborare strumenti di risoluzione delle criticità, che ciascun docente si debba porre questioni come queste, è ineludibile. Il mondo della scuola deve pensare. Al mondo della scuola appartiene il paese Italia per intero.
Ho provato ad esprimermi, a cercare di capire. Poi, sono certamente persuaso che è meglio, in tempi di quarantena, di assoluta e necessaria impossibilitò di una vita sociale normale, impegnare gli alunni in video conferenze, diversamente, molti, cosa farebbero? Solamente, sulle piattaforme adoperate, sulla garanzia del trattamento dei dati, su infinite e spinose questioni del controllo e  della democrazia, sulla libertà del pensiero, credo che si debba ragionare e non poco.

Ma la scuola non può vendersi ai giganti del web – Giuseppe Caliceti
Per la scuola a distanza, il ministero dell’istruzione ha dato indicazioni agli istituti attraverso circolare protocollata sulle piattaforme da usare. Quali? Colossi statunitensi della tecnologia: Google Suite, Office 365, WeSchool, Amazon. Perché? Per avere garanzie di affidabilità, probabilmente. Ma anche perché esse si sono offerte, almeno per ora, gratuitamente.
Non è una cosa da poco: una istituzione pubblica come la scuola ha utilizzato aziende private senza far certo troppe gare di appalto; multinazionali che, come è dichiarato nei loro statuti, hanno come principale obiettivo non certo la formazione, ma la raccolta di dati e comportamenti da rivendere o da usare per individuare gusti e orientamenti. E come fine ultimo quello di manipolarli in nome dell’aumento del proprio fatturato. Non è mai accaduto in una istituzione pubblica un evento così grave.
Si potrà dire che è una roba da poco e non c’erano altre alternative.
L’alternativa c’era
Falso. L’alternativa migliore era puntare su software liberi e non privati, che erano anche più sicuri e più collaborativi, cioè adatti alla formazione. Non si è fatto. Probabilmente perché sarebbero occorsi maggiori fondi, competenze, preparazione. Così molti dirigenti scolastici che preferivano l’utilizzo di piattaforme libere, alla fine sono stati caldamente invitati dal ministero a sottoscrivere, per le loro scuole e i loro docenti e studenti, licenze d’uso per i software di queste multinazionali private.
Si potrà dire che in fondo non si è trasgredita alcuna legge.
Ancora una volta: falso.
Il regolamento europeo sulla privacy per la protezione dei dati (Gdpr) è operativo in Italia dal maggio 2018 e vieta che le scuole facciano quello che hanno fatto. Che cosa si pensa di fare, ora? Aggiungere una clausola in cui si dirà che in situazioni di emergenza queste regole non valgono?
Questione di affidabilità
Queste multinazionali hanno giurato di tenere separati i dati europei da quelli degli altri. Ma ci si deve chiedere quali affidabilità reali abbiano dato al nostro governo multinazionali come Google che recentemente ha investito milioni di dollari sull’intelligenza artificiale per consentire alle macchine di “imparare” attraverso l’interazione con gli utenti, – profilandoli, come si dice, – cioè immagazzinando informazioni su di loro dal modo in cui si muovono in rete.
Quali garanzie ha avuto il nostro governo repubblicano da queste multinazionali private perché questo accada veramente? Come ha potuto incoraggiare tutto il mondo della scuola a vendere i dati di milioni di docenti e studenti e famiglie di studenti? E soprattutto: lo poteva fare?

Lettera aperta alla ministra dell’istruzione - Maria Chiara Acciarini, Alba Sasso e Laura Pennacchi

Gentile prof. Lucia Azzolina,
a causa dell’emergenza sanitaria, da due mesi gli allievi della scuola italiana sono a casa ed è ormai certo che vi resteranno sino alla fine dell’anno scolastico, perdendo così più di un altro mese di lezioni. Sappiamo anche, ormai con certezza, che l’allentamento delle disposizioni sul distanziamento sociale e la sia pur cauta riapertura di una parte delle attività economiche, messi in atto a partire dal 4 maggio, non li riguarderanno in alcun modo, se si esclude la prospettiva di far svolgere gli esami di maturità a scuola, con la presenza fisica di alunni e docenti.
Si è così compiuta una scelta molto netta, che avrà, innanzitutto, pesanti ripercussioni sul lavoro femminile, ma che, tuttavia, non vogliamo in questo momento mettere in discussione. Ci interessa invece pensare a quanto accadrà al momento dell’inizio del prossimo anno scolastico.
Le sue più recenti dichiarazioni, signora Ministra, sembrano avere attenuato il drastico messaggio inizialmente lanciato in cui si utilizzava un metodo più indicato a stabilire come si distribuiscono gli utili di una società che a individuare un progetto educativo: un fifty-fifty di presenza a scuola e di didattica a distanza. Tuttavia, le linee indicate per la ripresa delle attività scolastiche sono rimaste generiche e imprecisate.
Ci preme sottolineare che, al contrario, per il sistema educativo italiano, dai nidi alle università, occorre una programmazione seria e articolata, che parta, innanzitutto, dalla consapevolezza di quanto è stato sottratto in termini di conoscenza e di socialità alle bambine e ai bambini, alle ragazze e ai ragazzi italiani. Che forse, da questo punto di vista, avranno anche un po’ meno di quello che sarà garantito nei prossimi mesi agli allievi di altre scuole europee, anch’esse chiamate ad affrontare il problema del COVID-19.
Cerchiamo allora di ricompensarli in qualche modo e di farli tornare a scuola nella migliore delle condizioni possibili, pur tenendo conto del probabile permanere di un quadro sanitario complesso. Cerchiamo di farli tornare in scuole accoglienti, in cui tutti questi mesi di chiusura dovranno produrre risultati in termini di pulizia accurata, di manutenzione ordinaria e straordinaria, senza escludere il recupero di locali che possano essere utilizzati per una didattica a piccoli gruppi. A questo proposito qualche margine potrà anche essere garantito dalla costante flessione – pari a circa l’1% annuo – della popolazione scolastica. Siamo pienamente consapevoli che i problemi dell’edilizia scolastica non sono certo risolvibili in pochi mesi, ma un paese civile – a questa svolta delicatissima della sua storia ‒ ha l’obbligo di fare un piano di investimenti per superare almeno una parte di questi problemi.
Cerchiamo di garantire a tutti gli alunni delle scuole dell’infanzia e della primaria la possibilità di essere ogni giorno a scuola con i loro compagni e i loro insegnanti: la didattica a distanza non è ulteriormente per loro proponibile, soprattutto dal momento in cui i genitori, ritornati al lavoro, non potranno più essere gli “assistenti” dei loro figli. Per la secondaria l’uso della didattica a distanza può, in caso di necessità essere ammesso, ma evitiamolo in modo assoluto nelle classi prime dei due gradi di scuola, quando è importante che si crei fra tra alunne e alunni uno spirito di comunità, indispensabile per il proseguimento degli studi. Anche per le classi terminali si deve avere la stessa attenzione, seppur per motivi diversi.
Desideriamo inoltre invitare, anche quando si scelga in particolari condizioni di utilizzare la didattica a distanza, a valutare bene quali siano le sue potenzialità e i suoi limiti. Limiti oggettivi, innanzitutto. Lei stessa, signora Ministro ha dichiarato che in questi mesi ha raggiunto con una certa continuità circa 6.700.000 alunni su 8.300.000. Allora prima di proporre di adottare “senza se e senza ma” la didattica a distanza si deve cercare di: capire dove e come si sono verificate le maggiori carenze nella sua attuazione e individuare gli strumenti per superarle; tenere conto di quanto il mondo della scuola è andato via via osservando e documentando; valorizzare le buone pratiche che, nell’ambito della propria autonomia, le singole scuole possono avere messo in atto nel corso di questi difficilissimi mesi dell’anno scolastico 2019-20.
Occorre, inoltre, esaminare attentamente, in un serrato confronto sindacale, il modo di garantire i diritti degli insegnanti, anche dal punto di vista della formazione, senza escludere la possibilità di varare subito un piano straordinario di assunzioni che permetta di fare fronte alla probabile e necessaria articolazione delle classi in gruppi di lavoro, per una parte dell’orario scolastico.
Perché una cosa è certa: molto dovrà essere fatto per recuperare le disuguaglianze che, in questi mesi, sono andate ad accrescere quelle già presenti nelle realtà più disagiate. Verso gli alunni in maggiore difficoltà – sia essa fisica, psichica o economica – lo Stato italiano ha un debito e deve pensare a come saldarlo con l’aiuto di tutti.
Bisogna ascoltare allievi, insegnanti, famiglie. Le scelte politiche devono essere fatte aprendosi sul mondo, non chiudendosi nelle stanze ministeriali.
Siamo perfettamente coscienti che si tratta di un lavoro estremamente complesso. Ma dal fatto che esso sia svolto bene dipende il futuro dell’Italia e il presente di più di un terzo dei suoi cittadini. Quindi, occorre investire, programmare, attuare.
Non sarà sola, signora Ministra, se chiederà risorse, impegno e cura per la scuola. Glielo assicuriamo.

La didattica con lo sguardo impossibile «da remoto» - Walter Lapini
Spero che nessuno dimenticherà il sacrificio, non solo contrattuale e sindacale, che la scuola dell’emergenza si sta sobbarcando in questi mesi. Unico antidoto ai social, essa ha dovuto rapidamente impararne il linguaggio, accettare una lunga suspension of dignity, infliggersi il gioco a guardie-e-ladri con allievi che sfuggono o copiano, si collegano e scollegano, facendosi beffe dell’insipienza informatica degli adulti, dei boomers, spesso peraltro immaginaria. Scattato il blocco, i professori hanno reagito in maniera fulminea e sincrona, senza aspettare imbeccate dall’alto. Si sono attivati con i mezzi che avevano – Skype, Zoom e quant’altro – e hanno salvato quello che si poteva salvare del quadrimestre appena iniziato. È stata una grande prova di forza e di vitalità, di coscienza civica, di etica professionale. Sia chiaro perciò che – pur con le eccezioni, i buchi neri, le furbizie immancabili – la classe docente ha fatto e fa miracoli.
Ma sia chiaro anche che la scuola non è questa. Le videolezioni vanno bene per qualche materia che finisce in -gìa, funzionano con chi è già imparato, per chi già sa. Non funzionano invece con le hard skills, con i saperi profondi, che si trasmettono non solo con la parola ma anche attraverso il contatto, la prossemica, lo sguardo. A nulla serve la didattica da remoto quando non si tratta di intonacare i muri bensì di gettare le fondamenta, forti, durature. Perché insegnare, come direbbe il professor Franzò, non è insegnare, ma insegnare a capire se hai capito. E a tale scopo occorre vedere quella luce che brilla, quella palpebra che batte, quella fronte che si increspa.
Solo allora riesci a dire se il transfert è avvenuto. Non sto facendo letteratura, o retorica a buon mercato. Gli addetti ai lavori mi intendono. Essi sanno bene che solo in presenza è possibile giudicare quali semi daranno frutto e quali si perderanno nel vento. È una lezione antica: Platone diceva che occorre lunga frequentazione fra maestri e allievi perché la fiamma più grande arrivi a far sprizzare una scintilla nella coscienza altrui e ad alimentarla.
L’anno 2020 è andato, facciamocene una ragione. Esami e scrutini saranno una pantomima, un trionfo del liberi tutti. Ma non è del 2020 che dobbiamo preoccuparci, bensì degli anni che seguiranno, poiché c’è da scommettere che in questo momento qualcuno sta facendo i suoi conti su quanto si risparmierebbe mandando cinque professori su dieci a cuocere hot dog, mettendone uno solo a sdottorare per tutti da dietro una telecamera e usando i rimanenti come carne da sportello, impegnati in un baby-sitting h24. Dopotutto i professori hanno tanto tempo libero, tante vacanze, e se durante l’emergenza hanno fatto lezione anche di pomeriggio e di sabato e nelle feste comandate, nulla vieta che possano farlo sempre…

Una grande opera: la scuola di tutti - Mirco Pieralisi

Per chi insegna lo scandalo dell’inuguaglianza ha volti, nomi e cognomi, radicati nella sua memoria fin primi anni in cui è andato a scuola, quei ricordi lontani che il mestiere ha più volte riportato alla luce, ha volti e nomi che hanno attraversato, e spesso segnato, la sua esperienza, volti e nomi di chi, ai tempi della didattica di emergenza, è aggrappato con mezzi di fortuna alla sua classe, volti e nomi di chi resta in silenzio perché non ha adulti al suo fianco, volti e nomi di coloro che sono scomparsi o addirittura non sono mai stati presenti. Lo scandalo della disuguaglianza ha anche delle cifre e le più ottimistiche gridano comunque allo scandalo, anche perché le cifre, oltre che al milione e mezzo di giovanissimi corpi lasciati indietro, non fanno riferimento alle tante zone d’ombra che sono emerse in questo straordinario e al tempo stesso terribile rapporto tra presenza e assenza nella quasi quotidiana, diurna e notturna, scuola delle distanze.
Lo scandalo degli scandali però è quello a cui stiamo assistendo in questi giorni, con le aule delle nostre scuole deserte, avvolte dentro e fuori dalla ragnatela di chiacchiere in libertà, lo scandalo delle dichiarazioni di principio, proclami apologetici sull’informatizzazione ma inerzia e silenzio spettrale su cosa si dovrebbe fare per restituire la scuola a tutte e tutti quelli che legittimamente la devono abitare. Abbiamo dovuto subire anche le umilianti dissertazioni sull’ignoranza o la mancata formazione delle maestre. Ma che se ne stiano tutti tranquilli, per imparare a usare le piattaforme fatte per essere vendute a clienti di tutto il mondo è bastata qualche notte e qualche giorno, mentre le più brave maestre e i più bravi maestri sanno che non basta una vita per insegnare meglio di come si è fatto. E sono loro, quelle e quelli che non hanno mollato, quelle e quelli che hanno trascorso e trascorrono quotidianamente in rete, al telefono, in video o in voce, una quantità di tempo superiore a ogni previsione possibile con classi intere, gruppi di alunne e alunni, genitori, colleghe, dirigenti e burocrazia scolastica, che ci dicono in maniera chiara e distinta, come fanno centinaia di docenti bolognesi, che “ora, dopo nove settimane di esperienza possiamo e vogliamo dirvi che il re é nudo: la didattica a distanza non esiste... le lezioni messe in campo… sono un surrogato di cattivo sapore di ciò che é la didattica che realizziamo quotidianamente a scuola”.
Una sentenza senza appello da parte di chi nella scuola pubblica ci mette anima e corpo (e sì, certo, lo dico per tranquillizzare i tuttologi che sputano sentenze senza conoscere l’argomento, esistono qua e là anche gli “imboscati”, i famosi uomini che mordono i cani che permettono a qualche indignato della domenica di spargere fango sul lavoro di centinaia di migliaia di persone di scuola.) Alla luce di quello che è emerso in questi mesi, e lo dico ancora, alla luce dei nomi e dei volti di quelle alunni e alunni presenti o lontani, c’è l’urgenza assoluta di ricominciare la scuola a settembre in luoghi dove corpi, emozioni, ansie, paure e gioie, scoperte ed incertezze si incontrino e si parlino negli occhi, ed è semplicemente immorale non avere già un piano ora che definisca tempi e modi di un intervento adeguato.
La scuola è un percorso di apprendimento che ha bisogno di tre dimensioni, lo spazio, il tempo e la relazione. Ora come non mai, grazie alla tragica prova a cui siamo sottoposti, è il momento di ripensare a ognuna di queste dimensioni. Per questo è inaccettabile che le scuole siano vuote in questi giorni. Io non vorrei le scuole restassero vuote neanche in maggio. Le vorrei con dentro ingegneri, tecnici dei Comuni e delle città metropolitane, architetti, con insegnanti e dirigenti che spieghino le esigenze del fare scuola, operai pronti a intervenire per ampliare dove si può, per tirare giù muri e fare se serve prefabbricati, costruire con le tecniche più moderne altri edifici, progettare e mettere in sicurezza luoghi nel territorio per utilizzarli ai fini scolastici, ipotizzare una formazione delle classi che dica addio per sempre alle classi numerose e un piano straordinario di reclutamento di personale.
Se non si lavora da subito per aprire le scuole a settembre e in sicurezza la situazione sarà drammatica, perché come abbiamo visto in questi mesi di doverosa e necessaria didattica di emergenza, e come ci hanno spiegato insegnanti che in questi mesi l’hanno realizzata, come ci hanno raccontato anche tante madri e padri, stiamo perdendo non tempo ma persone, in particolare i più fragili (e le fragilità sono anche quelle più insospettabili).
Pensare di tornare a settembre immaginando meno scuola, orari ridotti e didattica a distanza sarebbe già una resa. Se non si lavora per una vero ritorno a scuola rischiamo di provocare una lesione culturale e sociale soprattutto in quelle fasi decisive della crescita della persona che sono l’infanzia e l’adolescenza. Per questo la ricostruzione della scuola pubblica, delle scuole pubbliche, deve essere la nostra grande opera.

VERSO UN NUOVO DUALISMO CARTESIANO NELLA SCUOLA? NO, PER FAVORE NO! - Simone Digennaro
Comincia a emergere una certa apprensione; o forse una preoccupazione, ed anche piuttosto acuta, per quanto sta accadendo nel mondo della scuola. Preoccupazione che solo in parte è dovuta alle enormi sfide di carattere organizzativo: si tratta, in effetti, di una questione più strettamente legata alla didattica e al fare scuola. Ci sono voluti anni per far “entrare” il corpo nella scuola, per far capire in maniera chiara e inequivocabile che se attraverso il corpo noi diamo «significazione al mondo» – per utilizzare le  parole di Maurice Merleau-Ponty -, sviluppiamo i nostri saperi e costruiamo la nostra intera esistenza, non è possibile escludere il corpo dalla scuola. Scuola che invece è stata a lungo arroccata in una posizione intransigente, di profondo dualismo cartesiano, di divisione della mente dal corpo, con il primato concesso alla mente, vero e proprio oggetto di interesse – per certi versi di ossessione – da parte degli insegnanti, tutti presi a travasare informazioni e nozioni in cervelli scissi da tutto il resto. Studenti scorporati, privi di materialità, anestetizzati, a cui veniva chiesto di mettere da parte qualsiasi interferenza che potesse in qualche modo intaccare la relazione tra la mente del docente e la mente del discente.
Lungamente dimenticato, utilizzato come un contenitore in cui riversare conoscenze, il corpo a scuola – e nella didattica – ha fatto una fatica enorme a emergere. Si è dovuto far ricorso a tutto il gotha dello studio della corporeità per fare un minimo di breccia nelle roccaforti ideologiche della scuola. Oltre alle riflessioni del già citato Merleau-Ponty, si è fatto ricorso anche all’idee di Michel Foucault, André Breton, Pierre Bordieu, Umberto Galimberti, Damasio. Si sono mobilitati anche molti campi di studio: la sociologia, la psicologia, le neuroscienze, la filosofia. È persino nata una nuova corrente di studio: gli embodiment studies. E sulla questione si sono espressi, ovviamente, numerosi pedagogisti tra cui Robinson, Freire,  Dewey, giusto per citarne alcuni. Tutta questa grande mobilitazione per dimostrare e argomentare sull’impossibilità di una didattica senza corpo, sull’inutilità di pretendere di avere un apprendimento basato sulla sola mente, sull’inconcludenza storica, culturale, sociale e antropologica di una scissione tra mente e corpo, su di un dualismo cartesiano, che specie a scuola, non ha ragione di essere.
Questo enorme sforzo stava mostrando nella scuola italiana i suoi primi frutti. Finalmente, si erano aperte delle brecce, delle piccole fessure nell’impostazione della didattica. E in queste spaccature si stava riversando il corpo, e tutta la ricchezza esistenziale che in esso è contenuta. Nella didattica avevano trovato spazio le emozioni, non solo come oggetto di studio, ma come elemento di discussione, di confronto e come tramite attraverso cui sviluppare nuovi apprendimenti. La corporeità stava acquistando nuovi spazi, nuove possibilità di espressione nei rapporti con i compagni di classe ma anche in quelli con gli insegnanti. La necessità del movimento come elemento fondante dell’esistenza stessa dell’individuo aveva ottenuto un riconoscimento – non completo, per carità – anche tra quegli insegnamenti definiti, per impostazione, teorici, che tanto distanti sembrano volersi collocare dalla materialità esistenziale. Persino sulla grande sfida della multiculturalità e dell’integrazione si era visto nel corpo – punto di incontro tra natura e cultura, come ci ricorda Foucault – un potentissimo dispositivo educativo, in grado di avviare un dialogo laddove altri mezzi avevano fallito.
Il corpo, insomma, stava prendendo spazio, e attraverso di esso era stato avviato un lento ma inesorabile processo di cambiamento di tutta l’impalcatura didattica della scuola. Perché, una volta che il corpo entra in classe, tutto cambia (e questo spiega i motivi di tanta resistenza). Se dai attenzione al corpo non puoi pretendere che esso rimanga inerte per ore ad ascoltare passivamente una lezione: deve muoversi! Non puoi pretendere che le emozioni vengano represse perché esse si esprimono attraverso la corporeità, i gesti, la mimica, la prossemica, il tatto. E lo stesso dicasi per la personalità degli alunni la quale si manifesta attraverso la gestualità. E su questo Milan Kundera è stato piuttosto illuminante quando ha fatto notare che il «gesto è più individuale dell’individuo».
La pandemia determinata dalla diffusione capillare del COVID-19 sta stravolgendo dalle fondamenta la società e con essa la scuola. E su quanto sta accadendo trova alimento molta preoccupazione.  Evidentemente è necessario un totale ripensamento dei tempi, dei luoghi e delle modalità di fare scuola, questo è innegabile: la salute è un diritto fondamentale inalienabile, che deve essere tutelato e salvaguardato. Tuttavia,  il dibattito che sta accompagnando questo cambiamento sembra non prestare la dovuta attenzione ad alcune questioni fondamentali. C’è un gran parlare di come riorganizzare gli spazi in classe, di come rendere possibile la didattica a distanza anche per quegli studenti che non hanno accesso alla tecnologia necessaria, di come gestire i turni, ecc. C’è poi tutta la questione degli esami di maturità e di terza media e di come dare dei voti a milioni di studenti che da marzo sono costretti a stare a casa, senza un reale contatto con gli insegnanti. Il dibattito sull’opportunità di un 6 politico, di una promozione d’ufficio o sull’eventualità di un annullamento di questo anno scolastico ha chiamato in causa numerosi esperti e politici, con posizioni spesso diametralmente opposte.
Lungi dal ritenere inutile queste forme di dibattito – stiamo vivendo un periodo che non ha precedenti nella storia recente, e la circolazione di idee è un bene – è opportuno però esprimere in questa sede una perplessità, o per lo meno reclamare attenzione su di una mancanza. Se da un lato è necessario preoccuparsi di come riorganizzare gli spazi a scuola, non sarebbe anche necessario, dall’altro, preoccuparsi di come riorganizzare la didattica? Si tratta di una questione ugualmente importante. Perché, se la prospettiva è quella di tornare a un’impostazione didattica in cui si sta in classe, seduti, immobili sui propri banchi – tra l’altro singoli – isolati ad ascoltare concetti vuoti trasmessi da un insegnante ingessato alla propria cattedra, anche se si riuscisse – come auspicabile – a fermare una nuova trasmissione del virus, favoriremmo, d’altro canto, una nuova forma di contagio, più subdola, che rischia di portare la scuola e l’insegnamento indietro di decenni.
Con questo non si vuole certamente argomentare in favore di un totale superamento del distanziamento sociale: è una misura fondamentale, specie in un contesto affollato come la scuola. Però non possiamo neanche correre il rischio che con il distanziamento sociale si torni a rimarcare una nuova scissione tra la mente e il corpo degli alunni. È un rischio che non ci possiamo permettere! Dopo anni di battaglie, non si può tornare indietro. Quale, dunque, la soluzione? Non è semplice, e per questo occorre dedicare alla questione tempo, energie e risorse. Così come ci si affanna per riorganizzare la struttura della scuola, i suoi tempi, i suoi spazi, occorre dedicarsi anche ad un ripensamento della didattica, che è la vera essenza della scuola. Perché il punto non è solo quello della didattica a distanza, di come permettere la trasmissione dei saperi, di come esprimere i voti. Ci sono anche tutte le questioni legate alla relazione educativa, dell’apprendimento tra pari, alle emozioni, alla conoscenza del mondo attraverso il corpo e i sensi che non possono essere derubricati e che richiedono massima attenzione.

I limiti della didattica a distanza - Fiorella Farinelli
Aver vissuto la pandemia ci farà diventare migliori? Impareremo a non massacrare il pianeta in nome del profitto e del mercato, saremo meno complici di un modello economico e sociale devastante, ci convinceremo che il bene di ciascuno passa dal bene di tutti? Non fa bene, forse, un troppo facile ottimismo. Ma è certo che stiamo reimparando l’essenziale. Come il valore di una scuola di tutti e per tutti, capace di tener conto delle caratteristiche di ciascuno, fiduciosa nella possibilità di chiunque di imparare e di migliorare.
Per molto tempo è stato sottovalutato o distorto, e troppi – proprio come per i sistemi sanitari pubblici e per la ricerca scientifica di base – hanno applaudito distratti e distruttori. Ma ora sappiamo cosa significa avere le scuole chiuse. Sembrava un problema dei soli Paesi poveri, quelli massacrati da guerre infinite o da ricorrenti catastrofi ambientali, quelli sotto il giogo di poteri determinati ad escludere. Oggi è diventata esperienza anche dell’Occidente ricco, evoluto e più o meno democratico.
A marzo l’Unesco, l’Agenzia delle Nazioni Unite che promuove l’istruzione e la cultura, ha calcolato che più di tre quarti del miliardo e 500.000 studenti del mondo erano rimasti senza scuola. Per quanto tempo e con quali prospettive di ritorno alla normalità non è chiaro neanche a maggio. Non era mai successo, con questa durata ed estensione, neppure sotto le bombe o dopo i terremoti.
I costi sociali sono altissimi. Ci sono quelli dei genitori di bambini piccoli, le mamme soprattutto, che non possono lavorare perché i figli sono a casa. E quelli del mancato apprendimento che colpiscono gli studenti, anche se non tutti con la stessa gravità. Secondo alcuni studi, per le troppo lunghe vacanze estive i bambini della scuola primaria perdono tra il 20 e il 50 per cento di quello che imparano in un anno, cosa ci lascerà la lunga chiusura del 2020? Ma non è tutto, la scuola che funziona bene è anche lo spazio pubblico in cui tutti sono eguali «davanti alla legge», e dove talento e impegno possono liberare dal destino sociale iscritto nelle condizioni familiari. E poi le relazioni tra coetanei e con gli adulti, tra poveri e ricchi, bianchi e neri, sani e disabili, che insegnano intelligenza e solidarietà, e l’equilibrio così prezioso nei due primi decenni di vita tra bisogno di tutela e desiderio di autonomia. Non che la scuola sia l’unica agenzia educativa, ma anche l’educazione familiare ha un gran bisogno del controcanto dell’educazione pubblica. E la seconda di una certa distanza dalla prima.
utilizzo delle tecnologie
Nei paesi che se lo possono permettere, si è cercato di rimediare con la didattica online, detta didattica a distanza. Anche in Italia, dove sembrava più problematico che altrove se non altro per l’alta età media degli insegnanti, tutti hanno dovuto misurarsi con l’utilizzo delle tecnologie. Cantano vittoria gli entusiasti della Dad (dentro, oltre a una parte dei docenti e a un grappolo di pedagogisti, c’è un ampio e variegato mondo di editori, produttori di software, giganti delle telecomunicazioni come Google e Microsoft, enti di formazione). Sostengono che sarà questo il cavallo di Troia per il superamento dell’obsoleto modello trasmissivo dell’insegnamento – lezioni-esercitazioni-verifiche-valutazione – e dell’ingresso trionfale di una didattica creativa, interattiva, liberatoria. Tra gli entusiasti anche la ministra dell’istruzione Azzolina, figlia di un movimento che alle piattaforme telematiche avrebbe voluto consegnare addirittura tutte le carte della partecipazione e del gioco democratico. Sono bastate poche settimane perché apparisse il rovescio della medaglia. Fatto non solo dell’improvvisazione dovuta alle circostanze emergenziali della prima attuazione, ma anche di una diffusa e tenace tentazione di travasare nel «nuovo» gran parte del vecchio: inclusi il disciplinarismo, le valanghe di compiti, le ansie di programmi smisurati. Ma se a questi limiti si potrà porre rimedio più avanti, lavorando sulla falsariga delle esperienze migliori e sull’analisi delle peggiori, la criticità principale sta nell’intreccio forzato tra utilizzo delle nuove tecnologie e homeschooling – cioè nel trasferimento in toto dell’attività scolastica in ambiente domestico. Perché sparendo la «comunità di eguali» dello spazio scolastico pubblico, sull’apprendimento e anche sull’insegnamento si sono scaricate le diseguaglianze della dimensione familiare. Non solo l’ineguale disponibilità di devices e connessioni (che ora si cerca di risolvere con il modesto impegno degli 85 milioni del Decreto Scuola del 17 marzo) ma la variabilità delle abitazioni, in tanti casi prive di spazi dedicabili all’apprendimento, tanto più per la diffusione dello smart working. E poi c’è la differenza fondamentale – già esaltata dall’eccessiva valorizzazione dello «studio individuale», ovvero dei compiti a casa – fatta della diseguale disponibilità di tempo, attenzione, strumenti culturali necessari ai genitori per supportare l’accesso alle piattaforme e la gestione delle attività dei più piccoli, quelli che, pur «nati digitali», non sono ancora autonomi nel rapporto con l’informatica.
Non che non lo si sapesse che una cosa è realizzare nelle scuole «ambienti di apprendimento» per la didattica digitale e un’altra è affidarsi alle risorse familiari (secondo Istat 2019 il 14,3% delle famiglie con almeno un minore non ha né computer né tablet, e anche in quelle che ne sono provviste è raro che ce ne siano di indivi- duali per ogni componente), né che le dimensioni medie di un appartamento non superano in Italia gli 81metri quadrati.
diseguaglianze che si aggiungono a diseguaglianze
Non è una novità, d’altra parte, che anche tra le fasce più giovani della popolazione, quella con figli in età scolare, decenni di alti tassi di abbandoni precoci e di percorsi scolastici poco capaci di sviluppare e consolidare gli apprendimenti hanno depositato livelli troppo bassi di istruzione e di cultura. E tuttavia molti si sono sorpresi di fronte all’evidenza di una Dad che, nelle condizioni date, scarica altre diseguaglianze su un sistema scolastico peggiore di altri per «equità sociale», cioè per capacità di affrancare il successo scolastico dalle condizioni economiche, sociali, culturali di origine. Diseguaglianze che si aggiungono a diseguaglianze, dunque. In cui a pagare i costi più alti sono i più deboli. I bambini e i ragazzi più poveri, quelli con problemi di disabilità, quelli con back ground migratorio, ben più del 20% ammesso anche da viale Trastevere.
Le notizie che arrivano dalle scuole non sono buone. Troppi gli studenti che non si sono mai connessi, che partecipano spo- radicamente alle lezioni a distanza, che stentano a stare al passo, che hanno abbandonato. E troppi, al momento, i limiti di una didattica on line ancora troppo standardizzata rispetto alla pluralità delle caratteristiche e dei bisogni formativi individuali. La situazione più grave, energicamente sollevata dai genitori e dalle loro associazioni, è quella dei ragazzi disabili o con «bisogni educativi speciali», che con la scuola fisica hanno perso anche relazioni preziose e stimoli essenziali, e che hanno spesso enormi difficoltà ad adattarsi alle tecnicalità e alla manualità richiesta dalla Dad. Ma la perdita colpisce tutti.
un’estate insieme
Anche per tutti questi motivi, oltre che per l’esigenza dei genitori di riprendere le attività lavorative, in tutti i Paesi si guarda con ansia alla riapertura delle scuole. A quando e a come bambini e ragazzi potranno ritornarci, sia pure con le precauzioni che dovranno esserci finché non si verrà a capo, con terapie e vaccini, della maledetta pandemia. Un’ansia che in Italia viene alimentata non solo dall’incertezza sul quando e sul come, ma anche dall’evidente sottovalutazione da parte dei responsabili istituzionali del bisogno di recuperare da subito, anche in forme leggere e simboliche, il rapporto fisico con la scuola, i compagni, gli insegnanti. Si potrebbero almeno salutarli
gli studenti, in spazi aperti e nel rispetto della sicurezza, alla fine dell’anno scolastico. Si potrebbe dedicare un po’ di tempo, dopo il 9 giugno, a incontri individuali o di piccoli gruppi con gli insegnanti. Invece niente, neppure per i mesi estivi, quando molti non potranno andare in vacanza perché i genitori devono lavorare e i nonni, questa volta, non potranno occuparsene.
Si dovrebbe fin d’ora organizzare una «estate insieme», come suggeriscono molte associazioni, nelle scuole, negli spazi pubblici, nei parchi, giardini, strutture sportive e musei deserti, con attività di socializzazione, giochi e educazione ambientale. Molti in questi mesi hanno subìto discriminazioni, esclusioni, sofferenze psicologiche, talora anche lutti, non ci si può limitare a prevedere soltanto, a settembre e ottobre, momenti di recupero didattico. E invece niente, dovranno essere i Comuni, le associazioni, il volontariato ad organizzare i «Centri estivi», ma senza impegno alcuno delle scuole e degli insegnanti. Una volta stabilito che, grazie alla Dad, l’anno scolastico è «valido» e che, grazie a passaggi all’anno successivo esenti da bocciature, non ci sarà spazio per possibili ricorsi, viale Trastevere sembra al momento lavarsene le mani. Non va bene. E preoccupa se per settembre non si fosse capaci di prevedere niente altro che un mix tra scuola in presenza e scuola a distanza, con sequenze che potrebbero costringere ancora le famiglie a barcamenarsi tra il lavoro e la cura domestica dei figli e del loro rapporto con le piattaforme telematiche. Cosa succederà ai più piccoli, quelli che a settembre entreranno per la prima volta, senza aver mai visto in faccia gli insegnanti e senza conoscere ancora i loro compagni, nelle scuole per l’infanzia e nella primaria? Anche tra i più convinti delle grandi potenzialità dell’uso didattico delle tecnologie, sono ormai in tanti ad augurarsi che il ricorso alla Dad in alternativa alla didattica «in presenza» non sia necessario, o almeno che vi si debba ricorrere solo in condizioni di assoluta emergenza e per periodi brevi. Anche se questo dovesse richiedere, per una volta, investimenti straordinari in nuovi spazi fisici e in nuove risorse professionali.


Senza perdere la testa - Un gruppo di insegnanti di Bologna
Noi docenti dell’Istituto Comprensivo 8 di Bologna abbiamo iniziato subito a riflettere e confrontarci su questo periodo e sulla scuola che verrà, molto prima che tutto arrivasse alla ribalta sui giornali e sui social.
Noi insegnanti abbiamo vissuto quelle prime convulse settimane e sappiamo bene cosa è stato il “fai da te”: docenti al lavoro senza orario per attivare spazi digitali sicuri, docenti attivi su drive, registro elettronico e anche telefono personale per preparare materiale, riceverlo dagli alunni e tenere contatti.
Ricordiamolo: la situazione era imprevista ed eccezionale.
Non si può negare la mancanza di direttive e di un contesto legislativo chiaro, di preparazione e di strumenti, non c’è stato il tempo per una discussione pedagogica negli organi collegiali, non ce lo ha lasciato l’emergenza.
Emergenza: questa è la parola corretta.
E noi insegnanti, come il saggio Ulisse raccontato da Mino Milaniabbiamo saputo agire in fretta in giorni convulsi e incerti senza mai “perdere la testa”, senza mai dimenticarci che, alla base di ogni nostra azione, c’è e ci deve essere sempre, anche in emergenza, lo spazio per una riflessione didattica e pedagogica, che parta dall’attenzione ai singoli studenti e al loro essere classe.
Nel libro di Milani, Anceo insegna ad Ulisse che anche quando sarà costretto a scappare non dovrà mai perdere la testa e quindi se stesso. In qualche maniera anche noi insegnanti siamo stati costretti a scappare dalle scuole, che da un giorno all’altro sono state chiuse, e da quella quotidianità e presenza, che sta alla base della nostra azione. Non abbiamo mai perso, però, la testa e quindi noi stessi.
Così, mentre a distanza abbiamo provato a tenere le fila delle nostre classi, e siamo entrati con discrezione nelle case e nelle vite dei nostri alunni, sentivamo in sottofondo la voce di chi intanto stava coniando un nuovo acronimo DAD, didattica a distanza.
La Didattica a Distanza, o meglio la Formazione a Distanza (FAD), è l’insieme delle attività didattiche svolte all’interno di un progetto formativo che prevede la non compresenza di docenti e discenti nello stesso luogo e ha ormai una storia lunga alle spalle. Parlando di FAD, si è soliti distinguerne addirittura tre generazioni diverse, in base al tipo di supporto utilizzato: la prima generazione è quella che avveniva per corrispondenza postale (dalla metà Ottocento), la seconda generazione era basata sulle tecnologie audiovisive (dagli inizi del XX secolo) e la terza generazione è quella incentrata sulle tecnologie informatiche (dagli anni ‘80), a sua volta suddivisa in FAD off line e in FAD on line.
È bene sottolineare però che tutte queste modalità erano nate e dunque erano state progettate in modo specifico per la formazione degli adulti (come conferma il diffondersi negli ultimi anni di corsi universitari, atenei telematici e corsi di formazione professionale rivolti a studenti e lavoratori) e che, pur essendo state suggerite e introdotte da una ventina d’anni anche per la didattica scolastica, non hanno mai sostituito del tutto (e nemmeno in parte) la didattica in presenza, dato che il loro utilizzo è quanto più difficile e problematico mano a mano che si abbassa l’età dei discenti.
Ora, dopo 9 settimane di esperienza possiamo e vogliamo dirvi che “il re è nudo”: la didattica a distanza non esiste. Dare i nomi corretti serve a capire le realtà di cui si parla. Tutte le azioni messe in campo dai docenti in questo eccezionale periodo sono un surrogato, di cattivo sapore come tutti i surrogati, di ciò che è la didattica che realizziamo quotidianamente a scuola.
È oggettiva la difficoltà dei docenti, per esempio, a conservare durante la video-lezione una prospettiva laboratoriale e partecipata, così come, a fatica, molti di noi l’avevano costruita nella quotidiana pratica didattica in classe. La continua e necessaria verifica della funzionalità del canale comunicativo ci obbliga a microfoni spenti, rigidi turni di parola e gestione degli interventi che “ingessano” oltremodo la video-lezione, inibendo la possibilità di una reale e pienamente soddisfacente dimensione di scambio. Si potrebbe definire la Didattica a Distanza una didattica “radiale”, che tende, nel migliore dei casi, a far convergere le domande e le considerazioni dei discenti sul docente, in una relazione uno a uno, e molto meno fra i discenti fra loro. Viene dunque a mancare il senso vero del gruppo-classe, della comunità discente che impara (e cresce) grazie al confronto avviato al suo interno.
Partiamo dagli alunni in situazione di difficoltà per arrivare a tutti gli alunni. La scuola pubblica italiana garantisce il diritto all’apprendimento a tutti gli studenti, qualunque sia la loro nazionalità e situazione sociale. La scuola pubblica italiana garantisce il diritto all’apprendimento agli alunni con disabilità. Questi diritti sono gravemente a rischio nell’attuale situazione, nonostante tutti gli sforzi fatti (distribuzione di dispositivi in comodato d’uso, assistenza tecnica a distanza…) e nonostante la grande creatività e impegno e la cura di docenti ed educatori.
Le forme di insegnamento a distanza, ammesso anche di essere nelle migliori condizioni possibili dal punto di vista dei supporti, della connessione e della preparazione, non sono in grado in nessuna maniera di sostituire per nessuno dei nostri alunni l’appartenenza alla società educante della scuola e delle classi, dove si impara dalla relazione, dal confronto, dalla diversità.
Ma entriamo ancor più nel merito. Per molti la didattica a distanza si realizza in un unico modo possibile: attraverso la lezione on line, detta anche lezione in sincrono.
Proviamo a smontare un’immagine: alunno fermo, insegnante che parla. Chi pensa alla scuola a partire da qui non entra in una scuola da molto, di certo non in una scuola Primaria, ma non solo. Immaginare una lezione on line, panacea di tutti i mali, in questo modo: bambino “vuoto” che viene riempito dalle parole del docente, è decisamente fuorviante.
Non è così che funziona. Per questo i docenti, davanti all’emergenza e alle incerte, poco note, vie della DaD, hanno in primo luogo pensato, non hanno “perso la testa” e hanno recuperato la lucidità per le necessarie riflessioni pedagogiche.
Abbiamo pensato e immaginato i nostri alunni a casa, in questa situazione, in primo luogo. Tutti insieme, e uno a uno: Andrea che ha bisogno che io ripeta più volte la consegna perché è ansioso, Lucia che prende sempre la parola, Luca che non riesce a star fermo, Anna, che ha tre sorelle e una sola stanza, ma anche Marco che non parla perché affetto da sindrome autistica… tutti e ognuno.
Gli insegnanti si sono fermati a pensare, progettare e costruire, senza correre dietro alle sirene della “lezione in sincrono”, e spesso, come è normale che sia, hanno compiuto scelte didattiche diverse.
Cosa c’è dietro a queste scelte? Ci sono discernimento e responsabilità. A questo fa riferimento la nostra Costituzione quando stabilisce la libertà di insegnamento. Qui la faccenda si fa importante: si tratta di tenere ben fermo un principio costituzionale, che non fu scritto a “difesa” dei docenti, ma a difesa del diritto all’educazione dei giovani cittadini secondo i principi di una democrazia. L’insegnante non solo può, ma deve rivendicare la sua discrezionalità, ovvero la sua libera scelta responsabile che è in grado di motivare, di cui sa rendere ragione. È l’arte del progettare, del programmare, del modificare e del riprogettare che è il suo mestiere. L’apprendimento – insegnamento è un percorso e richiede queste capacità.
Abbiamo imparato molto e in fretta noi e i nostri studenti, anche i più piccoli: ci siamo mossi, prima impacciati e poi sempre più spediti, nel linguaggio e nella grafica dei nuovi mezzi, alcuni ci piacciono e non li abbandoneremo; abbiamo recuperato, anche in campo informatico, l’arte del problem solving, forse un po’ abbandonata mentre percorrevamo sentieri informatici divenuti familiari. Abbiamo scoperto che i dispositivi e le piattaforme di condivisone pongono problemi che neppure i cosiddetti “nativi digitali” si erano mai posti. Anche loro, nell’emergenza, affiancati dai “dinosauri” digitali, hanno scoperto come muoversi fuori dal rassicurante mondo delle app social e del touch screen.
Noi ci siamo assunti il dovere di renderli utilizzatori consapevoli di un mezzo che molti di loro non conoscevano come strumento di lavoro ma solo di gioco, abbiamo ancora una volta noi insegnanti svolto il nostro compito di insegnare ai ragazzi la differenza tra consumatore di un bene e utilizzatore, e per farlo abbiamo insegnato loro la responsabilità.
Come e più che nelle lezioni in presenza, il docente è stato guida in questo apprendistato cognitivo, facendosi carico della selezione e validazione dei materiali, indicando risorse e fornendo stimoli, avviando negli alunni l’apprendimento cooperativo e la necessaria riflessione metacognitiva, nonché la critica delle informazioni.
Come e più che nelle lezioni in presenza, il nostro agire didattico è oggi il frutto di confronto, scambio e condivisione di buone prassi. Confronto tra insegnanti curricolari, confronto tra insegnanti curricolari e insegnanti di sostegno, tra insegnanti ed educatori, confronto tra insegnanti di ruolo e insegnanti precari. Questi ultimi, spesso nominati ad anno scolastico già in corso, si assumono la responsabilità didattica ed educativa di classi nuove in scuole appena conosciute, con garanzie contrattuali e di stipendio incerte, e anche in questa eccezionale situazione d’emergenza hanno confermato la necessità della loro presenza e non sono mai venuti meno alla propria responsabilità professionale.
Ma adesso, cosa davvero ci preme? Pensare alla scuola che verrà.
Cosa ci preoccupa? Non sentiamo parole riflettute, non percepiamo un progetto che partendo da quanto sperimentato ci lanci in una vera innovazione. Non sentiamo, non vediamo scelte politiche.
Si deve continuare a investire per potenziare gli strumenti informatici delle nostre scuole per le situazioni di emergenza, come quella che viviamo, e per continuare ad arricchire gli attrezzi del nostro mestiere. Ma come? Davvero l’unica strada è quella utilizzata in questa emergenza, ovvero affidarsi a piattaforme di natura proprietaria? davvero non possiamo costruirci su risorse open source?
Il vero vuoto noi lo percepiamo là dove non si analizza la situazione, là dove non si vede, non si vuole vedere perché “il re è nudo”: la scuola non potrà far fronte alla fase 2 non perché non preparata e non provvista dal punto di vista tecnologico, ma perché povera, estremamente povera.
Povera di personale anzitutto, depredato dalle scellerate scelte dei governi degli ultimi decenni; povera di spazi, perché in un paese in cui nessun governo ha saputo affrontare l’enorme e delinquenziale evasione fiscale, le strutture scolastiche, bene comune, erano già pesantemente inadeguate alla vita quotidiana degli studenti.
L’emergenza ha drammaticamente fatto venire al pettine i nodi di una politica di tagli che ha privato di risorse essenziali la scuola, ma ha anche mostrato quanto la scuola continui ad essere un cuore pulsante nella società e un punto di riferimento per le famiglie.
Non va lasciata sola.
Occorre non solo investire sulla scuola dal punto di vista economico, ma anche riattivare la rete di relazioni che le stanno intorno. Occorre oliare la grande macchina del Welfare, riattivando le relazioni con le istituzioni locali, i Servizi Sociali ed Educativi, la Neuropsichiatria e i medici di base per far fronte anche alle molte sofferenze che il lockdown può avere acuito in alcuni contesti famigliari a rischio, in minori con disabilità, di recente migrazione o in area devianza.
Ecco allora ciò che davvero ci preme, è semplice, è fattibile, frutto di una necessaria scelta politica:
  • che la scuola sia considerata dalla nostra politica una priorità;
  • che i bambini e i ragazzi tornino a frequentare la scuola, fondamentale comunità educante in cui possono crescere e apprendere;
  • che vengano stanziati fondi per aumentare il personale, anche attraverso la stabilizzazione del personale precario, per consentire la formazione di classi con minor numero di alunni, per creare/reperire più spazi e renderli adeguati, per aumentare il personale ausiliario e garantire la corretta pulizia degli ambienti, che vengano cambiate le modalità di collaborazione tra scuola ed educatori, figure professionali insostituibili e fortemente penalizzate.

La scuola non è scuola se è solo tecnologia – Umberto Curi

Per quanto ancora frammentari e non univoci, i messaggi che ci raggiungono in questo esordio della fase 2 a proposito della scuola sono ben più che allarmanti. Pur prescindendo dai provvedimenti adottati a partire dalla fine di febbraio, e sostanzialmente prorogati fino al prossimo mese di settembre, concentrati sulla chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, ciò che preoccupa non poco è quanto filtra relativamente a ciò che dovrebbe accadere nel prossimo anno scolastico. Per dirla in estrema – ma realistica – sintesi, la prospettiva che emerge è quella di una definitiva e irreversibile liquidazione della scuola nella sua configurazione tradizionale, sostituita da un’ulteriore generalizzazione e da una ancor più pervasiva estensione delle modalità telematiche di insegnamento.
Esibendo in numerose occasioni un atteggiamento immotivatamente trionfalistico, neanche si trattasse di annunciare la cancellazione del contagio virale, i responsabili governativi della pubblica istruzione hanno delineato la nuova fisionomia che le scuole dovrebbero assumere. Non si tratterà soltanto di utilizzare le tecnologie da remoto per trasmettere i contenuti delle varie discipline, ma piuttosto di convertire una sciagura in un’opportunità, attraverso un profondo rinnovamento del “fare scuola” da ogni punto di vista.
Ebbene, si può certamente riconoscere – come da più parti nel corso degli ultimi anni si è sostenuto in maniera argomentata – che la scuola italiana avrebbe bisogno di interventi mirati, collocati su piani diversi, tali da investire gli stessi modelli della formazione e lo statuto epistemologico delle varie discipline. Ma altro è porre all’ordine del giorno un complessivo e articolato processo di riforma, frutto di una preventiva e meditata elaborazione teorica, altra cosa è sacrificare sul paganissimo altare della tecnologia identità, ruolo, funzioni, obbiettivi, della scuola, considerando comunque secondaria e pleonastica la dimensione della socialità, sia in senso orizzontale, fra gli allievi, sia nella direzione verticale del rapporto con i docenti. Altro è assumere iniziative di protezione dei discenti e del personale scolastico, e altro è appiattire il complesso processo dell’educazione sulla dimensione riduttiva dell’istruzione.
Nessuno sottovaluta i vincoli oggettivi che potrebbero persistere anche nel prossimo autunno, rendendo troppo rischioso il tentativo di ritorno alla normalità. Ma dare superficialmente per assodata l’intercambiabilità fra le due modalità di insegnamento – in presenza o da remoto – vuol dire non aver colto il fondamento culturale e civile della scuola, dimostrandosi immemori di una tradizione che dura da più di due millenni e mezzo e che non può essere allegramente rimpiazzata dai monitor dei computer o dalla distribuzione di tablet. E’ probabilmente superfluo ricordare che il termine greco scholé, dal quale derivano i termini che nelle lingue moderne descrivono la scuola, indica originariamente quella dimensione di tempo che è liberata dalle necessità del lavoro servile, e può dunque essere impegnata per lo svolgimento di attività più nobili, più corrispondenti alla dignità dell’uomo. Erede non indegna di questa tradizione, la scuola italiana rischia concretamente di essere spazzata via non dal virus, ma da una inappropriata e irresponsabile risposta all’incombere della minaccia virale.



SCUOLA RESISTENTE AL TEMPO DEL COVID19: FINESTRA SU FORMAZIONE E DINTORNI, di Stefano Bertoldi e Nicola Giua

QUI si può ascoltare la trasmissione su Radio Onda d’Urto


Oltre l’emergenza. Proposte per una scuola sconfinata – Anna Polo

Una vera e propria maratona. Domenica 10 maggio dalle 16.30 alle 19.30 trentatré relatrici e relatori si fanno promotori di una scuola che risponda all’emergenza, coniugando quella educativa e quella della salute.  Cinque  minuti a testa per presentare le prime proposte da sottoporre all’amministrazione comunale di Milano.
Immaginare la scuola del futuro ponendo al centro il benessere dei bambini e delle bambine, senza ridurre la discussione sulla ripartenza solo ad aspetti medici e tecnici: questo è l’obiettivo del convegno in streaming ‘La Scuola sconfinata. Oltre l’emergenza. Proposte per la città di Milano’ organizzato dal movimento ‘E Tu Da Che Parte Stai?’ che riunisce domenica prossima intorno a tavoli tematici docenti, pedagogisti, medici, dirigenti scolastici, architetti, educatori. Tutti insieme per confrontarsi e presentare proposte concrete, da inserire in un documento che verrà poi consegnato all’amministrazione milanese.
Abbiamo intervistato Annabella Coiro della rete di scuole EDUMANA e Antonella Meiani, maestra di scuola primaria e autrice di vari libri, entrambe co-fondatrici del movimento ‘Etudachepartestai?’, in prima linea nell’organizzazione di questo appuntamento:
C’è molta confusione sulla riapertura delle scuole. Cosa aggiunge questa maratona di idee?
Annabella: C’è una tendenza crescente a considerare la riapertura delle scuole come un insieme di problemi puramente tecnici. Noi vogliamo mettere a disposizione le nostre esperienze e competenze per proporre un percorso partecipativo e orientato al futuro, un insieme di visioni e pratiche. E’ questo che ci appare oggi necessario ed è su questo che vogliamo lavorare, con l’obiettivo di indicare sia gli indirizzi sia gli strumenti utili per una scuola che risponda non solo alle esigenze di oggi, ma anche a quelle di un futuro sempre più complesso, come teorizzato da molti studiosi. Le nostre proposte sono dirette al Comune di Milano, ma speriamo che possano essere utili anche altrove.
Perché questo appuntamento proprio ora?
AntonellaL’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha sconvolto le vite di tutti e ancor più quelle dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze, che hanno visto sospendere improvvisamente le lezioni e insieme ad esse la loro socialità. Questo nuovo virus ci obbliga ora a ripensare gli spazi della scuola, ma in questa necessità c’è anche una sfida che vogliamo cogliere, quella di pensare al futuro partendo dalle esigenze di coloro che ogni giorno vivono le classi e mettendo a confronto idee e proposte. Per un futuro che superi temporalmente quello del Covid-19.
Perché un format così serrato? Non sarebbe stato meglio un dibattito, un confronto?
Annabella: È da molto tempo che ci confrontiamo. Ci sono molte persone che da anni lavorano su questi temi; indipendentemente dal Covid-19, desideriamo raccogliere questi pensieri e renderli concreti, per poi pubblicare gli studi, i dibattiti e il confronto anche con la stessa amministrazione comunale. Oggi lo sforzo è quello di trovare dei punti in comune che non solo ci facciano uscire dalla crisi, ma ci permettano anche di trasformare la scuola, rimettendola al centro di un processo educativo fondamentale per la crescita sana e evolutiva dei cittadini e delle cittadine che popoleranno il futuro.
In passato ti sei occupata di comunicazione. Perché questo titolo: La Scuola sconfinata?
AnnabellaLe parole sono molto importanti. Abbiamo chiesto a Paolo Mamo dell’agenzia Altavia di aiutarci e abbiamo condiviso l’idea che la scuola abbia bisogno di pensarsi senza confini, fisici o immateriali. Così è nata La Scuola Sconfinata. Abbiamo bisogno di una scuola capace di essere davvero aperta: aperta al valore delle differenze, aperta ai territori, diffusa. Una scuola sconfinata è una scuola che condivide il suo valore anche oltre il perimetro della comunità scolastica. Inoltre l’evento sarà seguito in diretta dal Graphic Recorder Roberto Sitta, perché pensiamo che sia necessario parlare direttamente anche con i più giovani, utilizzando un multi-linguaggio.
Chi sono i relatori e le relatrici e come li avete scelti?
AntonellaPotete trovare qui l’elenco completo sul sito. Sono persone famose e meno famose, ma tutte impegnate da anni sui temi di una scuola educativa di tutte e tutti. È solo un primo appuntamento; le persone che abbiamo pensato di coinvolgere da subito sono tra i promotori e i firmatari del Manifesto Umanità o Indifferenza e persone che riteniamo sostengano concretamente le aree tematiche che lo compongono.
Puoi anticipare in poche parole qual è la vostra proposta di scuola del futuro?
Annabella: Ascolteremo tante proposte dai relatori e dalle relatrici. La risposta non è una sola; io posso parlare della mia idea generale, che è anche quella del Movimento Etudachepartestai e della rete EDUMANA. La scuola non è un problema tecnico e la didattica a distanza non è la soluzione.  Parliamo di una scuola con più persone dedicate e competenze differenziate, più spazi significativi, più tempo, più prevenzione, più importanza alla relazione generativa. La scuola è il perno per eliminare le diseguaglianze e promuovere una cultura della nonviolenza e del dialogo e questa non è una questione di emergenza.

QUI la registrazione dell’incontro

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