L’essenza della domanda posta nel titolo del mio intervento* – “Crescita,
Recessione, Decrescita, un cerchio che si chiude?” – può essere tradotta, in termini
shakespeariani, come: crescere o non crescere? Una domanda che ne implica un’altra:
credere o non credere? Perché, come ha spiegato bene papa Francesco, la crescita è
diventata la religione del nostro tempo e noi dobbiamo diventare atei
della crescita. Ma, a differenza di papa Francesco, nessun responsabile
politico o economico l’ha compreso (o almeno fa finta di non averlo compreso).
Nel 2002, al convegno dei metereologi statunitensi a Silver Spring, Bush
dichiarò che la crescita genera posti di lavoro, risorse pubbliche, benessere
sociale, pace e anche le risorse per provvedere all’ambiente: «La crescita è la
chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono
di investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problema». E
se da Bush non ci si poteva aspettare altro, in realtà tutti, compreso Matteo
Renzi, dicono la stessa cosa. Alla Conferenza del clima di
Parigi, lo scorso dicembre, la parola
proibita era “decrescita”. Quello che si doveva dire era che la battaglia
contro il cambiamento climatico costituiva l’opportunità per una nuova
crescita. Una crescita verde: un bell’ossimoro.
In questo quadro, non basta essere economisti; bisogna anche essere
filosofi. E io partirei dall’osservazione di uno dei più grandi filosofi del
nostro tempo, Woody Allen:
«Siamo arrivati all’incrocio di due strade: una porta alla scomparsa della
specie, l’altra alla disperazione totale. Spero che l’umanità faccia la scelta
giusta».
Sembra che il dilemma sia proprio questo.
La prima strada è quella di una società della crescita con crescita, quella
su cui abbiamo camminato da due-tre secoli e soprattutto a partire dalla
Seconda Guerra Mondiale. È la strada che conduce a quella che gli scienziati
hanno definito come sesta estinzione di massa. Rispetto alla
quinta, quella dei dinosauri, risalente a sessantacinque milioni di anni fa,
questa sesta estinzione presenta alcuni tratti specifici: si svolge a
un’altissima velocità (ogni giorno spariscono tra le cinquanta e le duecento
specie); è determinata dall’attività umana e potrebbe riguardare lo stesso
essere umano.
La seconda strada, quella che conduce alla disperazione, è quella di una
società della crescita senza crescita, una società in recessione. Sappiamo quale
tragedia rappresenti. Ma non sono venuto qui per dire che la nostra unica
scelta è tra la peste e il colera, tra la disperazione e l’estinzione. C’è, in
realtà, una terza via, un piccolo sentiero che Woody Allen non ha visto e di
cui pochi si sono accorti: la via della decrescita. La via dell‘uscita dal paradigma
della società della crescita. Ma per capire in cosa consiste questo
cammino bisogna prima analizzare e denunciare le illusioni della crescita. Un
compito tutt’altro che facile, perché nessun argomento, per quanto razionale sia,
può convincere qualcuno che ha fede, che ha fede nella crescita.
COS’È LA CRESCITA?
Si pensa alla crescita, in primo luogo, come a un fenomeno biologico. E in effetti i
termini “crescita” e “sviluppo” vengono dalla biologia, soprattutto
evoluzionista. La crescita è la trasformazione quantitativa di un organismo nel
tempo. Tutti gli organismi crescono e, nello stesso tempo in cui crescono, si
trasformano. Un seme non diventa un seme gigantesco, diventa una pianta. E
questo è lo sviluppo. Lo sviluppo è la trasformazione qualitativa di un
fenomeno quantitativo. Lo sviluppo non è la crescita, ma non esiste uno
sviluppo senza crescita. La crescita è la base dello sviluppo.
Quando gli economisti hanno preso in prestito questa metafora della
crescita e dello sviluppo, si sono dimenticati però di due o tre cose. In primo
luogo, l’economia non è un organismo. Si può pensare alla società umana nel
suo rapporto con l’ambiente come a un organismo, come ha fatto il grande
biologo britannico James Lovelock con l’ipotesi Gaia, ma l’economia può
rappresentarne solo una parte. Anche i filosofi avevano pensato alle civiltà
come a organismi, basti pensare a Giambattista Vico, secondo cui, proprio come
gli organismi, le civiltà nascono, crescono si sviluppano e poi declinano e
muoiono. L’economia non è un organismo, ma, se anche lo fosse, gli economisti
si sono dimenticati che dovrebbe infine morire, postulando, al contrario,
una crescita infinita. E poi gli organismi vivono con l’ambiente in un rapporto di dipendenza
reciproca. Mentre gli economisti pensano che sia possibile trarre dalla natura
tutte le materie prime e scaricarvi tutti i rifiuti, senza alcuna
interdipendenza. Pensano di poter sfruttare senza limiti la natura come fonte di materie
prime e come pattumiera.
La crescita economica, quindi, non ha niente a che vedere con la crescita
degli organismi. E l’economia, come parte dell’organismo globale, deve obbedire
alle leggi della biologia e prima ancora della fisica, e in particolare della
termodinamica, e ancora più in particolare della seconda legge della
termodinamica, quella dell’entropia, in base a cui sappiamo bene che, una volta
che abbiamo bruciato i trenta litri della benzina nel serbatoio, questi litri
non saranno più disponibili. Come spiega Richard Heinberg nel libro La festa è
finita, la crescita è nata con i pozzi di petrolio e finirà con essi.
Che la crescita infinita in un pianeta finito sia un’assurdità dovrebbero
capirlo tutti. Come diceva il grande Groucho Marx, lo capirebbe anche un bambino di
cinque anni. I nostri responsabili, però, non lo capiscono. Con un tasso di
crescita del 2 per cento l’anno, prolungato per un periodo di tempo di duemila
anni, il Pil risulterebbe moltiplicato di 160 milioni di miliardi. Chiunque
capirebbe che è impossibile far crescere il Pil di 160 milioni di miliardi. Che
è impossibile far crescere di questa cifra il numero delle automobili, per
esempio. Eppure, la società della crescita è basata proprio sull’assurdità di
questa illimitatezza.
L’economia capitalistica, l’economia di mercato, è basata su una triplice
illimitatezza: l’illimitatezza della produzione, cioè dello sfruttamento delle
risorse naturali, rinnovabili e non rinnovabili; l’illimitatezza del consumo, che comporta la
creazione di un numero sempre più alto di bisogni artificiali (perché, se si
produce sempre di più, si deve anche consumare sempre di più); e, di
conseguenza, l’illimitatezza dei rifiuti, cioè dell’inquinamento dell’aria,
sempre più irrespirabile, dell’acqua, sempre meno potabile, dei mari, sempre
più invasi da continenti di plastica, della terra, sempre più avvelenata e
desertificata. E queste illimitatezze, soprattutto quella del consumo,
funzionano in base ad alcune molle, la prima delle quali è la pubblicità, la cui funzione è
renderci insoddisfatti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non
abbiamo. Cosicché viviamo non nella società dell’abbondanza, ma in quella della
frustrazione, quella in cui dobbiamo sentirci sempre frustrati e infelici per
poter avere desideri da soddisfare e dunque per consumare sempre di più. La
seconda molla è il credito: poiché non tutti possono soddisfare i loro desideri artificiali, quelle
istituzioni filantropiche conosciute come banche sono disposte a concedere
crediti. Se poi non bastano né la pubblicità né il credito c’è comunque l’obsolescenza
programmata: la durata di vita dei nostri prodotti è sempre più breve, così da
costringerci ad acquistarne di nuovi. La pubblicità crea un’obsolescenza
psicologica, mentre la tecnica crea un’obsolescenza reale.
Quando si registra una crescita forte come quella registrata durante il
trentennio d’oro, si assiste alla distruzione dell’ambiente e di parti della
società, soprattutto nel Sud del mondo, ma anche alla creazione di posti di
lavoro, di risorse pubbliche per finanziare l’educazione, la sanità, la
cultura. Ma una società della crescita senza crescita conosce solo
disoccupazione e tagli alle spese sociali.
La società della crescita con crescita è finita, ma il mito della crescita
continua a operare impedendo di uscire dalla trappola di questo sistema e spingendoci
nell’incubo di una società della crescita senza crescita. È per questo che
bisogna costruirne una nuova: si tratta di una rivoluzione, perlomeno a livello
di immaginario. Si deve decolonizzare l’immaginario dell’economicismo, superare la fede
nella crescita dell’economia. E questo è il progetto della decrescita.
COS’È LA DECRESCITA?
Prima di tutto, è uno slogan – con la funzione provocatrice
propria degli slogan – che permette di capire quale assurdità rappresenti una
crescita infinita in un pianeta finito. Uno slogan dietro cui c’è il concetto di
una società alternativa, non basata sulla crescita infinita e sul consumo
infinito. Il progetto della decrescita è quello, per dirla con le parole del
collega inglese Tim Jackson, di una società di prosperità senza crescita, che è
il titolo di un suo libro di alcuni anni fa, o quello, come dico io, di una
società di abbondanza frugale.
Perché abbiamo lanciato questo slogan della decrescita? Lo abbiamo
utilizzato per contrastarne un altro, quello mistificatorio dello sviluppo
sostenibile. Un ossimoro: lo sviluppo non può essere sostenibile perché presuppone la
crescita. Ed è un modo per prolungare il mito della crescita.
Il concetto di sviluppo sostenibile è legato a tre criminali dal colletto
bianco, il più noto dei quali è l’imprenditore elvetico Stephan Schmidheiny, condannato dalla
Corte di Appello di Torino nel processo Eternit, ma allo stesso tempo grande
promotore del concetto di sviluppo sostenibile e fondatore del World
Business Council for Sustainable Development, in cui sono presenti tutti i
più grandi inquinatori del pianeta. Il secondo è il miliardario canadese del
petrolio Maurice Strong, organizzatore della Conferenza di Rio sull’ambiente del 1992. Due veri
ecologisti: uno dedito all’amianto e l’altro al petrolio. Il terzo è Henry Kissinger, che ha rappresentato
gli industriali statunitensi all’indomani della Conferenza di Stoccolma del
1972. Erano gli anni del Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma e
di una nuova sensibilità ecologica, al punto che il presidente della
Commissione Europea, Sicco Mansholt, poneva l’accento sulla necessità di quella
che lui definiva una crescita negativa (altra epoca: oggi la Commissione
Europea è tra i più forti sostenitori della crescita infinita e del sistema
della concorrenza sfrenata del modello ultraliberista). Il concetto che passò
nel 1972 a livello di Commissione Europea – il ministro dell’economia francese
Valéry Giscard d’Estaing disse che non sarebbe stato un obiettore della
crescita – fu però quello di “un’altra crescita”, mentre a livello Onu si
impose il concetto di ecosviluppo. Gli industriali statunitensi, tuttavia,
trovavano l’espressione ancora troppo ecologista e allora Kissinger spinse per
quella di sviluppo sostenibile.
Negli anni dopo la caduta del muro di Berlino, gli anni del trionfo della
globalizzazione e del pensiero unico, tale espressione è diventata
l’equivalente, a livello globale, del Tina (There is no alternative) di
Margareth Thatcher: per l’umanità non c’è alternativa allo sviluppo sostenibile. Una promessa in
grado di soddisfare tutti.
Abbiamo compreso allora la necessità di contrastare questo slogan
presentando un’alternativa. Non poteva più essere il socialismo, screditato dall’esperienza
dell’Unione Sovietica e privo di una reale dimensione ecologica, essendo ancora
un progetto produttivista figlio dell’idea dell’illimitatezza propria della
modernità. Avrebbe senso semmai parlare di ecosocialismo.
Abbiamo dunque concepito questo progetto, da me sintetizzato nella forma
delle 8 “R”: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire,
Rilocalizzare, Ridurre, Riusare, Riciclare. Un progetto che segna una rottura
rispetto all’attuale concezione, indicando la necessità di uscire allo stesso
tempo dal sistema economico e dal sistema mentale della società dei consumi, a
partire da un cambiamento dei valori – Rivalutare -, fino al cambiamento dei
rapporti di produzione e di distribuzione. Il progetto delle 8
“R” non è un programma politico, rappresenta un’altra concezione. Non è
un progetto alternativo, è una matrice di alternative. Perché non si uscirà
dal mondo a una dimensione della globalizzazione per entrare in un altro mondo
dominato anch’esso dal pensiero unico. Una volta liberati dall’imperialismo
dell’economia sulla nostra vita, si dovrà ricreare la diversità: la decrescita
non verrà realizzata nel medesimo modo in Chiapas e in Texas. Per costruire un
futuro sostenibile, si impone un cambiamento nel rapporto con la natura, nei
rapporti di produzione, nei rapporti di distribuzione, ma spetta a ogni società
elaborare il suo progetto specifico.
Ora la sfida più importante è come uscire da questo incubo dell’austerità. Ci sono proposte di
buoni economisti neokeynesiani, come Paul Krugman o Joseph Stiglitz, ma tutti
mirano a uscire dall’austerità per rilanciare la crescita. Noi, invece,
vogliamo uscire dall’austerità per intraprendere un percorso di alternative per
un’altra società. Sono stato invitato dai deputati verdi greci a Bruxelles a
parlare di decrescita. L’avevo fatto anche con Tsipras prima che
diventasse primo ministro: purtroppo ha poi pensato di potersela cavare senza
cambiare strada, senza fare una rivoluzione. Neppure Hollande, del resto, ha
fatto nulla di ciò che aveva promesso. Il fatto è che nell’attuale sistema non
si può fare a meno di operare una rottura iniziale.
Per risolvere il primo problema, quello della disoccupazione, le strade da
percorrere sono: rilocalizzare, riconvertire, ridurre. Il termine rilocalizzare significa
de-mondializzare, rilanciare a livello locale una vita economica, sociale,
politica, culturale. La globalizzazione è stata un gioco al massacro su scala
planetaria. In realtà il mondo è globalizzato da quando gli amerindiani hanno
scoperto Cristoforo Colombo. Quel che c’è stato di nuovo non è stata la
mondializzazione dei mercati, ma la mercificazione del mondo. Questa è la verità
della globalizzazione. La concorrenza, parola d’ordine dell’Unione Europea, è
stata già sintetizzata due secoli fa nell’espressione “libera volpe in libero
pollaio”. È una truffa. Per prima cosa, bisogna interrompere la distruzione del
tessuto industriale. La libera volpe europea ha distrutto i contadini cinesi e
la libera volpe cinese distrugge il nostro tessuto industriale. Va dunque fermato questo
gioco al massacro globale per creare nuovi posti di lavoro.
Passando al termine riconvertire, è vero che si possono utilizzare “energie
della disperazione” come il gas di scisto o l’energia nucleare, ma non si potrà
comunque produrre energia in maniera indefinita. Serve una
riconversione verso l’energia rinnovabile, la quale, se consente di vivere bene,
non permette però di crescere all’infinito, né di portare avanti l’attuale
società dello spreco, dove il 40 per cento del cibo prodotto viene gettato via,
senza contare tutto ciò che comporta l’obsolescenza programmata: ogni mese partono
dagli Stati Uniti ottocento navi pieni di computer, cellulari ecc., costruiti
con minerali preziosi per i quali le transnazionali scatenano guerre in Africa
e che vanno a inquinare le falde freatiche della Nigeria o del Ghana, dove poi
vengono scaricati selvaggiamente i rifiuti, i cui fumi tossici vengono
respirati dai bambini e dalle bambine che cercano di recuperare i materiali. Un incubo totale.
Riconvertire l’energia, dunque. E riconvertire l’agricoltura. Diceva l’ex
responsabile della Fao Olivier De Schutter: «Non sono sicuro – in realtà lui lo
era – che l’agricoltura biologica possa nutrire 12 miliardi di persone alla
fine del secolo, ma sono sicuro che l’agricoltura produttivista non potrà
farlo», in quanto basata sul petrolio. Pensiamo solo che un chilo di bistecca
corrisponde a sei litri di petrolio, e il petrolio non ci sarà più. Che ogni
anno trasformiamo 16-17 milioni di ettari in deserto, in quanto i pesticidi
sono biocidi, distruggono tutto ciò che fa vivere il suolo. Che distruggiamo
ogni anno 16 milioni di ettari di foreste per far posto alla soia, all’olio di
palma, ecc., e presto non vi saranno più alberi da distruggere. Quello che serve è
un’agricoltura senza pesticidi e senza concimi chimici: non un ritorno al
passato, ma la creazione di una nuova agricoltura che necessiterà almeno del 10
per cento della popolazione attiva, anziché, come oggi, di meno del 3 per
cento.
Infine ridurre, cominciando dagli orari di lavoro. Quando i socialisti
conservavano ancora qualcosa di socialista, dicevano: lavorare meno, lavorare
tutti. Lo slogan dell’ex presidente francese, “lavorare di più per guadagnare
di più”, era un’assurdità, perché, in base alla legge della domanda e
dell’offerta, se si lavora di più, aumenta l’offerta, ma, poiché la domanda
resta più bassa, il risultato è il calo del prezzo del lavoro, che è lo
stipendio. Allora lavorare sempre più significa guadagnare sempre meno ed è
proprio questo che si è verificato negli ultimi anni. Si lavora sempre di più e
gli stipendi sono sempre più bassi. Invece, lavorare meno per
lavorare tutti e soprattutto per vivere meglio. Dunque,
riduzione drastica degli orari di lavoro fino alla piena occupazione; questo è
un primo passo nel sentiero della decrescita. Ritrovare il senso
della vita, che non è solo lavoro, perché, come sapevano i nostri
antenati, la vita contemplativa – giocare, pensare, pregare, meditare,
sognare – è più importante della vita attiva. È così che si cammina verso la
società della decrescita, o dell’abbondanza frugale, che sembra un ossimoro ma
non lo è. In realtà, quella in cui viviamo è una società dello spreco, della
scarsità e della frustrazione, in cui i beni fondamentali, il cibo sano, un’aria pulita,
un’acqua non contaminata, quasi non esistono più. Una società felice consuma
poco, per indurre a consumare bisogna creare insoddisfazione. Una società può
conoscere l’abbondanza solo se sappiamo mettere dei limiti ai nostri desideri e
questa autolimitazione si chiama frugalità, conditio sine qua non
dell’abbondanza.
Questo progetto costituisce una soluzione alla crisi sociale, alla crisi
ecologica, alla crisi economica e alla crisi culturale. E allora o
intraprendiamo questa strada della decrescita, dell’ecosocialismo democratico,
dell’abbondanza frugale, o siamo condannati a un’altra forma di barbarie.
.
* Intervento pronunciato da Latouche
al Cantiere del Cipax,
tratto da una registrazione e non rivisto dall’autore, pubblicato da Adista.
Nessun commento:
Posta un commento