mercoledì 27 maggio 2020

Sergio Bologna parla di lavoratori e lavoro


«È ora di invocare il diritto di resistenza»: Sergio Bologna
(intervista di Roberto Ciccarelli)

Il modo più proficuo per cogliere il significato dell’avanzata impetuosa della classe operaia, e la sua sconfitta, tra il 1960 e il 1985, è quello di mettersi nei panni di un giovane oggi alle prese con la precarietà. A Sergio Bologna, storico del movimento operaio e tra i fondatori della rivista Primo Maggio, potrebbe domandare dove sono finite le conquiste costate tanti sacrifici? Dove sono finiti tutti i diritti?
«Certo – risponde Sergio Bologna – parlando di quel periodo così lontano, ti viene la curiosità di sapere che percezione ha oggi un giovane lavoratore dei suoi diritti. È consapevole di avere dei diritti, sa cosa vuol dire difendere un diritto sul luogo di lavoro? Lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori del maggio 1970 è stato un importante gesto di civiltà, il riconoscimento e la tutela dei diritti sindacali un passo avanti del sistema democratico. Eppure moltissimi quadri sindacali e le stesse correnti politiche a noi più vicine lo consideravano già vecchio, già superato. Ti faccio un esempio: mentre l’articolo sette dello Statuto dichiarava contestabili le sanzioni disciplinari e nulla di più, gli operai nella stragrande maggioranza delle fabbriche avevano ormai di fatto abolito o comunque limitato all’estremo il potere dei capi. Il Partito Comunista Italiano in Parlamento si astenne dal voto, non approvò lo Statuto perché l’art. 18 non era applicabile alle aziende sotto i 15 dipendenti. Oggi io vedo ancora dei giovani – sia dipendenti che freelance in particolare delle attività intellettuali o creative – che non solo hanno paura di contestare certe condizioni del loro rapporto di lavoro ma hanno paura addirittura di parlarne. Nella loro testa lo Statuto è cancellato ed è stato sostituito da uno Statuto dei Diritti del Padrone senza limiti. Ma vedo anche un numero sempre crescente di giovani che si organizzano, si coalizzano, discutono della loro situazione, decidono di reagire e aprono una vertenza, prendono l’iniziativa, chiedono il supporto al sindacato e se il sindacato non si muove ne formano uno loro. Alla fine qualcosa dovrà pur cambiare!»

 Quali sono state le idee forza delle lotte operaie in Italia che hanno portato anche allo Statuto dei lavoratori?
Senza dubbio l’idea che il lavoratore è un essere umano e ha diritto non solo di esprimere le sue opinioni politico-religiose ma ha diritto a lavorare in un ambiente e con dei ritmi che non siano dannosi alla sua salute (articoli 5, 6 e 9 del Titolo I dello Statuto). Di altre idee-forza, come quella dell’egualitarismo, c’è poca traccia nello Statuto. E anche qui si vede come lo Statuto sia rimasto indietro rispetto alla pratica e al livello di compattezza della classe operaia, che nel 1970 aveva già imparato a difendere la propria salute e integrità fisica rallentando i ritmi se questi erano troppo massacranti, cioè fermando direttamente la catena di montaggio. Azione diretta, non inizio di una logorante trattativa… La difesa della salute, dell’integrità fisica e poi via via la grande azione condotta soprattutto nelle fabbriche chimiche, in stretto contatto con tecnici e scienziati, per chiudere gli impianti nocivi e limitare le situazioni di rischio, rappresentano il lascito più importante di quella stagione. Ce ne eravamo dimenticati.

Un esempio oggi di questa determinazione operaia?
L’emergenza causata dall’epidemia di Covid-19 l’ha riportata in primo piano. Confindustria voleva tenere aperte tutte le fabbriche, anche quelle dove mancava persino il sapone nei bagni per lavarsi le mani. In molte situazioni gli operai hanno dovuto scioperare per ottenere dispositivi di protezione (ne abbiamo parlato estesamente nel primo numero di Officina Primo Maggio dopo aver sentito decine di delegati). Quindi l’Italia del nuovo millennio è tornata indietro rispetto agli anni ’60 – l’incidente a Marghera di questi giorni parla chiaro. Sembra che in maggioranza le piccole fabbriche, i “padroncini” che lavorano nei reparti anche loro, abbiano provveduto da sole a creare condizioni minime di sicurezza. Confindustria invece, a nome del grande padronato, ha preteso dallo Stato il rimborso delle spese per la disinfezione dei locali e la distribuzione dei dispositivi di protezione. Miserabili…

Con Giairo Daghini hai scritto una memorabile inchiesta sul maggio francese pubblicata prima nei “Quaderni piacentini” poi in un libro. Quale fu la differenza con l’Italia?
La grande differenza fu che in Francia l’ondata si spense in un mese, in Italia l’onda lunga è durata dieci anni. Ebbi la sensazione immediata che gli operai francesi lavoravano in condizioni dure ma non al punto da essere lesive della dignità umana. In Italia veramente c’erano dei comportamenti delle Direzioni di fabbrica che sembravano fatti apposta per umiliare le persone più che tenerle disciplinate. Non è un caso che quando chiesero a un delegato Fiat che differenza c’era tra prima e dopo l’autunno caldo, la risposta fu: «possiamo finalmente andare al cesso!». I datori di lavoro, tranne alcune eccezioni, consideravano l’assunzione di un’operaia o di un operaio un atto di generosità, di magnanimità, non avevano l’idea che nell’assumere una persona loro sottoscrivevano un contratto, cioè facevano uno scambio. A uno che invece trattava i rapporti con il personale in maniera civile, Adriano Olivetti, fecero una guerra senza quartiere, arrivando a invitare i consumatori a boicottare i suoi prodotti. Olivetti se ne uscì da Confindustria. E sì che allora Confindustria era guidata da imprenditori di un certo calibro, non da grotteschi burattini come oggi. A differenza della Francia, quella conflittualità, che fu definita “permanente”, è durata così a lungo per due ragioni di fondo: una, l’esasperazione accumulata negli anni precedenti, l’umiliazione che era stata inflitta a uomini e donne, che avevano bisogno di sfogarsi, di rendere la pariglia, e la seconda il fatto che le conquiste raggiunte dopo le lotte erano più fittizie che reali: accordi firmati e non rispettati dalla controparte (per cui dovevi scioperare il doppio per farli rispettare) e un altissimo tasso d’inflazione che erodeva gli aumenti salariali appena conquistati.

Hai sostenuto che la cassa integrazione è stata usata come uno strumento di pacificazione di massa. Cosa significa?
Nella redazione di Primo Maggio c’erano operai dell’auto e dell’alimentare in Cassa Integrazione, venivano da due grandi fabbriche milanesi e avevano una loro rete di compagni in una decina di altre fabbriche. Con loro abbiamo cercato di capire il ruolo di quell’istituto che oggi rappresenta l’ammortizzatore sociale di più ampio spettro. Eccoci dunque ancora di fronte a un esempio di come l’esperienza degli anni ’70 possa servire d’insegnamento a quanto accade oggi in piena emergenza da coronavirus. La Cassa Integrazione era nata con tutt’altre finalità, era un sistema intelligente e consisteva nel dare un po’ di respiro ad aziende in difficoltà in modo che potessero riqualificare gli impianti o rivedere le strategie di marketing o impostare una nuova linea di prodotto senza perdere la propria forza lavoro. In modo che potessero riprendere l’attività più forti e competitive e che in questo lasso di tempo i dipendenti potessero sopravvivere, con un salario decurtato ma comunque tale da non farli morire di fame. Quindi era una misura temporanea, tipo sei mesi al massimo.

Invece cos’è successo?
Agnelli e Lama si sono messi d’accordo per far diventare la CIG una specie di lazzaretto dove ricoverare le imprese decotte a spese della fiscalità generale, per anni, per decenni! Senza che la direzione della fabbrica muovesse un dito per riconvertire la produzione, anzi poteva girarsi i pollici per anni. Ma questo è ancora niente. Il problema principale era che la CIG poteva esser gestita come un rubinetto: “chiuso”, tutti a casa, “aperto” tutti al lavoro. Eh no! “Aperto” possono tornare al lavoro solo quelli che la Direzione decide di richiamare e se ci sono dei delegati o attivisti sindacali che danno fastidio, quelli continuano a restare a casa. In questo modo pian piano molte “avanguardie di fabbrica”, come allora si chiamavano, sono state buttate fuori e miliardi e miliardi di lire sono stati buttati via senza essere impiegati nello scopo primo della legge: riconvertire gli impianti, ammodernarli, per diventare più competitivi. Per questo ho usato il termine “mezzo di pacificazione di massa”.

Esistono analogie con la nostra attualità?
La Cassa Integrazione ha subito negli anni molti aggiustamenti, in fabbrica i militanti sono stati decimati, licenziati a decine di migliaia (malgrado l’art. 18), il sindacato ha preso altre strade, si è concentrato sui servizi individuali (patronato, enti bilaterali). Il governo Conte ha esteso la platea dei beneficiari sino alle imprese con un solo dipendente, quindi ha scaricato sull’INPS, già provato dall’erogazione dei 600 euro a più di 4 milioni di persone che li volevano, una massa di richieste ingestibile sia dal punto di vista burocratico che delle risorse. Allora si è rivolto alle banche perché anticipassero le erogazioni della Cassa, ma le banche hanno delle procedure più lente. La Cassa in deroga invece passa dalle Regioni e la burocrazia regionale non è più efficiente di quella statale, anzi. Insomma un bel problema. Ma quello a mio avviso che pone i maggiori interrogativi è l’uso della Cassa come assistenzialismo, rivolto indiscriminatamente a imprese in difficoltà e imprese floride. Le stesse che hanno mandato i loro giornali, i loro deputati e le loro associazioni a vomitare improperi contro il reddito di cittadinanza.

Un altro risultato dell’onda operaia furono le “150 ore”. Che cos’erano?
L’autunno caldo è del 1969, lo Statuto del 1970, le 150 ore vengono conquistate nel 1973. Erano una voce dei contratti collettivi firmati in quella tornata che prevedeva il diritto dei lavoratori di usufruire di un certo numero di ore retribuite di apprendimento presso scuole e istituti superiori a loro scelta. La maggioranza dei lavoratori ne approfittò per completare la scuola dell’obbligo o per ottenere la licenza media, fu una grande occasione per rimediare all’analfabetismo di ritorno e questo ti dà la misura della condizione operaia di quel tempo. Ma molti furono quelli che ne approfittarono per seguire dei corsi di formazione e cultura varia. Pensa a chi era stato eletto delegato, doveva capire cosa c’era scritto sulla sua busta paga e su quella dei suoi colleghi, doveva capire cosa c’era scritto nel contratto di lavoro, negli accordi integrativi aziendali, doveva sapere come negoziare, come scrivere un volantino, un articolo, una lettera alla Direzione; doveva capire come funzionava l’organizzazione del lavoro, per contestare eventualmente il cronometrista. Ma al di là di questo, c’era una sete di conoscenza più generale, si voleva capire come funziona lo Stato, il sistema dei partiti, la Costituzione, l’economia, le multinazionali, il mercato dei vari beni di consumo, la tecnologia. All’Università di Padova, dove insegnavo, organizzai un corso di storia e pratica del movimento operaio, vennero una ventina di lavoratori da varie aziende, in particolare del polo di Marghera. E questa domanda di apprendimento da parte di un’utenza di tipo nuovo mise in moto anche una dinamica d’innovazione della didattica. Era necessario scrivere delle dispense, dei libri di testo chiari, semplici, accessibili, senza perdere di rigore. Fu un grande esperimento, un piccolo salto di civiltà. Oggi cosa ti dà l’azienda? Un voucher per comperarti un paio di mutande da Intimissimi e lo chiama “welfare aziendale”. E i manager ci fanno le slides per le presentazioni: “la nostra azienda mette al centro l’uomo! Our people are our pride!”.

Il lungo Sessantotto italiano è stato una mobilitazione generale della società. Che cosa resta oggi?
Sì, questo aspetto del Sessantotto è stato trascurato eppure a me sembra quello più interessante e più resistente al tempo. Quando gli studenti cominciarono a contestare sia i metodi di apprendimento che i programmi universitari, posero le premesse per quella rivoluzione delle professioni che avrebbero messo in atto una volta laureati ed entrati nel mondo del lavoro. Nacque un nuovo tipo di giornalismo: Il Manifesto di Rossanda, Pintor e Parlato ne è un esempio. E poi un nuovo modo di fare il medico, l’architetto, l’urbanista, l’ingegnere, l’avvocato, il magistrato e anche l’insegnante, il docente universitario. Tutte le professioni misero in discussione il modo ed i principi secondo i quali erano state esercitate e quindi le istituzioni – dalla scuola all’ospedale, dal palazzo di Giustizia al manicomio – in cui venivano esercitate. Una larga parte della classe media si schierava a fianco degli operai ma non in maniera opportunista, battendo le mani, “bravi, bravi, lottate, lottate!” bensì scontrandosi con resistenze interne ai loro stessi ambienti, dai quali molti furono emarginati o espulsi. Questo contribuì alla nascita di una “nuova scienza”. Vuoi un esempio? Un esempio che è tornato di prepotenza alla ribalta oggi? Nel 1973 a Milano un medico, docente di biometria, Giulio Maccacaro assume la direzione della più antica rivista scientifica italiana, “Sapere” e raccoglie ben presto attorno a sé sia studiosi di varie discipline, scientifiche e umanistiche, sia tecnici ed operai di fabbrica particolarmente attivi sul piano sindacale. In pochissimi anni metterà le basi per una nuova medicina del lavoro, per una medicina impostata sui bisogni del paziente (straordinaria la sua “Carta dei diritti del bambino”) e soprattutto di un sistema sanitario che poggia su pratiche d’igiene pubblica e di medicina territoriale. Nel 1976 fonda la rivista Epidemiologia e prevenzione (www.epiprev.it) dove sono enunciati in maniera chiarissima tutti i principi che avrebbero dovuto guidare le istituzioni e le autorità sanitarie per far fronte alla pandemia da Covid 19. Che cosa vuoi di più?

Ritieni che questa alleanza possa essere ripresa oggi, tra chi e su quali basi?
In parte già funziona ma non solo nei confronti della classe operaia, anche nei confronti del lavoro autonomo, dei precari, della gig economy, dei migranti. I circuiti di solidarietà, la produzione d’intelligenza e d’innovazione affondano tutti le loro radici in quegli anni che qualche mascalzone continua a definire “di piombo”. Debbono prima o dopo trovare un coagulo di partito, altrimenti restiamo travolti dall’infamia del populismo sovranista (sono stati capaci solo di fare gli sciacalli durante questa epidemia), dal grottesco neofascismo patriottardo (sciacalli di riserva quando gli altri sono rauchi dal troppo urlare) e da quella terza componente che non saprei come definire, per la quale nutro un disprezzo forse maggiore, di coloro che mi ricordano le scimmiette di Berlino – non parlo, non vedo, non sento – che si raggruppa sotto bandiere e formazioni di centrosinistra.

Nel primo numero della rivista “Primo Maggio”, uscita proprio a seguito delle lotte operaie nel 1973, affidate all’inchiesta e alla con-ricerca militante un ruolo importate. Oggi siete tornati a praticarla nella nuova rivista “Officina Primo Maggio”. Qual è il ruolo del lavoro intellettuale oggi?
Sulla cosiddetta “conricerca” o l’inchiesta operaia noi non abbiamo inventato nulla. Erano metodi di lavoro ampiamente utilizzati dalla corrente “operaista” del marxismo italiano sin dal 1960. Quando abbiamo fondato quella rivista abbiamo fatto un altro ragionamento. Ci siamo detti: c’è un bisogno di cultura e di formazione nelle fabbriche, nel sindacato, in tutte le istanze sviluppatesi dal 68 in poi, che deve essere soddisfatto esplorando terreni di ricerca nuovi. Il primo esempio che mi viene in mente è quello della moneta. Negli ambienti della sinistra radicale non c’era ancora la consapevolezza, l’intuizione, che l’economia capitalistica si stava avviando verso una progressiva finanziarizzazione. Se pensi al punto in cui siamo arrivati oggi, alla massa di liquidità superiore di trenta volte il PIL mondiale e soprattutto all’inconcepibile – allora – divario tra super-ricchi e popolazione mondiale, bisogna ammettere che non eravamo ciechi. Un secondo esempio invece riguarda la storia militante. Nel momento in cui avvengono dei rivolgimenti così forti e dei cambiamenti così repentini nella coscienza della gente, c’è l’assoluta necessità di fermarsi un attimo e di guardare indietro, perché si tratta di ricostruire una genealogia di ciò che accade davanti ai tuoi occhi, hai bisogno di risistemare, riaggiustare, la linea della storia. Forse avevi dimenticato qualcosa di molto importante, credevi d’aver fatto cose nuove e invece erano state fatte meglio 60/70 anni prima. Quando abbiamo riscoperto la storia degli Industrial Workers of the World (IWW) negli Stati Uniti, dove tanti italiani hanno svolto un ruolo importante, questo ci ha aiutato a capire meglio come dovevamo rapportarci alla conflittualità operaia. Un terzo esempio, e qui torno sul problema dell’inchiesta o, se vuoi, della “con-ricerca”, è quello dei rapporti di scambio, di solidarietà con i portuali genovesi. Qualcuno allora prese il nostro lavoro assieme ai “camalli” come una specie d’innamoramento estetizzante per le situazioni pittoresche. In realtà ci hanno aperto gli occhi sul commercio marittimo, sui flussi globali, e da lì siamo arrivati presto alla logistica. Pensa adesso, chi avrebbe coraggio di sorridere di queste cose?
In cosa consiste un’inchiesta operaia? E una con-ricerca?
Il punto chiave è che noi non facevamo studi sociologici, mettevamo insieme degli elementi utili a chi praticava processi organizzativi, rivendicativi, conflittuali. Non facevamo una rivista, facevamo un’operazione politico-culturale. Il rapporto coi “camalli” dura ancora adesso, 45 anni dopo! Siamo ancora al loro fianco quando difendono il valore del loro lavoro e ci aiutano a ragionare, a capire, quando cerchiamo di dare un supporto agli immigrati delle cooperative di facchinaggio. Ci hai mai pensato che le lotte nella logistica oggi, Italia 2020, sono forse le uniche, assieme a quelle dei rider, a non avere carattere difensivo?

In che modo oggi si può praticare un’inchiesta sulla condizione del lavoro intellettuale?
Ti dico semplicemente quello che vedo un po’ tra i knowledge workers che girano attorno a ACTA, l’Associazione dei freelance e un po’ tra quelli che fanno parte della nostra rete internazionale, gente dello spettacolo, creativi, mondo degli eventi culturali in senso lato ma anche professionisti che lavorano nei settori logistica, informatica, shipping, finanza e affini. Tutte le associazioni di rappresentanza hanno condotto delle inchieste presso i soci per sapere come hanno affrontato l’emergenza. Moltissimi sono proprio a terra, tutte quelle attività che prevedono un rapporto con il pubblico sono chiuse e chissà quando riapriranno, lì puoi trovare gente che si mette in coda per un piatto di minestra. Altri hanno continuato a lavorare indisturbati, loro lo smart working lo praticano da sempre. Ovunque, a livello mondiale, si è capito che gli autonomi non hanno ammortizzatori sociali, il Covid 19 è servito dunque almeno a far capire che esiste un segmento specifico della forza lavoro. Chi continuava a sostenere che gli autonomi sono semplicemente imprese, ha dovuto finalmente smettere di dire idiozie. Molti hanno lavorato ma non hanno per niente la certezza di essere pagati.

Che cosa è emerso dalle nuove ricerche?
Negli ultimi due anni abbiamo fatto molti passi avanti nella conoscenza del lavoro autonomo e freelance, grazie alla ricerca e grazie all’attivismo di associazioni di rappresentanza o gruppi di autotutela. E purtroppo abbiamo constatato un forte degrado dei compensi, diminuiti anche di due terzi nel giro di una decina d’anni. Esperienza, anzianità, competenza contano sempre meno. Il life long learning non ti tiene a galla, è uno dei soliti slogan della cialtroneria dell’Unione Europea. Quindi il punto importante non è sapere qual è il ruolo del lavoro intellettuale ma come si fa ad arrestarne la svalorizzazione. Chi lavora in questi ambiti da professionista/tecnico/artista indipendente si è sempre considerato diverso dal precario. L’intermittenza lavorativa, la mancanza di sicurezza sono date per scontate, sono un rischio calcolato. Oggi buona parte di questo mondo finisce per scivolare nel grande calderone della gig economy.

In queste condizioni è possibile trarre ispirazione nella conflittualità di fabbrica anni Settanta?
Può servire a patto di non ripetere come pappagalli la lezione operaista. Per tutelarsi, il lavoro intellettuale di oggi deve trovare altre strade rispetto a quelle dell’operaio massa. Bisogna inquadrare il problema nella crisi generale della middle class, il richiamo al binomio catena di montaggio/rifiuto del lavoro non serve. I giochi sono cambiati, la classe operaia industriale, si tratti di Rust Belt americana o di Bergamo e Brescia, è uno dei terreni di coltura del populismo trumpista o leghista. Qualcuno pensa di evangelizzarli predicando l’amore cristiano per i migranti, ma bisogna proprio avere la mentalità da Esercito della Salvezza per essere così imbecilli. Lì si tratta di riaprire il conflitto industriale, il tema della salute riproposto dal coronavirus può essere il perno su cui far leva. Sul fronte del lavoro intellettuale invece, oggi sottoposto a brutale svalorizzazione, il riscatto può avvenire solo combinando i dispositivi del mutualismo prima maniera con le più sofisticate tecniche digitali della comunicazione.

Molti sostengono che è venuta l’ora di scrivere uno Statuto dei Lavori. Cosa ne pensi?
Per l’amor del cielo! Ci manca pure questa! Le leggi riflettono sempre quella che è la cosiddetta “costituzione materiale” di un paese, ossia i rapporti di forza vigenti tra le classi. Qualunque legge scritta oggi, con “questo” Parlamento, con “questo” clima nella società civile, porterebbe il segno dello squilibrio oggi esistente tra capitale e lavoro. Esiste già la Costituzione Italiana, basta e avanza per tutelare il lavoro. Se fosse applicata. No, non sono necessarie nuove leggi, è necessaria una mobilitazione capillare per cambiare la costituzione materiale del Paese, per cambiare quei rapporti di forza. Una volta che saremo riusciti a girare la frittata, potremo sancirlo con nuove leggi. È l’ora di invocare il Widerstandsrecht, il diritto di resistenza.

(L’intervista è tratta da “il manifesto” del 21 maggio 2020)


Editoriale del primo numero della rivista “Primo Maggio – Sergio Bologna

Scrive Sarah Lazare nel numero di In These Times del 12 marzo: «Pensavamo che il nostro sistema fosse caratterizzato da precarietà e senso di paura dei lavoratori, il Coronavirus ci ha fatto capire che è stato costruito così deliberatamente».
È vero. Tutte le caratteristiche negative del nostro tempo, in termini di sistema capitalistico in generale e in termini di sistema-Italia, stanno venendo a galla in maniera più chiara e più comprensibile di quanto abbiano potuto fare le migliaia di analisi e di denunce degli ultimi vent’anni.
Noi cominciamo qui la nostra avventura di Officina Primo Maggio. Eravamo pronti a uscire quando è partita l’emergenza. Far finta di nulla era ridicolo, mettersi a fare grandi analisi, tanti lo facevano, meglio di quanto avremmo potuto fare noi. Vorremmo provare allora a cambiare gioco e a pensare che cosa di positivo potrebbe nascere nella testa della gente, perché se c’è un dato certo è che il “pensiero unico” con il Coronavirus è andato in frantumi, e almeno su un paio di cose dovrebbe avere qualche difficoltà a ricostruire la sua compattezza di prima.
Primo, il ruolo dello stato e del servizio pubblico in generale.
Il problema però non dobbiamo guardarlo solo con l’ottica dell’emergenza: anche il più accanito neoliberale oggi è disposto a invocare uno stato autorevole, un comando centralizzato, una sanità pubblica efficace per combattere un virus. No, dobbiamo ripensare il ruolo dello stato da dove lo avevamo lasciato con Primo Maggio, e precisamente da quando ci siamo posti il problema dello smantellamento del welfare state. Quello che stava accadendo ce lo avevano spiegato Fox Piven e Cloward: non era tanto la demolizione del welfare quanto la sua trasformazione in sistema di regolazione e controllo. Si era in piena stagione dei movimenti di rivolta, Regulating the Poor era il titolo del loro libro e noi trovavamo analogie impressionanti con quanto avveniva in Italia con la cassa integrazione: non era solo un ammortizzatore sociale, era un’arma di pacificazione di massa per ingabbiare le lotte del “lungo autunno”.
Queste cose ce le siamo scordate completamente quando agli inizi del millennio e di fronte al crescere della precarizzazione si è lanciata la parola d’ordine del “reddito garantito” e non si è riflettuto abbastanza che le forme di erogazione di sussidi possono diventare strumenti di marginalizzazione – visto che l’attivazione di politiche del lavoro rimane fine a se stessa – oppure di limitazione della libertà individuale quando occorre. Proprio in Germania, il paese forse più attrezzato per questo, tanti giovani poveri rinunciavano al sussidio pur di non vedersi capitar in casa i controllori a metter le mani negli armadi. Con l’emergenza attuale tutti corrono a chiedere elemosina allo stato, il sussidio (chiamato ipocritamente “incentivo”) rischia di diventare un modello di politica economica. Sono le imprese a sgomitare in prima fila con il cappello in mano, la mano invisibile del mercato se la sono scordata.
Se il governo Renzi si è divertito ad amputare tentacoli piccoli e grandi di stato – dalla soppressione delle province e delle loro competenze sulle tematiche del lavoro, alla soppressione del corpo dei forestali (pochi mesi prima che una bufera eccezionale sradicasse parti importanti e preziose dei nostri boschi), a quella del Magistrato alle Acque di Venezia –, già prima di lui era cominciata la grande svendita dei beni demaniali: aree ed edifici pubblici ceduti ai privati a prezzi di mercato, rinunciando a investire in progetti di impiego sociale o di pubblica utilità. E ancor prima: nel 1997 Bassanini proponeva di trasformare in Spa tante aziende municipalizzate dei servizi essenziali. Quattordici anni dopo per salvare l’acqua pubblica ci vorrà addirittura un referendum. Il risultato fu chiarissimo: no alla privatizzazione. Ma non è bastato. Insomma, è dall’epoca di Mani Pulite e dello yacht Britannia, cioè per tutto il tempo della Seconda Repubblica, che il mestiere dei nostri governi è demolire lo stato dopo averlo logorato o svenduto.
Quello che è avvenuto in questi anni non è solo la riduzione dello stato al minimo ma anche la trasformazione di quel minimo in strumento di controllo, selezione e in ultima analisi creazione di diseguaglianza: un apparato burocratico che appare sempre più pesante, parassitario e corrotto.
Sicché non basta dire “torniamo al pubblico” ma occorre andare alle radici per rifondare la cultura, l’etica del servizio pubblico contro l’idea neoliberale della “pura efficienza” dell’apparato, perché questa invocazione dell’efficienza è quella che ha consentito d’introdurre i dettami del mercato nel sistema pubblico. Riscoprire il ruolo dello stato non è possibile senza una rivalutazione del senso etico del funzionario pubblico, di quello che un tempo si chiamava “senso di responsabilità”. Ed è proprio questo che la pandemia da Covid 19 ha dimostrato: la figura simbolo in questa emergenza s’identifica oggi con la professione nella quale vige un vincolo di giuramento a un preciso codice deontologico: la professione sanitaria. E subito dopo il pensiero corre alla figura dell’insegnante. Sanità e scuola, se non poggia su queste fondamenta, ogni discorso sullo stato mostra la corda. In principio c’è la “sostanza umana” della professione, il Beruf weberiano, poi viene la scienza dell’organizzazione, poi le tecnologie – delle quali comunque, come si vede dall’indice, intendiamo occuparci.
Eppure non basta nemmeno questo, non è possibile riscoprire il ruolo dello stato e nello stesso tempo evitarne i poteri di controllo senza uno slancio di reale partecipazione democratica. Per esempio, un aiuto statale, in forma di sussidi per pagare l’affitto, può rivelarsi uno strumento di oppressione: chi avrà diritto a questi incentivi? E nello stesso tempo, in ragione delle regole di mercato, più che alleggerire il problema, può benissimo generare un innalzamento degli affitti. Ben altra partecipazione popolare richiede una reale gestione democratica del diritto all’abitare.
E l’economia? Questo è il terreno sul quale molto probabilmente, superato il virus, il “pensiero unico” può ricomporsi. Bisogna impedirlo. Per ora non ci addentriamo, lo mettiamo però in agenda nel lavoro di Officina Primo Maggio, limitandoci a richiamare l’attenzione su quei testi che sono tornati a parlare di “economia fondamentale”. Ciò che ha costituito la caratteristica del capitalismo degli algoritmi, simboleggiato dal modello Amazon e dalla funzione logistico-distribuiva, è la sua vocazione a soddisfare bisogni non essenziali. Riportare lo stato nella sfera economica significa concentrare le scelte prioritarie sui bisogni essenziali. Ci diranno che è facile a dirsi in situazioni d’emergenza dove qualche regola di mercato può essere sospesa senza troppi ostacoli, ma come farlo passare nel “new normal”? Un modo potrebbe essere prendendo il toro dalle corna digitali, come abbiamo tentato di fare in alcuni nostri articoli. A ben pensare, la rivoluzione digitale intesa come capitalismo delle piattaforme e degli algoritmi si è concentrata soprattutto sulla prestazione di servizi che non rispondono a bisogni essenziali. In questo primo numero abbiamo cercato di guardare in concreto cosa succede nel mondo di Industria 4.0. e di Logistica 4.0. Nel prossimo, se vogliamo parlare di stato, dovremo misurarci con l’Agenda digitale, con la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione. È un salto in avanti oppure un modo per congelare lo stato attuale del sistema pubblico e renderne più complessa una riforma sostanziale? Su questo terreno, sul terreno delle reti, l’emergenza ha messo a nudo il ruolo essenziale di Internet – come potrebbe altrimenti una popolazione chiusa in casa comunicare e lo smart working di molte aziende funzionare? – e la sua natura di habitat dal quale non possiamo più uscire. L’art. 82 del decreto Cura Italia è tra quelli meno criticabili.
Se dobbiamo guardare avanti e immaginare che questa emergenza possa riaprire delle partite che ormai sembravano definitivamente chiuse, uno dei terreni a noi più congeniali – avendo messo in testa al nostro programma il conflitto nei rapporti di lavoro – è quello della fabbrica. Sì, quanto è accaduto e sta accadendo in quella specie di sfera residua del paese che si chiama “manifattura”, che si chiama “industria” – tanto residua da far dire ai primi decreti che lì tutto continuava as usual,mentre altrove tutto si poteva e si doveva fermare – riapre un orizzonte di rapporti sociali e di dinamiche organizzative che non dobbiamo chiederci se sono obsolete o meno ma se sono o non sono espressione di bisogni essenziali, senza i quali parlare di democrazia non ha senso.
È nelle fabbriche, infatti, che si è manifestata la prima scossa a un sistema imputridito. Dettata dalla paura, certo (ma perché, la classe operaia deve avere sempre “nobili sentimenti”?). Abbiamo cercato di capire che cosa stava succedendo con un lavoro di inchieste-lampo.
Le agitazioni erano cominciate prima, ma è dopo la conferenza stampa di Conte della sera dell’11 marzo che esplode la protesta, a sentir dire il premier che tutto (o quasi) si poteva chiudere in Italia, tranne le fabbriche. Tale e quale la posizione espressa da Confindustria: la produzione industriale non si doveva assolutamente fermare, una sospensione delle attività avrebbe provocato danni irreparabili al sistema economico, tagliando fuori le aziende italiane dalle catene di produzione internazionali e dalla possibilità di competere. Immediata la reazione degli operai: il giorno dopo scioperi e fermate un po’ ovunque.
Invece di capire al volo che il clima era mutato di colpo, Assolombarda per bocca del suo presidente definiva irresponsabili quei sindacati che avevano dichiarato sciopero, anzi “istigato” allo sciopero. Non aveva capito che erano stati “spinti” e talvolta “costretti” allo sciopero non da chissà quale voglia di protagonismo ma dai loro delegati, pressati, sommersi da una moltitudine operaia che si era sentita come presa in trappola. «Come? Gli impiegati possono lavorare a casa, in smart working, e noi chiusi qua dentro senza misure precauzionali, senza mascherine, senza disinfezione degli ambienti, senza tute protettive, attaccati spesso l’uno all’altro, mentre a tutti gli italiani si chiede di stare almeno a un metro e mezzo di distanza?». E allora di colpo, nel giro di poche ore, è caduto il sipario sulle condizioni igieniche dei nostri luoghi di lavoro, dalla metalmeccanica alle banchine dei porti alla cantieristica. Si è rotta la coltre di silenzio e di omertà che ormai da molti anni impediva di vedere e di dire che in molti luoghi di lavoro non esisteva nemmeno il sapone nei bagni, dove gli interventi di igienizzazione e sanificazione non erano mai stati fatti, dove i dispositivi di protezione individuali non erano mai stati introdotti; mancavano le premesse per una gestione ordinaria dell’igiene, figuriamoci per una situazione d’emergenza. Alla faccia dello Statuto dei Lavoratori, di cui tra poco festeggeremo il cinquantesimo anniversario.
Questa spinta operaia si è rovesciata innanzitutto sui delegati di fabbrica, sulle rappresentanze sindacali aziendali (Rsu), sui rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls), figure che nel corso degli anni erano state ritenute “ridondanti” e poco per volta erano state “sfoltite”, decimate, depotenziate, mentre aumentava a dismisura la produzione normativa sulla sicurezza e il suo delirante corredo burocratico. Il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 maggio 2014, sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria prevede che il numero dei componenti delle Rsu deve essere di 3 nelle unità produttive che occupano fino a 200 dipendenti; 3 ogni 300 dipendenti nelle unità produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti; 3 ogni 500 dipendenti nelle unità produttive di maggiori dimensioni. Nessun criterio viene definito invece sul rapporto numero di dipendenti/responsabili della sicurezza territoriali (Rlst).
E d’improvviso queste figure, questo esile strato di rappresentanza, diventano l’unico filtro, l’unica mediazione, l’unica realtà istituzionale che si frappone tra una rabbia esasperata, mista a sconcerto e paura, e un padronato, un management, incapaci di rendersi conto di quanto sta succedendo. E trovano di nuovo, forse dopo anni, decenni, una loro legittimazione, una loro autorevolezza, che ha consentito di concludere decine di accordi. Là dov’era più forte, il sindacato – in particolare la Fiom – veniva a trovarsi come unico punto di riferimento istituzionale, mentre Confindustria e le rappresentanze padronali sul territorio venivano messe da parte come un inutile ingombro, le multinazionali non le consideravano nemmeno e la maggioranza dei datori di lavoro presto capiva con chi era meglio mettersi a un tavolo. Bisognava trovare la quadratura del cerchio: da un lato chiudere le fabbriche per consentire di adottare le misure minime di sicurezza, ma chiuderle quel tanto che non avrebbe impedito di evadere gli ordini, che in molti casi erano schizzati in alto proprio a causa del virus. Ordini di clienti esteri, che temevano di vedersi arrivare addosso le misure drastiche che l’Italia stava adottando e volevano riempire le scorte. Non tutte le fabbriche si trovavano in questa condizione ovviamente, perché tante erano a corto di ordini da tempo, per queste andava bene poter fare un po’ di Cig. In tutte però il tasso di assenteismo era cresciuto, era al 20-25%, per autodifesa o, soprattutto, per far fronte a obblighi familiari resi difficili dalla chiusura delle scuole. Quindi occorreva trovare soluzioni differenziate. Per averne un’idea, citiamo dal comunicato sindacale della Fiom di Brescia del 12 marzo:
Dopo le aziende in cui è già stata definita la chiusura nei giorni scorsi in misura diversa […] sono aumentate le realtà dove è stata disposta una diversa organizzazione del lavoro, dal turno centrale a turni avvicendati, con riduzione degli orari, oppure riduzione dell’orario pur su un unico turno di lavoro, oppure rotazione delle presenze con utilizzo permessi/ferie per assenti.
Ma là dove il sindacato è più forte, come a Reggio Emilia e in parti della Regione emiliano-romagnola, i provvedimenti sono stati presi in anticipo anche rispetto ai decreti del governo. Grazie alla presenza capillare dei delegati, il sindacato è stato in grado di capire prima dell’autorità sanitaria (le Asl si sono rivelate strutture inconsistenti dopo la falcidia agli organici inflitta loro negli ultimi anni) quali misure di sicurezza assumere e ha redatto un vademecum fatto pervenire alle fabbriche, utilizzando anche una What’sApp cui erano iscritti più di 500 delegati.
Ma anche in Emilia Romagna, come in Lombardia, Veneto, Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Liguria, interi settori sono sguarniti sindacalmente, la presenza di sindacati di base talvolta compensa l’assenza o l’inconsistenza delle grandi centrali ma spesso c’è il vuoto. Tuttavia anche in questi settori la protesta spontanea di base, pur timidamente, si è manifestata ed è riuscita a smuovere le acque, qualcosa dunque sta cambiando. E poi c’è il resto, il buio delle migliaia di piccole e minuscole realtà da dove non arrivano voci. E poi ci sono le ditte d’appalto che lavorano per le aziende sindacalizzate e non: non hanno diritti, figurarsi protezioni o mascherine. Da loro non è mai entrata la Costituzione (ma grazie a loro siamo leader mondiali nella costruzione di navi da crociera…). E poi ci sono i precari, gli occasionali, i freelance, c’è il mondo brulicante della gig economy, l’universo dove il conflitto non è mai arrivato.
Ci sono luoghi dove le nostre inchieste-lampo non sono arrivate a raccogliere informazioni sufficienti, altri dove abbiamo potuto ascoltare un po’ di voci. Il Veneto è uno di questi. Ed è emerso un quadro variegato, contraddittorio dove paura di ammalarsi e rabbia nel vedersi messi in ferie forzate convivono nella stessa persona. Alcuni padroncini si sarebbero attivati per procurare mezzi di protezione, timorosi di veder arrivare i controlli; ma pochissimi tra operaie e operai ci hanno poi detto di aver veramente visto arrivare i controlli delle delle autorità competenti. Molte microimprese e certe Pmi sono aziende a conduzione famigliare, contesti in cui buona parte del parentado lavora a stretto contatto con i dipendenti, sono aziende subfornitrici che fanno lavorazioni conto terzi. «Non è che i padroni non ci pensano, hanno paura anche loro di ammalarsi. Sono tutto il giorno in fabbrica. Ma se chiudiamo c’è il rischio di perdere i clienti, questi poi si trovano un altro fornitore e non li rivedi più». Aziende fragili, raramente sindacalizzate. In questi casi le aspettative risiedono tutte nell’azione del governo, sono luoghi dove la frustrazione potrebbe esplodere quando verrà chiesto di stringere i denti per risollevare l’Italia. È troppo presto per fare previsioni, chissà, forse tra qualche mese la rabbia che seguirà alle difficoltà economiche potrebbe spingere alla coesione con il piccolo padronato, e rivolgersi direttamente contro la politica, contro lo Stato, reo di non aver elargito sussidi a sufficienza.
Ma eccoci a un secondo atto del dramma. Il 22 marzo, di fronte a una protesta operaia che chiede sicurezza e sospende il lavoro, il governo emana un nuovo Decreto dove si definiscono le attività industriali e commerciali considerate essenziali e autorizzate a funzionare, tutte le altre avrebbero dovuto chiudere. A detta dei sindacati l’elenco delle attività industriali contenute nel Dpcm era troppo ampio e comprendeva settori che con i servizi fondamentali (sanità, agro-alimentare, energia ecc.) avevano ben poco a che fare.
Le dichiarazioni pubbliche di Confindustria che rivendicavano il merito di aver ottenuto un elenco di attività così “ecumenico” hanno riacceso gli animi e si è arrivati a una serie di scioperi dichiarati da intere categorie sindacali, in maniera unitaria (settore metalmeccanico, chimico-tessile-gomma-plastica e carta) con il risultato che il 25 marzo il governo è nuovamente intervenuto modificando, con un Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico, il precedente elenco in modo da diminuire il numero di lavoratori chiamati al lavoro. Ad esempio, nel settore metalmeccanico si stima che la sospensione poteva avere effetto sul 90% della forza lavoro. Ma nella norma era stata inserita una scappatoia per le imprese “escluse” che avrebbero potuto, mediante autocertificazione, dichiarare di essere al servizio delle filiere fondamentali e chiedere l’autorizzazione a proseguire l’attività. Affidato ai prefetti, rappresentanti territoriali dello stato, il compito di verificare la veridicità delle autocertificazioni. Clamorosa la deroga che consente le attività dell’industria dell’aerospazio e della difesa, sempre previa autorizzazione dei prefetti. Considerarle attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale, al pari del settore sanitario e agroalimentare, è una decisione che non ha bisogno di commenti. La norma, scritta – com’è buona tradizione italica – in maniera imprecisa e ambigua, ha gettato i territori nella più totale confusione. Com’è consolidata tradizione dei paesi dove lo stato è debole, le singole prefetture si sono mosse in maniera difforme, in particolare per quanto riguarda il coinvolgimento del sindacato nel processo di selezione: alcune hanno fornito gli elenchi delle imprese che avevano inoltrato l’autodichiarazione, altre hanno semplicemente comunicato l’elenco delle imprese che avevano già autorizzato a operare, alcune si sono preoccupate di mantenere un rapporto di condivisione con il sindacato avendo un occhio all’ordine pubblico, altre hanno semplicemente manifestato la loro impotenza, travolte dalle richieste e impossibilitate a esaminarle celermente. Sta di fatto però che Confindustria è riuscita a far rientrare dalla finestra quello che era stato cacciato dalla porta. Mentre chiudiamo questo editoriale ci sono segnali che le agitazioni stanno riprendendo, la parola è di nuovo ai territori. Che tenuta avrà questa possibile seconda ondata di scioperi? Quante famiglie ormai cominciano a non avere i soldi per mangiare? La riapertura di molte attività avrà l’effetto di ritardare il superamento dell’emergenza e il ritorno alla normalità? Oltre a tutti i danni che ha prodotto negli ultimi decenni, dovremo ringraziare Confindustria anche di averci fatto pagare un prezzo più alto in termini di contagiati e di morti? Noi del conflitto – del conflitto dentro il rapporto di lavoro – abbiamo fatto un programma, il primo punto di un’agenda culturale, di un’intenzione di ricerca. E riteniamo che il conflitto manchi soprattutto dentro il lavoro intellettuale, creativo, digitale. Non ci facciamo illusioni, il paese, uscito stremato dalla crisi del Coronavirus, chiederà alla gente di lavorare “pancia a terra”, ma forse qualche spinta verso il superamento dell’individualismo e della rassegnazione porterà la gente a guardare con occhi diversi la necessità della coalizione. E quando accadrà, saremo pronti a dare una mano. Non c’interessa fare una rivista, c’interessa fare un’operazione politico-culturale, c’interessa mettere il nostro minuscolo gettone per cambiare le cose.
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Una generazione ribelle - Sergio Bologna, Giairo Daghini

Ecco un altro anniversario. Dopo il 2017 che ci ha ricordato la rivoluzione d’ottobre e il movimento del ’77 nelle università italiane, è la volta di ricordare i cinquant’anni dal fatidico 1968. C’eravamo? Sì, c’eravamo, mezzi partecipanti e mezzi spettatori, perché la nostra generazione aveva iniziato prima, sei-sette anni prima o anche dieci, quando la rivolta di Ungheria aveva cominciato a spargere qualche dubbio sul rapporto tra classe operaia e comunismo. E quelli con qualche anno di più, Raniero Panzieri tanto per fare un nome, ci insegnavano che prima degli ungheresi erano stati gli operai tedeschi di Berlino Est a scontrarsi con i carri armati russi. Il ’68 quindi non era “nostro”, era un passaggio, importantissimo, decisivo, di un lungo percorso nel corso del quale dovevamo trovare una strategia di liberazione e di ribellione che non seguisse i canoni comunisti, neanche nelle loro varianti maoiste o guevariste. Ma era un passaggio, non il passaggio. Anzi, diciamola tutta, gli operaisti accaniti, come noi, reduci di “Classe Operaia”, non erano ben visti nelle prime rivolte universitarie, quelle dell’ondata cosiddetta “antiautoritaria”. Chi mise le cose a posto fu il maggio francese. Lì si vide che, se c’era da tentare una, sia pure limitata, sovversione dell’ordine delle cose – nella fattispecie l’ordine metropolitano –, la classe operaia non si tirava indietro. Alla notizia dei primi scontri nel Quartiere Latino, vicino alla Sorbonne, ci siamo detti: “Dobbiamo esserci”.
L’arrivo a Parigi è stato uno shock e il senso di quella metropoli in gran movimento ci accompagnerà e farà da intercessore nel racconto che ne faremo al ritorno. Quel che ci ha colpito di sorpresa è stato lo scoppio di desiderio dilagante, trasversale, con masse di operai, di medici, di studenti, di lavoratori della cura e intellettuali, di uomini, di donne tantissime che invadevano le strade e spezzavano i ritmi e le regole di quella macchina della valorizzazione che è la metropoli.
In una moltitudine in fibrillazione ciascuno sembrava divenire qualcun altro, qualcuno che fino ad allora era rimasto compresso e che ora prendeva respiro. Grandi sciami di persone si spostavano sempre dialogando con animazione e soprattutto in grande atmosfera di amicizia. Non la folla di una metropoli, ma una moltitudine che si ricomponeva di continuo per blocchi di amicizia con una socialità politica immediata.
Ogni giorno dovevamo aggiustare i nostri schemi mentali a fronte di una società che spezzava i ritmi, le convenzioni e che nell’incontro di tutte le componenti del lavoro vivo rimetteva in discussione in ogni disciplina le proprie basi gnoseologiche, le pratiche politiche e il concetto stesso di lavoro in quanto produttore di merci.
L’articolo sui “Quaderni Piacentini”, che scrivemmo nel giugno (lo si può leggere oggi in rete qui) fu un gesto politico. Forse oggi non scriveremmo le stesse cose. La nostra interpretazione, la nostra stessa ricostruzione dei fatti, era fortemente condizionata dal paradigma operaista: avevamo intenzionalmente costretto la realtà in quella camicia di forza perché non c’interessava restituire a Parigi quel che era di Parigi, c’interessava la partita che si stava giocando in Italia, cioè spostare l’intero movimento studentesco dalla lotta per la riforma dell’istruzione alla lotta di fabbrica. L’abbiamo tentato con il giornale “La Classe”, con la presenza e l’agitazione alle porte della FIAT, e ci riuscimmo. Grazie alle avanguardie di fabbrica, a Marione Dalmaviva, ma anche grazie ai lavoratori-studenti di Trento, di Padova, grazie alle facoltà scientifiche, grazie ai tecnici di fabbrica.
Questo grande movimento di lotte del ’69 alla FIAT ci introduce nel decennio del lungo ’68 italiano dove una ribellione civile che parte anche dalla fabbrica investe tutta la metropoli. È stata una generazione ribelle con una straordinaria forza di innovazione nella produzione culturale, nelle forme della socialità, negli spazi urbani e che ha posto con una grande intensità l’istanza del lavoro vivo, il lavoro di soggettivazione che avviene nella individuazione e nella socializzazione del linguaggio, degli affetti, delle forze di memoria, di percezione e dell’intelletto. Quelle forze cognitive che la controrivoluzione neoliberista tenterà di catturare integrando l’agire e la cooperazione sociale di una generazione di mezzo nelle reti della finanziarizzazione.
Come si fa a raccontarla a questa generazione di mezzo e a quella giovane di oggi? Come possono capire la voglia di mettere in discussione tutto, loro che, nella grande maggioranza, sembrano accettare l’ordine delle cose, l’ordine del mercato, tranne i pochi che hanno raccolto le nostre bandiere? Come può uno che segue la trafila telefonino-scuola-telefonino-università-iPhone-soggiorno in Inghilterra per imparare bene l’inglese-iPhone 6-cv in tutte le direzioni-iPhone 8-stage-iPhone 10-primo colloquio di lavoro-iPad-“beh, mi pagano di merda ma fa tutto curriculum”-iPad 2-mutuo per la casa coi soldi dei genitori… Come fa uno così a concepire che si possa buttare all’aria tutto, lavoro sicuro, famiglia con casa al mare, per mettersi in mezzo ai casini, alle occupazioni, agli scontri e non credere più a quello che ti hanno insegnato a scuola, in facoltà, per inseguire una rivoluzione che sai benissimo non si farà mai e se si facesse chissà se sarebbe meglio o peggio? Come fa uno che vive nei social, e non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che la vita possa essere diversa, a capire, a concepire la ricerca di una propria visione del mondo? Oppure riesce sì a immaginarlo, ma in un ambiente esotico, nell’Amazzonia, in Australia, nella Terra del Fuoco, mentre noi pensavamo di farla diversa la vita negli stessi luoghi in cui eravamo nati e cresciuti, con gli stessi negozi sotto casa e gli stessi vicini di pianerottolo.
Trasmettere oggi quell’esperienza è forse impossibile. Non sono le forme esteriori a rappresentare un ostacolo, le occupazioni, i cortei, le assemblee, persino le botte con la polizia, no, quelle sono facilmente trasmissibili, sono alla portata persino dello zombie con l’iPhone. No, intendiamo le motivazioni che hanno spinto a compiere quelle azioni, i ragionamenti, il senso comune, che le hanno legittimate – queste sono le cose che a nostro avviso possono apparire impenetrabili ai millennial. Prendiamo ad esempio la parola d’ordine “rifiuto del lavoro”. Come si può capire che quelle tre parole avevano un’importanza enorme non solo per noi ma per gli operai di fabbrica? Basta guardare l’intervista con Italo Sbrogiò, leader operaio del Petrolchimico di Marghera in pensione, per rendersene conto. Come possono capirlo quelli che sono disposti, lavorando gratis o per quattro soldi, a portar via il posto a un giornalista di quarant’anni, a un operatore televisivo, a un curatore di mostre d’arte? Di questa oscena corsa al ribasso, che abbiamo tutti sotto gli occhi, non possiamo dare la colpa solo alla pubblica amministrazione coi suoi bandi demenziali o agli algoritmi o ai padroni in genere e ai loro uffici del personale. C’è gente, tanta, disposta a vendersi per un niente pur di mettere la testa dentro qualcosa, fior di laureati, gente da spaccar loro le gambe a pensare il danno che fanno agli altri, oltre che a se stessi. Gente che non vede altro che il mercato, ma che non capisce un accidente del mercato stesso, nemmeno la regola aurea che più scendi di prezzo meno sarai capace di rialzarlo, un domani.
Ecco, se qualcuno ci chiedesse in che modo utilizzare questo anniversario, in che modo cercare di far capire i valori del ’68, noi risponderemmo: spiegando le ragioni che hanno portato il lavoro intellettuale e cognitivo a difendere il suo valore, a difendere la sua dignità. Il lavoro intellettuale e cognitivo, diciamo con enfasi, perché è quello che oggi, assai più del lavoro manuale, è disposto a vendersi per un tozzo di pane o per niente.
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Come il patrimonio teorico dell’operaismo italiano è servito a comprendere la realtà del lavoro postfordista – Sergio Bologna
Sergio Bologna, protagonista dell’operaismo e del post-operaismo italiano, racconta l’evoluzione di un pensiero politico, vario e ricco di sfaccettature, che attraversa mezzo secolo di elaborazione teorica e azione militante in Italia, dagli anni Sessanta a oggi. Un pensiero che ancora oggi mostra tutta la sua potenziale ricchezza ed è capace di innervarsi con le energie delle nuove generazioni. Perché l’esercizio del pensiero critico è linfa per la comprensione di ciò che è successo e motore di ciò che verrà.
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Il sistema di pensiero che viene riassunto con il nome di “operaismo italiano” non è un sistema organico, racchiuso in un testo fondamentale, in una qualche Bibbia, ma è la somma di diversi contributi teorici provenienti da alcuni intellettuali militanti che hanno fondato le riviste “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia”.
[1] Raniero Panzieri, Mario Tronti, Toni Negri e Romano Alquati sono quelli che hanno posto le fondamenta del sistema, altri, come Gaspare De Caro, Guido Bianchini, Ferruccio Gambino, Alberto Magnaghi, hanno portato dei contributi essenziali su tematiche specifiche che completavano l’orizzonte del pensiero operaista e gli davano l’impronta di un “sistema” coerente al suo interno, come la storiografia, l’agricoltura, le migrazioni, il territorio.
Operaismo e fordismo
L’esperienza dei gruppi operaisti si è sviluppata in un periodo storico nel quale sembrava che nelle società capitaliste non ci fosse un’alternativa alla produzione di massa caratterizzata da grandi imprese in grado di ottenere forti economie di scala. La grande fabbrica nella quale migliaia di lavoratori svolgevano operazioni sempre più semplificate – mentre le macchine svolgevano operazioni sempre più complesse – sembrava il punto d’arrivo di un processo storico che aveva origine nella nascita dell’industrialismo. La produzione di massa era il modo migliore per produrre beni che costavano poco sul mercato e potevano essere acquistati da tutti, in primo luogo dagli stessi lavoratori che li producevano, anche se si trattava di beni complessi come l’automobile. Così si creavano le premesse per realizzare l’insostituibile integrazione alla produzione di massa, cioè il consumo di massa. Un sistema tanto perfetto e ben funzionante che era stato adottato anche dai paesi dove aveva trionfato la rivoluzione comunista. Anzi, la rivoluzione comunista aveva trionfato in paesi nei quali questo sistema era ancora molto imperfetto, poco sviluppato o addirittura inesistente, sono stati i governi usciti dalla rivoluzione a portare a compimento lo sviluppo del sistema della produzione di massa organizzandola in grandi Kombinat, in complessi industriali con migliaia di lavoratori, estendendola anche all’agricoltura. In Occidente questo sistema veniva chiamato per comodità “fordismo” perché aveva trovato la sua applicazione pratica e teorica più compiuta nell’organizzazione delle fabbriche dell’automobile di Henry Ford. L’idea di base dell’operaismo, mutuata ovviamente dalla teoria marxiana, era che la grande fabbrica con le sue migliaia di operai potesse trasformarsi in un grande terreno fertile per un progetto rivoluzionario e diventare da sede della produzione di massa a spazio liberato dall’oppressione capitalistica. Il capitalismo doveva essere imprigionato nella sua stessa dimora, le mura della sua casa dovevano diventare le sbarre della sua prigione. Il lavoro fordista alla catena di montaggio doveva diventare il terreno di formazione del soggetto rivoluzionario, dell’operaio massa. Come si vede, l’idea primordiale dell’operaismo era il calco, l’impronta rovesciata del fordismo. Senza un’organizzazione sociale come quella della fabbrica fordista l’operaismo avrebbe avuto difficoltà a elaborare il suo progetto rivoluzionario, l’operaio massa si formava come classe dentro un sistema produttivo con particolari caratteristiche tecnologiche, era tutt’uno con questo sistema, che gli forniva i mezzi di sussistenza. L’operaio massa era innanzitutto un salariato, la struttura della sua busta paga era composta da una parte fissa, il salario base, da un parte variabile, collegata alla produttività e da altre voci che corrispondevano ad altrettante conquiste contrattuali come il recupero dell’inflazione, gli assegni familiari, le ore straordinarie, i premi di produzione, le indennità per lavori notturni o nocivi ecc.. L’organizzazione produttiva fordista non era il sistema dominante solo all’interno della fabbrica ma proiettava i suoi rigidi schemi anche sulla società, sulla mobilità urbana ed extraurbana, sugli insediamenti abitativi, sugli orari dei negozi. Migliaia di operai uscivano al mattino presto dalle fabbriche dopo aver fatto il turno di notte ed altrettante migliaia erano in attesa fuori dai cancelli per entrare al primo turno del mattino. Era questo il momento migliore per distribuire e diffondere i volantini di “Classe Operaia” e di “Potere Operaio”, volantini che quasi sempre erano stati scritti su indicazioni fornite da operai delle stesse fabbriche, dopo un lungo lavoro di “conricerca”, di dialogo e di scambio di opinioni e informazioni tra militanti operaisti e operai di fabbrica. L’operaismo quindi è stato in tutto e per tutto l’immagine rovesciata del fordismo, era tutt’uno con il fordismo, viveva in simbiosi con esso, non sembrava immaginabile un operaismo senza una società fordista, senza una produzione di massa, senza l’operaio massa. Con la morte del fordismo avrebbe dovuto morire anche l’operaismo. La società postfordista, la società dell’informazione, la società della prevalenza del terziario e della finanza, del lavoro precario e del lavoro indipendente, avrebbero dovuto essere incomprensibili a chi si era formato sul fordismo. L’operaismo avrebbe dovuto estinguersi lentamente man mano che la figura dell’operaio massa diventava sempre più marginale nelle società occidentali. Invece ciò non è avvenuto, i militanti, gli attivisti, gli intellettuali che avevano condiviso l’esperienza operaista sono stati in grado meglio di altri di cogliere le caratteristiche della nuova formazione capitalistica – che per comodità abbiamo chiamato “postfordista”. Anzi, di tutte le organizzazioni ed i gruppi extraparlamentari degli Anni 70 operanti in Italia, gli eredi dell’operaismo sono rimasti gli unici a tentare, a volte con successo, di elaborare una nuova teoria della liberazione praticabile nella società postfordista, sono gli unici che sono riusciti a tallonare l’evoluzione del capitalismo da Henry Ford a Steve Jobs, producendo analisi convincenti e pratica politica sia con il lavoro salariato sia con il lavoro non salariato. Com’è stato possibile?
Il ruolo dell’intellettuale
Innanzitutto occorre ricordare che l’operaismo non è stato una semplice riproposizione dell’anarcosindacalismo o del Linkskommunismus, gli operaisti non hanno mai creduto che il sistema capitalista, assediato da conflitti industriali sempre più estesi, con una classe operaia sempre più aggressiva, disposta a praticare il blocco della produzione e di qualunque attività propria del lavoro subordinato, sarebbe crollato in seguito a uno sciopero generale prolungato e irreversibile. Queste utopie non appartengono alla tradizione operaista, anche se le tecniche del conflitto industriale che l’operaismo ha cercato di promuovere erano le stesse dell’anarcosindacalismo. L’operaismo non è mai stato indulgente con le semplificazioni, con le facili parole d’ordine, a costo di apparire esercizio di intellettualismo, a costo di essere accusato di eccesso di pensiero astratto. Prima di tutto l’operaismo non ha mai preteso di poter “insegnare” agli operai la via della rivolta o della rivoluzione, al contrario, la pratica operaista della “conricerca” vuol dire semplicemente che il militante deve “imparare” dagli operai, deve saperli ascoltare, mantenendo però sempre il suo ruolo d’intellettuale, che gli consente di trasmettere strumenti di pensiero e di analisi che possono essere utili all’operaio che intende affrontare un percorso collettivo di liberazione. L’operaismo ha sempre rifiutato l’atteggiamento populista, che era molto comune tra i militanti dei gruppi extraparlamentari degli anni 70 in Italia, di camuffarsi da operai, di vestire la tuta blu per assomigliare agli operai, di nascondere con vergogna le proprie origini borghesi. Al contrario, chi ha avuto la fortuna di poter studiare, di frequentare l’Università, di avere a disposizione strumenti per arricchire le proprie conoscenze, per sviluppare uno spirito critico, chi ha avuto la fortuna di poter studiare all’estero, di imparare le lingue, di conoscere meglio e da vicino il pensiero del capitale, chi ha avuto la fortuna di conoscere la storia del movimento operaio, il pensiero marxista, ha il dovere di perfezionare al massimo questi strumenti di conoscenza, di raggiungere con i suoi lavori i livelli più alti di produzione scientifica e di mettere a disposizione di tutti ma in particolare dei lavoratori il suo sapere, le sue conoscenze. Deve concepire se medesimo come una cellula di una struttura di servizio. Questo atteggiamento degli operaisti veniva trattato con disprezzo, venivano chiamati spregiativamente “i professori”, in realtà anche quando i loro principali esponenti si sono trovati a ricoprire ruoli accademici (da Negri a Tronti, da Alquati a Gambino, da Bianchini a Magnaghi) hanno sempre svolto il loro insegnamento come una missione politica, hanno sempre fatto ricerca come fosse una “conricerca”, hanno sempre parlato e scritto lo stesso linguaggio nelle loro pubblicazioni scientifiche e nel materiale di propaganda politica. Il principio regolatore della loro vita d’intellettuali è stato quello di essere sempre se stessi, non di sdoppiarsi in un ruolo di professori ed uno di militanti, facendo gli accademici di giorno e gli operaisti di sera o nei week end. Ed infatti sono stati gli unici professori universitari ad essere messi in galera o ad essere espulsi dall’Università. La repressione si è abbattuta in maniera selettiva su di loro.
La classe operaia come organismo complesso
Da quanto si è detto è facile intuire che il sistema di pensiero operaista non ama gli schematismi e le semplificazioni, al contrario, consapevole dell’estrema complessità della realtà capitalistica, cerca di scandagliare a fondo questa realtà, di rendersi conto dei suoi aspetti palesi e meno palesi. Potremmo dire che ha una grande considerazione dell’avversario, sa che deve combattere una potenza raffinata, brutale e seducente al tempo stesso. Sottovalutare l’avversario è proprio degli stupidi, destinati a sicura sconfitta. Il primo aspetto del sistema capitalistico al quale l’operaismo ha prestato la sua attenzione è stato quello della tecnologia. L’impulso decisivo lo ha dato Raniero Panzieri con la sua lettura innovativa del “Frammento sulle macchine” di Marx pubblicato sul n. 1 dei “Quaderni Rossi”.[2] La tecnologia è lavoro incorporato, essa svolge un ruolo ambivalente, perché “libera” l’operaio da una certa fatica ma al tempo stesso “sottopone” l’operaio ad un maggiore e più rigido controllo. La tecnologia ha il potere di plasmare un certo tipo di forza lavoro, di determinare certe sue caratteristiche professionali, che possono avere dei risvolti specifici anche nella sua mentalità, nella sua cultura e quindi nel suo agire politico. L’operaismo dice che la tecnologia ha il potere di determinare “la composizione tecnica della classe operaia”. Facciamo un esempio. Nelle fabbriche dell’auto degli anni 70 c’erano dei reparti nei quali l’operaio aveva un rapporto individuale con la macchina, ne conosceva tutti i segreti, era in grado di “prepararla”, di attrezzarla ed era molto orgoglioso di questa sua conoscenza che era anche la fonte del suo piccolo potere. Si trattava di operai specializzati con una forte coscienza del proprio ruolo, che venivano considerati la cosiddetta “aristocrazia operaia” ed in genere erano anche i più combattivi, moltissimi erano comunisti e consideravano il loro essere comunisti come una naturale conseguenza del loro essere i più specializzati, i più qualificati, non solo per quanto riguardava la macchina loro affidata, una pressa, un tornio, una fresa, una saldatrice, ma per quanto riguardava l’intero ciclo produttivo; conoscevano la fabbrica in ogni suo angolo, erano in grado quindi di organizzare scioperi improvvisi, blocchi della produzione, fermando i punti nevralgici del ciclo. Trasmettevano il loro sapere ai più giovani ma al tempo stesso avevano un forte senso della gerarchia, ritenevano giusto un sistema salariale fortemente differenziato, il giovane doveva salire gradino dopo gradino la scala della specializzazione. In altri reparti della fabbrica invece c’erano le catene di montaggio, cioè un tipo di tecnologia che non permette un approccio individuale, dove potevano essere inseriti operai e operaie senza nessuna qualificazione. A Milano agli inizi degli Anni 60 nelle fabbriche elettromeccaniche, dove il lavoro alla catena non era spesso pesante come nell’auto, nei reparti del montaggio venivano impiegate le donne, operaie generiche, pagate ovviamente molto meno degli operai addetti alle macchine. Questa classe operaia era quella che l’operaismo definì “operaio massa”, con una mentalità molto diversa dall’operaio specializzato dell’aristocrazia operaia e quindi con delle rivendicazioni opposte: aumenti salariali uguali per tutti, abolizione del cottimo individuale. Rivendicazioni che dovevano suonare come una bestemmia alle orecchie del vecchio operaio comunista che lavorava come attrezzista sulle macchine individuali.
Cosa succede quando negli Anni 80 la fabbrica si disintegra e poco alla volta si diffonde e poi dilaga la tecnologia dell’informazione? Cosa succede quando gli operai di fabbrica, specializzati o meno, operai massa o meno, vengono in parte sostituiti dai robot, in parte vengono licenziati perché la produzione si delocalizza verso i paesi emergenti, perdono la loro forza sociale, la tradizione comunista viene buttata a mare dai partiti di sinistra e la classe operaia non è più un soggetto politico? Succede che il mondo del lavoro si adatta alle nuove tecnologie, viene plasmato dalle nuove tecnologie. Chi proviene dall’esperienza operaista si trova ad avere degli strumenti intellettuali in grado di capire cosa sta succedendo. Come prima aveva osservato il rapporto tra operaio specializzato e macchina individuale o tra operaio massa e catena di montaggio ora osserva il rapporto tra personal computer e soggetto che lo sta utilizzando, mette a confronto due modi di lavorare totalmente differenti, un modo di lavorare fordista, inquadrati in una rigida organizzazione che comprende migliaia di persone in spazi dedicati, ed un modo di lavorare solitario, senza spazi dedicati, capace di determinare i propri ritmi e di accedere in permanenza ad un universo d’informazioni potenzialmente infinito. Al primo momento l’uomo che lavora al personal computer gli appare come un puzzle. E’ un uomo libero? Ha un grado di libertà maggiore dell’operaio schiavo della catena di montaggio? Apparentemente sì. E’ un uomo che ha potere? Potere di negoziazione nei confronti del suo datore di lavoro, quanto ne avevano gli operai che collettivamente fermavano la produzione e trattavano con la direzione? Apparentemente no, anzi sicuramente no, il potere sociale lo si ottiene solo con la coalizione, l’individuo da solo è sempre subalterno. Come dice Michel Serres, “la connettività ha sostituito la collettività”, il lavoratore non vive insieme ad altri lavoratori come lui, a tu per tu, è connesso con altri lavoratori dei quali non conosce né il volto né la voce ma solo l’indirizzo mail. La massa d’informazioni che può procurarsi tramite Internet gli conferisce maggiore potere, maggiore capacità di negoziazione rispetto all’operaio che, schiavo della macchina, non aveva la possibilità di accedere al mondo dell’informazione? No, non ha maggior potere, il solo vantaggio che può avere nei confronti del lavoratore subordinato, operaio o impiegato che sia, è quello di potere usare quelle informazioni per vivere come lavoratore indipendente, come non salariato. Sono bastate quindi poche domande che il vecchio operaista ha rivolto a se stesso sulla natura del lavoro postfordista per capire che il capitalismo aveva fatto un enorme salto in avanti nella capacità di controllare la forza lavoro; il nuovo soggetto, al quale mancava ancora un nome, non aveva soprattutto la possibilità immediata di coalizzarsi, di porsi in maniera negoziale con il datore di lavoro, anzi non sapeva chi fosse il suo datore di lavoro, se medesimo o una terza persona? Per immaginare un percorso di liberazione era necessario ricominciare daccapo, mantenendo fermo però il punto di partenza, quello che tutti ritenevano ormai superato: il problema del lavoro. Era ancora possibile immaginare un percorso di liberazione partendo dal lavoro? Era ancora possibile vedere nell’uomo del personal computer un lavoratore o questa parola “lavoratore”, worker, Arbeiter, travailleur, trabajador, doveva essere cancellata dal vocabolario, perché appartenente ad un’epoca ormai tramontata, cioè all’epoca fordista?
L’idea di lavoro nel postfordismo
La forza dell’elaborazione teorica operaista consiste, come si è detto, nell’affrontare la complessità dei problemi, nell’andare a fondo delle cose, evitando le semplificazioni, le scorciatoie. L’esempio più illuminante lo si può vedere osservando come gli operaisti trattavano il concetto di classe operaia. Per la maggior parte dei militanti politici degli anni 60 e 70 il termine “classe operaia” era una specie di mantra, una parola magica onnicomprensiva. Bastava richiamarsi alla classe operaia per essere considerato una persona appartenente alla “Sinistra”, al movimento operaio, per essere considerato un comunista. Per gli operaisti invece la classe operaia era un universo inesplorato, estremamente differenziato e complesso o, meglio, era il punto di arrivo di un processo lunghissimo, irto di ostacoli, nel corso del quale la forza lavoro prendeva coscienza del proprio ruolo e della propria forza e si presentava sulla scena della società come un protagonista, non come l’appendice del sistema di produzione capitalista. Come ho avuto modo di scrivere in un mio saggio sull’operaismo, “il lavoro collettivo che la pattuglia operaista stava conducendo a contatto diretto con il mondo della produzione di fabbrica cercava di andare a fondo dei diversi piani che compongono il sistema dei rapporti di produzione: l’organizzazione sequenziale del ciclo produttivo, i meccanismi gerarchici che esso produce spontaneamente, le tecniche di disciplinamento e di integrazione che vengono elaborate, l’evoluzione delle tecnologie e dei sistemi di lavorazione, le reazioni ai comportamenti spontanei della forza lavoro, le dinamiche interpersonali all’interno del reparto, i sistemi di comunicazione degli operai durante l’orario di lavoro, la trasmissione dei saperi dagli operai più anziani a quelli più giovani, la formazione di una cultura del conflitto, le divisioni interne alla forza lavoro, l’uso delle pause e dell’orario di mensa, i sistemi retributivi e la loro applicazione differenziata, la presenza del sindacato e le forme di propaganda politica, la coscienza del rischio e i metodi per tutelare la propria integrità fisica e la propria salute, il rapporto con i militanti esterni, il controllo dei tempi e il rapporto con il cottimo, l’ambiente di lavoro e via dicendo”.[3] L’uomo con il personal computer, in quanto lavoratore, cioè persona che cede un determinato prodotto intellettuale a terzi in cambio di una retribuzione per poter sopravvivere, doveva presentare la stessa, se non maggiore, complessità. Cominciamo dalle cose più semplici. Per esempio: quale forma assume la sua retribuzione? La vecchia forma del salario oppure la forma dell’onorario? Viene pagato a ore o a prestazione professionale? Ha un orario di lavoro? I parametri fondamentali per definire un lavoratore sono il salario e l’orario, la sua vita privata, la sua esistenza personale, la sua quotidianità, i suoi consumi, i suoi rapporti di coppia, il suo standard di vita sono determinati in tutto o in parte da questi due parametri. E’ una visione molto materialista, rozzamente materialista, alla quale l’ideologia della modernità oppone la teoria che ciò che conta nell’individuo non è la sua condizione materiale ma è la sua personalità, il suo carattere, se è ottimista o pessimista, socievole o scontroso, seducente o scostante, portato alla leadership o sottomesso, espansivo o silenzioso, disinvolto o timido, che ha “carattere” o non ne ha. Ma, a ben vedere, il più rozzo materialismo è meno ingannevole del soggettivismo esasperato, dell’individualismo sterile e illusorio, che sono, a ben vedere, dispositivi ideologici che hanno lo scopo di dissolvere la nozione di “lavoro”. La concezione moderna di lavoro contenuta nell’ideologia della modernità è che esso non è più un’attività umana conto terzi in cambio di mezzi di sussistenza ma attività in cui l’individuo estrinseca la propria personalità, conosce meglio se stesso, è quasi un incontro mistico. “Il lavoro è un dono di Dio” ho sentito un giorno dire da un dirigente sindacale cattolico, il lavoro non rientra nel mondo delle merci ma in quello della psicologia umana. Da questa ideologia nasce l’idea del lavoro come “dono” dell’individuo alla collettività, nasce la giustificazione del lavoro gratuito, del lavoro malpagato. Il principio marxista che considera il lavoro il terreno primordiale sia dell’antagonismo sociale che della cooperazione tra individui, il terreno sia del conflitto che della solidarietà, viene completamente cancellato.
White collar e knowledge worker
Che nome diamo all’uomo con il personal computer? Abbiamo accettato il nome che gli aveva affibbiato l’ideologia dominante, knowledge worker, ci sembrava utile perché conteneva la parola “worker” e quindi nessuno poteva negare che si trattasse di una persona la cui essenza viene definita dal lavoro. Abbiamo cominciato a ragionare su questa definizione. Poteva assomigliare al white collar del fordismo? La risorsa analitica che potevamo mettere in campo era quella delle inchieste sui tecnici di produzione apparse sin dai primi numeri di “Classe Operaia” e poi divenute una costante della teoria e della pratica operaista. Quanto più complessa diventava la tecnologia, quanto più sofisticate diventavano le macchine, tanto maggiore era l’importanza della forza lavoro dotata di conoscenze tecniche. Il capitalismo incorporava dentro i suoi processi produttivi sempre maggiori contenuti scientifici, la produzione industriale di massa aveva alle spalle i laboratori di ricerca delle università e dei reparti specializzati delle aziende. I tecnici potevano essere rappresentati come una nuova classe, che avrebbe potuto avere uno sviluppo analogo a quello della classe operaia. Già nella storia del movimento operaio, durante i movimenti rivoluzionari dei consigli alla fine della prima guerra mondiale, i brain worker avevano svolto un ruolo positivo ed erano stati considerati dal comunismo delle origini una componente essenziale della classe rivoluzionaria. Non è un caso che l’operaismo, durante le rivolte studentesche del ’68, era più diffuso nella facoltà scientifiche che in quelle umanistiche. Ma l’uomo con il personal computer non poteva esser definito banalmente un white collar perché il mondo del lavoro non era costituito soltanto da lavoro subordinato, da lavoro salariato, bensì da tanti lavoratori indipendenti che fornivano le loro prestazioni, anche se avevano un solo committente, lavorando a casa o in spazi di coworking o in un caffé Starbuck. Il white collar condivideva con gli operai gli spazi dell’azienda, aveva orari di lavoro simili, era a contatto quotidiano con i problemi della produzione. Ci trovavamo di fronte ad un mutamento antropologico, non solo a un mutamento sociologico. Se avessimo dovuto ragionare ancora in termini sociologici avremmo dovuto dire che la divisione chiara tra classi che il sistema fordista aveva determinato non era più riconoscibile nella società dell’informazione e quindi i nostri parametri dovevano cambiare. Restava fermo invece il punto di partenza, cioè la convinzione che la tecnologia ha un effetto fortissimo sulla vita e la mentalità del soggetto che usa questa tecnologia per stare nel mondo, per lavorare, per guadagnarsi da vivere, per comunicare. Il nostro interesse, la nostra analisi, dovevano concentrarsi sulla figura del knowledge worker e scandagliare le caratteristiche intrinseche a quella moltitudine che formava la nuova middle class, un aggregato sociale che ormai non aveva più i valori della vecchia borghesia, che non era più capace di sfruttare il lavoro altrui perché ancora non capiva come faceva a non sfruttare se stesso. L’estrazione di plusvalore ormai si trasferiva sempre più dalla sfera produttiva alla sfera finanziaria, le enormi disuguaglianze di reddito che sempre più si accumulavano nelle società capitaliste, l’impoverimento progressivo della middle class, si spiegavano meglio analizzando le dinamiche finanziarie che quelle della produzione di massa. Anche su questo terreno l’operaismo poteva mostrare una sua superiorità, perché, unico tra le componenti dei movimenti di protesta degli Anni 70, aveva affrontato le problematiche della politica monetaria e dei grandi flussi finanziari internazionali, soprattutto con il lavoro svolto dalla redazione della rivista “Primo maggio”.
Il caso italiano
Infine, la ragione forse decisiva per la quale l’operaismo ha avuto gioco facile nel comprendere la natura del postfordismo è stata la sua origine italiana. Tra tutti gli stati del capitalismo avanzato l’Italia è stata il paese che ha portato avanti la disgregazione della grande fabbrica in maniera più radicale. L’Italia è stata all’avanguardia nel cosiddetto “decentramento produttivo”, nella frammentazione dell’impresa in tante piccole e minuscole aziende artigiane. Nel giro di un decennio, dal 1980 al 1990, l’Italia diventa il paese dei “distretti industriali”, aree specializzate in determinate produzioni, soprattutto in produzioni a basso valore aggiunto (tessile-abbigliamento, cuoio e calzature, arredo per la casa), caratterizzate dalla presenza di piccole e medie imprese. Il sistema del decentramento produttivo comporta due vantaggi rispetto alla fabbrica fordista: diminuisce i costi di produzione e riduce il rischio di conflitti industriali. Una parte delle lavorazioni vengono date in outsourcing, spesso agli stessi operai che vengono trasformati in artigiani fornitori, il numero dei dipendenti diminuisce drasticamente e si riduce la massa salariale e l’effetto di rivendicazioni sindacali. Siamo a metà tra fordismo e postfordismo o, se vogliamo, siamo in presenza di un postfordismo “dall’alto”. I vantaggi di questo sistema consentono la formazione anche di grandi imprese multinazionali, come Benetton e Luxottica. I distretti industriali si diffondono in particolare nelle regioni a forte controllo sociale, nel Veneto cattolico e nell’Emilia Romagna comunista. Il Partito Comunista Italiano sposa l’ideologia del decentramento produttivo come un “capitalismo dal volto umano” sostenibile perché privo di conflitti, il fine principale di una comunità civile sembra quello, dopo il decennio di forti conflitti e scontri di classe, della pace sociale. Gli intellettuali che provengono dall’esperienza operaista colgono immediatamente questa trasformazione, che viene accentuata e resa più radicale anche dai movimenti di protesta del ’77, i quali rappresentano con le tematiche della soggettività, dell’ambiente, del rifiuto del lavoro normato, disciplinato, irreggimentato, una specie di postfordismo “dal basso”, un desiderio di liberazione che non teme di contrapporsi alla stessa classe operaia. Sin dalle prime grandi ristrutturazioni di aziende dell’auto (Innocenti di Milano, anni 1974-75) con l’uso massiccio della Cassa Integrazione, gli operaisti seguono da vicino queste trasformazioni, l’analisi del decentramento produttivo è uno dei temi centrali sia di riviste come “Primo Maggio” che di gruppi universitari di ricerca, in particolare a Milano alla Facoltà di Architettura dove insegna Alberto Magnaghi.[4] Non sono gli unici, anzi molti laboratori universitari, nel Veneto, in Emilia Romagna, in Toscana, nel Mezzogiorno, seguono con interesse la trasformazione del modello fordista, la differenza sta che nell’analisi dei gruppi che mantengono il retaggio dell’operaismo il decentramento produttivo viene visto come un attacco all’unità della classe operaia, come una rivincita del capitalismo dalle sconfitte dell’”autunno caldo”, mentre gli altri gruppi di ricercatori vedono nel decentramento produttivo solo una nuova frontiera del capitalismo, con molti risvolti positivi. E’ il periodo in cui Toni Negri promuove il movimento di Autonomia e teorizza l’emergere dell’”operaio sociale”. Quindi la percezione del cambiamento e di un cambiamento epocale è, si può dire, immediata. Il movimento del ’77 sembra per un momento intravedere uno sbocco libertario del postfordismo, ma è solo una fiammata, l’anno successivo i gruppi della lotta armata alzano il tiro e raggiungono l’apice della loro azione con il rapimento Moro (marzo 1978). Un anno dopo, il 7 aprile 1979, parte l’ondata di arresti di tutti i militanti del disciolto “Potere Operaio”. Non ci sarà più nessuna “via libertaria al postfordismo”, il cambiamento di paradigma del capitale porterà solo ed unicamente il segno della rivincita di classe.
L’operaismo e le nuove generazioni degli Anni 90
Per un decennio la talpa operaista smette di scavare. In realtà “il periodo d’oro” dell’operaismo si era chiuso già da un pezzo. Per Tronti, Asor Rosa, Cacciari ed altri si era chiuso già prima del ’68 con il loro ingresso nel PCI, per Negri ed altri compagni si era chiuso probabilmente con lo scioglimento di “Potere Operaio”.[5] Non c’è mai stata una discussione sulla periodizzazione storica dell’operaismo, non ci sono dubbi sulla sua data di nascita ma non c’è nessun accordo sulla sua data di morte, anche perché una teoria politica che è anche una metodologia conoscitiva non muore mai finché c’è qualcuno che ritiene utilizzabili i suoi strumenti analitici e le sue conseguenze pratiche. Sicché possiamo ben parlare di un “post-operaismo” intendendo con questo il riaffiorare di un interesse per i suoi paradigmi presso una nuova generazione di militanti e di ricercatori nati alla fine degli Anni Sessanta e che all’inizio degli Anni Novanta avevano vent’anni. La rivista “Primo Maggio” è stata senza dubbio un’iniziativa culturale che esplicitamente si richiamava all’operaismo, le sue pubblicazioni cessano nell’autunno 1988 con il numero 29, ma proprio negli ultimi anni, quando a dirigerla erano Cesare Bermani e Bruno Cartosio, s’erano avvicinati alla redazione alcuni giovani che in seguito avrebbero avuto un ruolo nella critica al postfordismo e nei tentativi di organizzare il precariato, il lavoro cognitivo, all’interno dei centri sociali.[6] Altri si erano buttati a capofitto nell’informatica e nella cultura digitale contribuendo a creare l’area italiana del movimento cyberpunk e del movimento hacker, avendo come punto di riferimento iniziale la Libreria Calusca di Primo Moroni a Milano, che era stata anche il centro propulsore della distribuzione di “Primo maggio”. Raffaele “Valvola” Scelsi e Ermanno “Gomma” Guarneri[7] saranno tra i fondatori della rivista “Decoder” e poi della casa editrice Shake, che ha svolto un ruolo fondamentale nella diffusione della “civiltà del computer” e della cultura digitale. Essi, assieme a Rosie Ficocelli, Paola Mezza e Marco Philopat (il quale fonderà poi una propria casa editrice), appartengono alle nuove generazioni fortemente influenzate dall’operaismo, che intraprenderanno dei percorsi politici originali e innovativi. Altri ancora avevano avuto come maestri e docenti universitari i fondatori dell’operaismo e quindi facevano tesoro del loro insegnamento, come Devi Sacchetto, allievo di Ferruccio Gambino, o Emiliana Armano, allieva di Romano Alquati, che oggi è tra le ricercatrici più attive a livello internazionale sulle tematiche del precariato.[8] Questa nuova generazione, nata e cresciuta nel postfordismo, si serve per la sua crescita teorica e per le sue prime produzioni di saggi e di riflessioni della rivista “Altreragioni”, nata nel 1991 nel clima di tensione politica creato dalla guerra del Golfo, per iniziativa di alcuni tra i primi collaboratori di “Classe Operaia”, di “Quaderni Piacentini” e dell’Istituto Ernesto de Martino. Michele Ranchetti, uno dei più importanti intellettuali italiani del dopoguerra, storico, saggista, direttore editoriale, pittore, poeta, musicista, Franco Fortini, poeta, scrittore, critico letterario, già vicino ai “Quaderni Rossi”, Edoarda Masi, sinologa, bibliotecaria, saggista, collaboratrice di “Quaderni piacentini” assieme a Sergio Bologna, Ferruccio Gambino, Pier Paolo Poggio, Lapo Berti, Guido De Masi, Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Primo Moroni, Giovanna Procacci (tutti nomi che troviamo anche tra i collaboratori di “Primo Maggio”) ed altri lanciano l’iniziativa della rivista “Altreragioni” alla quale si avvicinano immediatamente i giovani della nuova generazione che aveva subìto l’influsso dell’operaismo. Uno di questi è Andrea Fumagalli, che negli anni successivi, assieme alla compagna Cristina Morini (che apre la discussione sulla femminilizzazione del lavoro, ndr.), rappresenterà un punto di riferimento teorico e politico dei movimenti del precariato e del “cognitariato” (pensiamo all’esperienza di San Precario e della MayDay, ndr.). Dopo i primi numeri la rivista sarà diretta da Ferruccio Gambino e Giovanna Procacci, mentre Sergio Bologna, Primo Moroni, Lapo Berti, Christian Marazzi, Pier Paolo Poggio, Mavì Defilippi, Marco Cabassi ed altri daranno vita ad un’altra iniziativa che ha avuto una certa importanza nel raccogliere l’eredità operaista, la “Libera Università di Milano e del suo Hinterland (LUMHI)”. Due i temi centrali della sua attività culturale: la battaglia contro il revisionismo storico e la definizione dei soggetti sociali del postfordismo. Dall’attività della LUMHI nasce in co-edizione Shake-Feltrinelli l’opera collettiva che rappresenta una svolta nell’analisi di classe post-operaista: “Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia” a cura di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli.[9] E’ il 1997, vecchia e nuova generazione hanno trovato qui un terreno comune di dialogo e di produzione analitica.
Le tesi e le ricerche di alcuni ex militanti dei gruppi operaisti riguardanti la condizione dell’uomo moderno nel postfordismo e nell’economia del debito hanno trovato largo riscontro anche sul piano internazionale, è il caso per esempio di Maurizio Lazzarato, che si era laureato a Padova ed aveva avuto come insegnanti Toni Negri, Ferruccio Gambino, Ferrari Bravo e Sergio Bologna. La nuova generazione affronta anche la storia dell’operaismo, comincia a scriverla a partire dalle testimonianze dei principali protagonisti.[10] Dall’estero, non soltanto dall’Italia, arrivano altri contributi che, riflettendo sulla storia dell’operaismo, ne vogliono trarre, come “Storming Heaven” di Steve Wright,[11] un bilancio culturale e politico. Oggi la fonte principale per i documenti originali dell’operaismo è la collana “Biblioteca dell’operaismo” della casa editrice Derive&Approdi di Roma, fondata da un compagno di “Potere Operaio”, Sergio Bianchi.
Uno studio di caso sul passaggio da una società industriale fordista a una società del terziario avanzato in un quartiere di Milano è stato analizzato nel documentario di Sabina Bologna “Oltre il ponte. Storie di lavoro.”[12]
Il ruolo della Libreria Calusca di Milano
A questo punto è necessario mettere a fuoco il ruolo molto importante che ha avuto Primo Moroni e la sua Libreria Calusca nel creare un ponte tra la cultura operaista e le nuove generazioni.[13] La Libreria, durante gli anni 70 e 80, ha svolto una funzione difficilmente classificabile con i parametri tradizionali delle organizzazioni culturali. E’ stata un luogo d’incontro, di convergenza, di dialogo tra tendenze politiche le più diverse, ma con un’accentuata simpatia per il filone operaista, per i diversi filoni anarchici, per le tendenze situazioniste e internazionaliste. Tradizioni e tendenze, come si vede, fortemente diverse tra di loro o anche conflittuali ma che trovavano accoglienza e rifugio (nei tempi duri) in un luogo che era straordinario perché eccezionale era la personalità del suo titolare, Primo Moroni, uomo di grande cultura e di ancora maggiore sensibilità per l’innovazione culturale, pur non avendo nessuna formazione universitaria. Ex ballerino del varietà, ex rappresentante librario, figlio di ristoratori toscani immigrati a Milano, cresciuto in quartieri popolari dove la piccola malavita locale aveva modi e codici di onore molto diversi da quelli della mafia, dove magari si rubava ai ricchi per dare ai poveri, ultima propaggine di quella “mala” milanese che agli inizi del ‘900 popolava i quartieri del Ticinese e viveva in simbiosi nelle “case di ringhiera” con il proletariato industriale e l’artigianato tradizionale fortemente influenzati dal socialismo. Ladri, rapinatori, ricettatori, prostitute indipendenti, scassinatori, falsari vivevano accanto alla pellicciaia, al tipografo, all’operaio elettromeccanico, al bottaio, al falegname e formavano un amalgama molto resistente alla mentalità della società borghese. Erano i componenti di un’unica cultura proletaria che difendeva le sue prerogative ed ammetteva al suo interno le pratiche di illegalità e di esproprio. Attorno a questo mondo sono sorti miti e leggende, è nato un vero e proprio Canzoniere che negli anni 60 e 70 è tornato di moda, soprattutto tra i movimenti di protesta che esaltavano molte forme di illegalità. Primo Moroni era capace di dialogare sia con le ultime tracce di questo mondo sia con gli intellettuali di “Classe Operaia”. Egli riconosceva nell’operaismo il sistema di pensiero politico più innovativo, ne era affascinato, così come era attratto dal pensiero situazionista. Quando nel 1973 gli presentammo il nostro progetto di “Primo maggio” ne colse immediatamente la ricchezza d’idee ed il rigore scientifico e divenne l’editore e il distributore della rivista. Quando, dopo il 1971/72, iniziarono le prime azioni di guerriglia urbana e fecero la loro comparsa le Brigate Rosse e altri gruppi armati, Primo Moroni non esitò a tenere in libreria e a diffondere le loro pubblicazioni e i loro scritti; quando le carceri cominciarono a riempirsi di compagni che militavano nei gruppi extraparlamentari la Libreria di Moroni divenne un punto di riferimento per l’invio di materiali di lettura nelle carceri. Fu così che la rivista “Primo Maggio” ebbe una diffusione ampia nelle prigioni (circa 500 copie per numero venivano inviate in carcere su richiesta dei detenuti). Questa attività naturalmente portò gli inquirenti e la polizia a considerare “Primo maggio” una rivista vicina al terrorismo e solo grazie a delle prese di posizione decise di alcuni membri della redazione, anche nei confronti di Toni Negri, fu possibile evitare l’identificazione tra la nostra rivista e i gruppi dell’Autonomia o i gruppi armati. Negli Anni 80 e 90 tutta la controcultura giovanile delle nuove generazioni che entravano nell’èra digitale faceva riferimento alla Calusca, la quale nel frattempo era diventata anche una struttura di soccorso ai vecchi militanti che scontavano molti anni di carcere, soprattutto a quelli privi di ogni sostegno, senza organizzazioni di riferimento, che avevano perduto tutto, casa, famiglia, lavoro. Abbiamo visto spesso queste persone, sempre ex operai o comunque gente di origine proletaria, uscire dal carcere a Milano, magari dopo vent’anni trascorsi nelle prigioni di alta sicurezza di tutta Italia e, non sapendo dove rivolgersi per un aiuto, arrivare in Libreria Calusca a chiedere un prestito per un biglietto del treno, in modo da andare sulla tomba dei genitori morti nel frattempo in qualche paesino del Sud. In Primo Moroni trovavano sempre solidarietà proletaria. La sua Libreria dunque metteva insieme i superstiti della cultura operaista, i giovani dei centri sociali e dei movimenti cyberpunk, i reduci della lotta armata ma anche moltissime persone di autentici sentimenti democratici, docenti universitari, professionisti, insegnanti. La Calusca era una specie di “zona franca” dove persone diversissime e ambienti che non avevano alcun contatto tra di loro s’incontravano e si rispettavano. Primo Moroni era un grandissimo affabulatore, non ha scritto molto ma ha rilasciato molte interviste e testimonianze. Senza Primo Moroni l’operaismo non avrebbe mai raggiunto le giovani generazioni dell’èra digitale.
Il post-operaismo e la sindacalizzazione dei self employed
La caratteristica specifica del pensiero dell’operaismo è la sua stretta aderenza alla realtà, è il suo rapporto costante con l’azione, con la pratica militante. Gli scritti della tradizione operaista non sono destinati alla mera lettura o alla mera propaganda, il loro rigore scientifico non è destinato alla valutazione accademica, il loro messaggio è un messaggio puramente politico, esso deve produrre azione, mobilitazione, conflitto, confronto. L’analisi non deve restare pura analisi, non avrebbe alcun senso se restasse allo stadio di analisi, anche la più sofisticata. L’analisi può essere anche parziale, insufficiente, ma deve produrre mobilitazione, deve risvegliare le coscienze, deve mettere in moto delle dinamiche soggettive che portano le persone a tutelare e difendere i propri diritti, la propria dignità, sul lavoro, nei rapporti di lavoro. Le analisi contenute nel volume “Il lavoro autonomo di seconda generazione” sono state anche duramente criticate dalla sociologia accademica, con qualche ragione, ma quelle pagine hanno trovato ascolto in coloro che cominciavano a muoversi per conto proprio per costituire una rappresentanza sindacale dei self employed. E così doveva essere. Se la critica accademica è arrivata a definire sprezzantemente le nostre analisi del lavoro autonomo come “inutilizzabili”[14] a noi non importa gran che, ne prendiamo atto ma l’importante per noi è che le nostre analisi vengano comprese, assimilate e condivise da coloro i quali vivono di lavoro autonomo, da coloro che del lavoro indipendente non salariato fanno dipendere la loro sopravvivenza. Queste persone hanno saputo utilizzare le nostre analisi ed hanno smentito in tal modo la critica accademica. Alla fine degli Anni 90 negli Stati Uniti e agli inizi del nuovo Millennio in Italia si sono costituite delle associazioni di difesa dei lavoratori indipendenti, dei freelance, i quali storicamente sia al di qua che al di là dell’Atlantico sono sempre stati esclusi dal welfare state e dallo stesso diritto del lavoro perché considerati “imprese”. Poiché queste figure professionali, esplose con l’avvento dell’informatica, appartengono socialmente alla lower middle class, l’identificazione con il mondo dell’imprenditoria piuttosto che con il mondo dei lavoratori è stata un pesante retaggio della loro cultura borghese. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti non li hanno mai presi in considerazione, non li hanno considerati come soggetti facenti parte del mondo del lavoro. Solo in epoca assai recente, negli ultimi due anni, in Italia il sindacato CGIL, timoroso di vedersi sfuggire di mano una rappresentanza di questi gruppi sociali che avevano iniziato ad autoorganizzarsi, ha cominciato a creare dei gruppi di lavoro dedicati ai professionisti ed ai self employed. Il post operaismo è riuscito quindi a cogliere questa trasformazione del mondo del lavoro, è riuscito a dare un pensiero collettivo ai self employed, a renderli consapevoli della loro identità di lavoratori, ha dimostrato l’assurdità di considerare una persona come un’impresa (the one-man/one woman business), l’impresa è sempre un’organizzazione complessa di cooperazione tra più persone con diversi ruoli per la creazione di profitto in cambio dell’erogazione di salari. Quali sono le principali rivendicazioni dei self employed? In primo luogo il riconoscimento del loro diritto, come cittadini, a un’assistenza pubblica in caso di malattia, a sussidi di disoccupazione e ad un trattamento fiscale pari a quello dei lavoratori dipendenti.[15] L’attività di pressione che le associazioni di difesa dei diritti dei self employed ha esercitato in Europa negli ultimi cinque anni ha ottenuto qualche risultato, in particolare la dichiarazione del parlamento europeo del gennaio 2014 nella quale si afferma che tutti i cittadini hanno gli stessi diritti indipendentemente dal lavoro che svolgono.[16]
Molto maggiore ampiezza ha assunto invece la sindacalizzazione dei freelance negli Stati Uniti grazie a una donna, Sara Horowitz, che negli ultimi anni del Novecento ha saputo creare la Freelancers Union (FU), che oggi conta quasi 250 mila iscritti. Grazie al sostegno finanziario di molte Fondazioni private, la FU ha costituito una Insurance Company che offre ai soci copertura finanziaria e assistenza in caso di malattia.[17]
In Italia l’associazione che ha recepito le analisi post operaiste è l’Associazione Consulenti Terziario Avanzato (ACTA), fondata a Milano nel 2003, purtroppo ancora molto piccola, circa 2000 soci, ma riconosciuta come sister organization dalla Freelancers Union.[18] ACTA è membro anche dell’European Forum of Independent Professionals, di cui detiene la Vicepresidenza.[19] Se nella storia del movimento operaio dei salariati la sindacalizzazione si accompagnava sempre a un’adesione alle idee socialiste, nella sindacalizzazione dei self employed prevale l’apoliticità, ma anche perché non esiste più una forza politica di sinistra a livello europeo. In Italia, per esempio, dove esisteva il più forte Partito Comunista dell’Occidente, non c’è più traccia di un pensiero sociale d’ispirazione marxista, se non in movimenti sociali che non sono rappresentati in Parlamento. Il Partito Democratico, che è in parte l’erede del vecchio Partito Comunista e che nel corso degli anni ha cambiato nome più volte per cercare di cancellare le tracce delle sue origini marxiste, è oggi una formazione politica che sposa interamente le dottrine neoliberali delle lobbies finanziarie. Essere apolitici non significa non avere idee politiche ma non riconoscersi nei partiti rappresentati nel Parlamento.
Conclusioni
Il pensiero operaista ha dimostrato di sapersi rinnovare e di saper interpretare le grandi trasformazioni della società e dei modi di lavorare. Ma le speranze dell’operaismo, i valori morali, civili e sociali per i quali si era battuto sono stati brutalmente combattuti ed emarginati, quasi cancellati, dal pensiero neoliberale dell’epoca postfordista ed in particolare dalle classi dirigenti italiane di origine cattolica, socialista o liberale. La sistematica persecuzione dei militanti di “Potere Operaio”, talvolta più ossessiva di quella rivolta contro i militanti della guerriglia urbana, l’emarginazione del pensiero operaista dalla scena culturale ed accademica non sono riusciti tuttavia a impedire che le nuove generazioni riconoscessero in quel pensiero uno strumento utile di liberazione. Le classi dirigenti che hanno combattuto con stupido accanimento l’operaismo sono le stesse che hanno trascinato l’Italia nella condizione miserevole, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista civile, di oggi. Il 40% di disoccupazione giovanile non è forse l’aspetto più grave della miseria delle nuove generazioni, il precariato di milioni di persone, i bassi salari, gli stages gratuiti, oltre all’assenza di tutele, sono altrettanto, se non ancora più gravi. Se finalmente un giorno questa massa di cittadini umiliati troverà la forza di ribellarsi, il pensiero operaista e post-operaista tornerà ad avere un’ampia diffusione e forse avrà ancora lunga vita.
[1] Per coloro che hanno partecipato alla nascita del pensiero operaista scriverne la storia non è facile, si rischia sempre d’introdurre delle forzature soggettive; pertanto questo articolo va interpretato come una testimonianza piuttosto che una ricostruzione storica; forse per una deformazione professionale ho cercato altre volte di scrivere la storia dell’operaismo in forma di testimonianza, v. Sergio Bologna, Workerism: An inside View. From the Mass-Worker to Self-employed Labour, in “Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations of the Twenty-First century”, ed. by Marcel van den Linden and Karl Heinz Roth, in collaboration with Max Henninger, Brill, Leyden-Boston 2014, p. 121-143; il testo italiano è pubblicato in “L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Vol. III, Il sistema e i movimenti, Europa 1945-1989”, a cura di Pier Paolo Poggio, Jaca Book, Milano, 2011, pp. 205-222. L’opera più completa sulla storia dell’operaismo è “L’operaismo degli Anni Sessanta. Da ‘Quaderni Rossi’ a ‘Classe Operaia’”, a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana, introduzione di Mario Tronti, Derive&Approdi editore, Roma 2008, in allegato un CD con tutta la collezione di “Classe Operaia”.
[2] Raniero Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in “Quaderni Rossi”, n. 1, p. 53 sgg, 1961.
[3] “L’altronovecento” cit., vol III, pp. 205-206, testo inglese in “Beyond Marx” cit., p. 122.
[4] Queste analisi sono state pubblicate per la maggior parte sulla rivista “Quaderni del Territorio”, fondata da Alberto Magnaghi e durata dal 1975 al 1979. Sono appena usciti in una nuova edizione i quaderni dal carcere che Magnaghi ha scritto tra il 1979 e il 1982, durante la sua detenzione nelle prigioni di Milano e di Roma, “Un’idea di libertà”, con prefazione di Alberto Asor Rosa e postfazione di Rossana Rossanda, Derive&Approdi editore, Roma 2014.
[5] “L’operaismo italiano degli Anni Sessanta comincia con la nascita dei ‘Quaderni Rossi’ e finisce con la morte di ‘Classe Operaia’. Punto.” (Mario Tronti in “L’operaismo italiano” cit., p. 5).
[6] “La rivista ‘Primo Maggio’ (1973-1989)”, a cura di Cesare Bermani, con il DVD di tutti i numeri della rivista, Derive&Approdi, Roma 2010.
[7] V. il suo contributo nel numero 22 di “Primo Maggio”, autunno 1984.
[8] Non bisogna dimenticare i contributi importanti di Luciano Ferrari-Bravo, che ha partecipato all’attività dei gruppi operaisti sin dalle origini; una parte dei suoi scritti sono stati pubblicati nel volume “Dal fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico”, prefazione di Sergio Bologna, Il Manifesto Libri, 2001.
[9] Il volume è pubblicato in co-edizione Shake-Feltrinelli nel 1997 a Milano.
[10] “Futuro anteriore. Dai ‘Quaderni Rossi’ ai movimenti globali. Ricchezze e limiti dell’operaismo italiano”, a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero, Derive&Approdi, Roma 2002.
[11] “Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism”, Pluto Press, London 2002.
[12] Derive&Approdi ha raccontato com’è nato e come si è realizzato questo progetto nell’opuscolo “Dalla classe operaia alla creative class. Le trasformazioni di un quartiere di Milano” che contiene anche il DVD con il documentario, della durata di 39’, con sottotitoli in inglese.
[13] Calusca è il nome di un vicolo che sbocca sulla piazza Sant’Eustorgio, nel quartiere Ticinese di Milano, la sua origine deriva dall’espressione dialettale ca’ lusc (case losche, postriboli). La Libreria fu poi spostata qualche centinaio di metri più avanti, in Corso di Porta Ticinese, e successivamente in via Conchetta, sul Naviglio Pavese, dove esiste tuttora dentro un centro sociale (Cox 18). Primo Moroni è morto di cancro nel 1998, un suo profilo è pubblicato nel volume 77 (2012) del “Dizionario Biografico degli Italiani” dell’Enciclopedia Treccani.
[14] Vedi in particolare la recensione di Paolo Barbieri dell’Università di Trento per l’Istituto Cattaneo, www.cattaneo.org/archivi/biblio/pdf/Bologna-Fumagalli 1997 (Barbieri).pdf. Questa critica è stata rivolta in particolare alle “Dieci tesi sul lavoro autonomo di seconda generazione” nel volume a cura di Bologna e Fumagalli, “Il lavoro autonomo ecc.” cit., pp. 13-42.
[15] Un’analisi del processo di sindacalizzazione dei self employed in Dario Banfi, Sergio Bologna, “Vita de freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro.”, Feltrinelli, Milano 2011, in particolare l’ultimo capitolo.
[16] 2013/2111 (INI) – 14.01.2014 Texte adopté du Parlement Lecture unique
[17] www.freelancersunion.org. Il sito è lo strumento più efficace di propaganda e informazione sulle attività delle associazioni dei self employed.
[18] www.actainrete.it.
[19] www.efip.org. Joel Dullroy, un attivista di EFIP che risiede a Berlino, ha lanciato quest’anno la campagna per un movimento dei freelance: www.freelancersmovement.org.


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