«È ora di invocare il diritto di resistenza»: Sergio
Bologna
(intervista di Roberto Ciccarelli)
Il modo più proficuo per cogliere il significato
dell’avanzata impetuosa della classe operaia, e la sua sconfitta, tra il 1960 e
il 1985, è quello di mettersi nei panni di un giovane oggi alle prese con la
precarietà. A Sergio Bologna, storico del movimento operaio e tra i fondatori
della rivista Primo Maggio, potrebbe domandare dove sono finite le conquiste
costate tanti sacrifici? Dove sono finiti tutti i diritti?
«Certo – risponde Sergio Bologna –
parlando di quel periodo così lontano, ti viene la curiosità di sapere che
percezione ha oggi un giovane lavoratore dei suoi diritti. È consapevole di
avere dei diritti, sa cosa vuol dire difendere un diritto sul luogo di lavoro?
Lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori del maggio 1970 è stato un importante
gesto di civiltà, il riconoscimento e la tutela dei diritti sindacali un passo
avanti del sistema democratico. Eppure moltissimi quadri sindacali e le stesse
correnti politiche a noi più vicine lo consideravano già vecchio, già superato.
Ti faccio un esempio: mentre l’articolo sette dello Statuto dichiarava
contestabili le sanzioni disciplinari e nulla di più, gli operai nella
stragrande maggioranza delle fabbriche avevano ormai di fatto abolito o
comunque limitato all’estremo il potere dei capi. Il Partito Comunista Italiano
in Parlamento si astenne dal voto, non approvò lo Statuto perché l’art. 18 non
era applicabile alle aziende sotto i 15 dipendenti. Oggi io vedo ancora dei
giovani – sia dipendenti che freelance in particolare delle attività
intellettuali o creative – che non solo hanno paura di contestare certe
condizioni del loro rapporto di lavoro ma hanno paura addirittura di parlarne.
Nella loro testa lo Statuto è cancellato ed è stato sostituito da uno Statuto
dei Diritti del Padrone senza limiti. Ma vedo anche un numero sempre crescente
di giovani che si organizzano, si coalizzano, discutono della loro situazione,
decidono di reagire e aprono una vertenza, prendono l’iniziativa, chiedono il
supporto al sindacato e se il sindacato non si muove ne formano uno loro. Alla
fine qualcosa dovrà pur cambiare!»
Quali sono state le idee forza
delle lotte operaie in Italia che hanno portato anche allo Statuto dei
lavoratori?
Senza dubbio l’idea che il lavoratore è
un essere umano e ha diritto non solo di esprimere le sue opinioni
politico-religiose ma ha diritto a lavorare in un ambiente e con dei ritmi che
non siano dannosi alla sua salute (articoli 5, 6 e 9 del Titolo I dello
Statuto). Di altre idee-forza, come quella dell’egualitarismo, c’è poca traccia
nello Statuto. E anche qui si vede come lo Statuto sia rimasto indietro
rispetto alla pratica e al livello di compattezza della classe operaia, che nel
1970 aveva già imparato a difendere la propria salute e integrità fisica
rallentando i ritmi se questi erano troppo massacranti, cioè fermando direttamente
la catena di montaggio. Azione diretta, non inizio di una logorante trattativa…
La difesa della salute, dell’integrità fisica e poi via via la grande azione
condotta soprattutto nelle fabbriche chimiche, in stretto contatto con tecnici
e scienziati, per chiudere gli impianti nocivi e limitare le situazioni di
rischio, rappresentano il lascito più importante di quella stagione. Ce ne
eravamo dimenticati.
Un esempio oggi di questa determinazione
operaia?
L’emergenza causata dall’epidemia di
Covid-19 l’ha riportata in primo piano. Confindustria voleva tenere aperte
tutte le fabbriche, anche quelle dove mancava persino il sapone nei bagni per
lavarsi le mani. In molte situazioni gli operai hanno dovuto scioperare per
ottenere dispositivi di protezione (ne abbiamo parlato estesamente nel primo
numero di Officina Primo Maggio dopo aver sentito decine di
delegati). Quindi l’Italia del nuovo millennio è tornata indietro rispetto agli
anni ’60 – l’incidente a Marghera di questi giorni parla chiaro. Sembra che in
maggioranza le piccole fabbriche, i “padroncini” che lavorano nei reparti anche
loro, abbiano provveduto da sole a creare condizioni minime di sicurezza.
Confindustria invece, a nome del grande padronato, ha preteso dallo Stato il
rimborso delle spese per la disinfezione dei locali e la distribuzione dei
dispositivi di protezione. Miserabili…
Con Giairo Daghini hai scritto una memorabile inchiesta sul maggio
francese pubblicata prima nei “Quaderni piacentini” poi in un libro. Quale fu
la differenza con l’Italia?
La grande differenza fu che in Francia
l’ondata si spense in un mese, in Italia l’onda lunga è durata dieci anni. Ebbi
la sensazione immediata che gli operai francesi lavoravano in condizioni dure
ma non al punto da essere lesive della dignità umana. In Italia veramente
c’erano dei comportamenti delle Direzioni di fabbrica che sembravano fatti apposta
per umiliare le persone più che tenerle disciplinate. Non è un caso che quando
chiesero a un delegato Fiat che differenza c’era tra prima e dopo l’autunno
caldo, la risposta fu: «possiamo finalmente andare al cesso!». I datori di
lavoro, tranne alcune eccezioni, consideravano l’assunzione di un’operaia o di
un operaio un atto di generosità, di magnanimità, non avevano l’idea che
nell’assumere una persona loro sottoscrivevano un contratto, cioè facevano uno
scambio. A uno che invece trattava i rapporti con il personale in maniera
civile, Adriano Olivetti, fecero una guerra senza quartiere, arrivando a
invitare i consumatori a boicottare i suoi prodotti. Olivetti se ne uscì da
Confindustria. E sì che allora Confindustria era guidata da imprenditori di un
certo calibro, non da grotteschi burattini come oggi. A differenza della
Francia, quella conflittualità, che fu definita “permanente”, è durata così a
lungo per due ragioni di fondo: una, l’esasperazione accumulata negli anni
precedenti, l’umiliazione che era stata inflitta a uomini e donne, che avevano
bisogno di sfogarsi, di rendere la pariglia, e la seconda il fatto che le
conquiste raggiunte dopo le lotte erano più fittizie che reali: accordi firmati
e non rispettati dalla controparte (per cui dovevi scioperare il doppio per
farli rispettare) e un altissimo tasso d’inflazione che erodeva gli aumenti
salariali appena conquistati.
Hai sostenuto che la cassa integrazione
è stata usata come uno strumento di pacificazione di massa. Cosa significa?
Nella redazione di Primo Maggio c’erano
operai dell’auto e dell’alimentare in Cassa Integrazione, venivano da due
grandi fabbriche milanesi e avevano una loro rete di compagni in una decina di
altre fabbriche. Con loro abbiamo cercato di capire il ruolo di quell’istituto
che oggi rappresenta l’ammortizzatore sociale di più ampio spettro. Eccoci
dunque ancora di fronte a un esempio di come l’esperienza degli anni ’70 possa
servire d’insegnamento a quanto accade oggi in piena emergenza da coronavirus.
La Cassa Integrazione era nata con tutt’altre finalità, era un sistema
intelligente e consisteva nel dare un po’ di respiro ad aziende in difficoltà
in modo che potessero riqualificare gli impianti o rivedere le strategie di
marketing o impostare una nuova linea di prodotto senza perdere la propria
forza lavoro. In modo che potessero riprendere l’attività più forti e
competitive e che in questo lasso di tempo i dipendenti potessero sopravvivere,
con un salario decurtato ma comunque tale da non farli morire di fame. Quindi
era una misura temporanea, tipo sei mesi al massimo.
Invece cos’è successo?
Agnelli e Lama si sono messi d’accordo
per far diventare la CIG una specie di lazzaretto dove ricoverare le imprese
decotte a spese della fiscalità generale, per anni, per decenni! Senza che la
direzione della fabbrica muovesse un dito per riconvertire la produzione, anzi
poteva girarsi i pollici per anni. Ma questo è ancora niente. Il problema
principale era che la CIG poteva esser gestita come un rubinetto: “chiuso”,
tutti a casa, “aperto” tutti al lavoro. Eh no! “Aperto” possono tornare al
lavoro solo quelli che la Direzione decide di richiamare e se ci sono dei
delegati o attivisti sindacali che danno fastidio, quelli continuano a restare
a casa. In questo modo pian piano molte “avanguardie di fabbrica”, come allora
si chiamavano, sono state buttate fuori e miliardi e miliardi di lire sono
stati buttati via senza essere impiegati nello scopo primo della legge:
riconvertire gli impianti, ammodernarli, per diventare più competitivi. Per
questo ho usato il termine “mezzo di pacificazione di massa”.
Esistono analogie con la nostra
attualità?
La Cassa Integrazione ha subito negli
anni molti aggiustamenti, in fabbrica i militanti sono stati decimati,
licenziati a decine di migliaia (malgrado l’art. 18), il sindacato ha preso
altre strade, si è concentrato sui servizi individuali (patronato, enti
bilaterali). Il governo Conte ha esteso la platea dei beneficiari sino alle
imprese con un solo dipendente, quindi ha scaricato sull’INPS, già provato
dall’erogazione dei 600 euro a più di 4 milioni di persone che li volevano, una
massa di richieste ingestibile sia dal punto di vista burocratico che delle
risorse. Allora si è rivolto alle banche perché anticipassero le erogazioni
della Cassa, ma le banche hanno delle procedure più lente. La Cassa in deroga
invece passa dalle Regioni e la burocrazia regionale non è più efficiente di
quella statale, anzi. Insomma un bel problema. Ma quello a mio avviso che pone
i maggiori interrogativi è l’uso della Cassa come assistenzialismo, rivolto
indiscriminatamente a imprese in difficoltà e imprese floride. Le stesse che
hanno mandato i loro giornali, i loro deputati e le loro associazioni a
vomitare improperi contro il reddito di cittadinanza.
Un altro risultato dell’onda operaia
furono le “150 ore”. Che cos’erano?
L’autunno caldo è del 1969, lo Statuto
del 1970, le 150 ore vengono conquistate nel 1973. Erano una voce dei contratti
collettivi firmati in quella tornata che prevedeva il diritto dei lavoratori di
usufruire di un certo numero di ore retribuite di apprendimento presso scuole e
istituti superiori a loro scelta. La maggioranza dei lavoratori ne approfittò
per completare la scuola dell’obbligo o per ottenere la licenza media, fu una
grande occasione per rimediare all’analfabetismo di ritorno e questo ti dà la
misura della condizione operaia di quel tempo. Ma molti furono quelli che ne
approfittarono per seguire dei corsi di formazione e cultura varia. Pensa a chi
era stato eletto delegato, doveva capire cosa c’era scritto sulla sua busta
paga e su quella dei suoi colleghi, doveva capire cosa c’era scritto nel
contratto di lavoro, negli accordi integrativi aziendali, doveva sapere come
negoziare, come scrivere un volantino, un articolo, una lettera alla Direzione;
doveva capire come funzionava l’organizzazione del lavoro, per contestare
eventualmente il cronometrista. Ma al di là di questo, c’era una sete di
conoscenza più generale, si voleva capire come funziona lo Stato, il sistema
dei partiti, la Costituzione, l’economia, le multinazionali, il mercato dei
vari beni di consumo, la tecnologia. All’Università di Padova, dove insegnavo,
organizzai un corso di storia e pratica del movimento operaio, vennero una
ventina di lavoratori da varie aziende, in particolare del polo di Marghera. E
questa domanda di apprendimento da parte di un’utenza di tipo nuovo mise in
moto anche una dinamica d’innovazione della didattica. Era necessario scrivere
delle dispense, dei libri di testo chiari, semplici, accessibili, senza perdere
di rigore. Fu un grande esperimento, un piccolo salto di civiltà. Oggi cosa ti
dà l’azienda? Un voucher per comperarti un paio di mutande da Intimissimi e lo
chiama “welfare aziendale”. E i manager ci fanno le slides per le
presentazioni: “la nostra azienda mette al centro l’uomo! Our people
are our pride!”.
Il lungo Sessantotto italiano è stato
una mobilitazione generale della società. Che cosa resta oggi?
Sì, questo aspetto del Sessantotto è
stato trascurato eppure a me sembra quello più interessante e più resistente al
tempo. Quando gli studenti cominciarono a contestare sia i metodi di
apprendimento che i programmi universitari, posero le premesse per quella
rivoluzione delle professioni che avrebbero messo in atto una volta laureati ed
entrati nel mondo del lavoro. Nacque un nuovo tipo di giornalismo: Il
Manifesto di Rossanda, Pintor e Parlato ne è un esempio. E poi un
nuovo modo di fare il medico, l’architetto, l’urbanista, l’ingegnere,
l’avvocato, il magistrato e anche l’insegnante, il docente universitario. Tutte
le professioni misero in discussione il modo ed i principi secondo i quali
erano state esercitate e quindi le istituzioni – dalla scuola all’ospedale, dal
palazzo di Giustizia al manicomio – in cui venivano esercitate. Una larga parte
della classe media si schierava a fianco degli operai ma non in maniera
opportunista, battendo le mani, “bravi, bravi, lottate, lottate!” bensì
scontrandosi con resistenze interne ai loro stessi ambienti, dai quali molti
furono emarginati o espulsi. Questo contribuì alla nascita di una “nuova
scienza”. Vuoi un esempio? Un esempio che è tornato di prepotenza alla ribalta
oggi? Nel 1973 a Milano un medico, docente di biometria, Giulio Maccacaro
assume la direzione della più antica rivista scientifica italiana, “Sapere” e
raccoglie ben presto attorno a sé sia studiosi di varie discipline,
scientifiche e umanistiche, sia tecnici ed operai di fabbrica particolarmente
attivi sul piano sindacale. In pochissimi anni metterà le basi per una nuova
medicina del lavoro, per una medicina impostata sui bisogni del paziente
(straordinaria la sua “Carta dei diritti del bambino”) e soprattutto di un
sistema sanitario che poggia su pratiche d’igiene pubblica e di medicina
territoriale. Nel 1976 fonda la rivista Epidemiologia e prevenzione (www.epiprev.it) dove sono
enunciati in maniera chiarissima tutti i principi che avrebbero dovuto guidare
le istituzioni e le autorità sanitarie per far fronte alla pandemia da Covid
19. Che cosa vuoi di più?
Ritieni che questa alleanza possa essere
ripresa oggi, tra chi e su quali basi?
In parte già funziona ma non solo nei
confronti della classe operaia, anche nei confronti del lavoro autonomo, dei
precari, della gig economy, dei migranti. I circuiti di solidarietà, la
produzione d’intelligenza e d’innovazione affondano tutti le loro radici in
quegli anni che qualche mascalzone continua a definire “di piombo”. Debbono
prima o dopo trovare un coagulo di partito, altrimenti restiamo travolti
dall’infamia del populismo sovranista (sono stati capaci solo di fare gli
sciacalli durante questa epidemia), dal grottesco neofascismo patriottardo
(sciacalli di riserva quando gli altri sono rauchi dal troppo urlare) e da
quella terza componente che non saprei come definire, per la quale nutro un
disprezzo forse maggiore, di coloro che mi ricordano le scimmiette di Berlino –
non parlo, non vedo, non sento – che si raggruppa sotto bandiere e formazioni
di centrosinistra.
Nel primo numero della rivista “Primo
Maggio”, uscita proprio a seguito delle lotte operaie nel 1973, affidate
all’inchiesta e alla con-ricerca militante un ruolo importate. Oggi siete
tornati a praticarla nella nuova rivista “Officina Primo Maggio”. Qual è il ruolo del
lavoro intellettuale oggi?
Sulla cosiddetta “conricerca” o
l’inchiesta operaia noi non abbiamo inventato nulla. Erano metodi di lavoro
ampiamente utilizzati dalla corrente “operaista” del marxismo italiano sin dal
1960. Quando abbiamo fondato quella rivista abbiamo fatto un altro
ragionamento. Ci siamo detti: c’è un bisogno di cultura e di formazione nelle
fabbriche, nel sindacato, in tutte le istanze sviluppatesi dal 68 in poi, che
deve essere soddisfatto esplorando terreni di ricerca nuovi. Il primo esempio
che mi viene in mente è quello della moneta. Negli ambienti della sinistra
radicale non c’era ancora la consapevolezza, l’intuizione, che l’economia
capitalistica si stava avviando verso una progressiva finanziarizzazione. Se
pensi al punto in cui siamo arrivati oggi, alla massa di liquidità superiore di
trenta volte il PIL mondiale e soprattutto all’inconcepibile – allora – divario
tra super-ricchi e popolazione mondiale, bisogna ammettere che non eravamo
ciechi. Un secondo esempio invece riguarda la storia militante. Nel momento in
cui avvengono dei rivolgimenti così forti e dei cambiamenti così repentini
nella coscienza della gente, c’è l’assoluta necessità di fermarsi un attimo e
di guardare indietro, perché si tratta di ricostruire una genealogia di ciò che
accade davanti ai tuoi occhi, hai bisogno di risistemare, riaggiustare, la
linea della storia. Forse avevi dimenticato qualcosa di molto importante,
credevi d’aver fatto cose nuove e invece erano state fatte meglio 60/70 anni
prima. Quando abbiamo riscoperto la storia degli Industrial Workers of
the World (IWW) negli Stati Uniti, dove tanti italiani hanno svolto un
ruolo importante, questo ci ha aiutato a capire meglio come dovevamo
rapportarci alla conflittualità operaia. Un terzo esempio, e qui torno sul
problema dell’inchiesta o, se vuoi, della “con-ricerca”, è quello dei rapporti
di scambio, di solidarietà con i portuali genovesi. Qualcuno allora prese il
nostro lavoro assieme ai “camalli” come una specie d’innamoramento estetizzante
per le situazioni pittoresche. In realtà ci hanno aperto gli occhi sul
commercio marittimo, sui flussi globali, e da lì siamo arrivati presto alla
logistica. Pensa adesso, chi avrebbe coraggio di sorridere di queste cose?
In cosa consiste un’inchiesta operaia? E
una con-ricerca?
Il punto chiave è che noi non facevamo
studi sociologici, mettevamo insieme degli elementi utili a chi praticava
processi organizzativi, rivendicativi, conflittuali. Non facevamo una rivista,
facevamo un’operazione politico-culturale. Il rapporto coi “camalli” dura
ancora adesso, 45 anni dopo! Siamo ancora al loro fianco quando difendono il
valore del loro lavoro e ci aiutano a ragionare, a capire, quando cerchiamo di
dare un supporto agli immigrati delle cooperative di facchinaggio. Ci hai mai
pensato che le lotte nella logistica oggi, Italia 2020, sono forse le uniche,
assieme a quelle dei rider, a non avere carattere difensivo?
In che modo oggi si può praticare
un’inchiesta sulla condizione del lavoro intellettuale?
Ti dico semplicemente quello che vedo un
po’ tra i knowledge workers che girano attorno a ACTA,
l’Associazione dei freelance e un po’ tra quelli che fanno parte della nostra
rete internazionale, gente dello spettacolo, creativi, mondo degli eventi
culturali in senso lato ma anche professionisti che lavorano nei settori
logistica, informatica, shipping, finanza e affini. Tutte le
associazioni di rappresentanza hanno condotto delle inchieste presso i soci per
sapere come hanno affrontato l’emergenza. Moltissimi sono proprio a terra,
tutte quelle attività che prevedono un rapporto con il pubblico sono chiuse e
chissà quando riapriranno, lì puoi trovare gente che si mette in coda per un
piatto di minestra. Altri hanno continuato a lavorare indisturbati, loro lo
smart working lo praticano da sempre. Ovunque, a livello mondiale, si è capito
che gli autonomi non hanno ammortizzatori sociali, il Covid 19 è servito dunque
almeno a far capire che esiste un segmento specifico della forza lavoro. Chi
continuava a sostenere che gli autonomi sono semplicemente imprese, ha dovuto
finalmente smettere di dire idiozie. Molti hanno lavorato ma non hanno per
niente la certezza di essere pagati.
Che cosa è emerso dalle nuove ricerche?
Negli ultimi due anni abbiamo fatto
molti passi avanti nella conoscenza del lavoro autonomo e
freelance, grazie alla ricerca e grazie all’attivismo di associazioni di
rappresentanza o gruppi di autotutela. E purtroppo abbiamo constatato un forte
degrado dei compensi, diminuiti anche di due terzi nel giro di una decina
d’anni. Esperienza, anzianità, competenza contano sempre meno. Il life
long learning non ti tiene a galla, è uno dei soliti slogan della
cialtroneria dell’Unione Europea. Quindi il punto importante non è sapere qual
è il ruolo del lavoro intellettuale ma come si fa ad arrestarne la
svalorizzazione. Chi lavora in questi ambiti da professionista/tecnico/artista
indipendente si è sempre considerato diverso dal precario. L’intermittenza
lavorativa, la mancanza di sicurezza sono date per scontate, sono un rischio
calcolato. Oggi buona parte di questo mondo finisce per scivolare nel grande
calderone della gig economy.
In queste condizioni è possibile trarre
ispirazione nella conflittualità di fabbrica anni Settanta?
Può servire a patto di non ripetere come
pappagalli la lezione operaista. Per tutelarsi, il lavoro intellettuale di oggi
deve trovare altre strade rispetto a quelle dell’operaio massa. Bisogna
inquadrare il problema nella crisi generale della middle class, il richiamo al
binomio catena di montaggio/rifiuto del lavoro non serve. I giochi sono
cambiati, la classe operaia industriale, si tratti di Rust Belt americana o di
Bergamo e Brescia, è uno dei terreni di coltura del populismo trumpista o
leghista. Qualcuno pensa di evangelizzarli predicando l’amore cristiano per i migranti,
ma bisogna proprio avere la mentalità da Esercito della Salvezza per essere
così imbecilli. Lì si tratta di riaprire il conflitto industriale, il tema
della salute riproposto dal coronavirus può essere il perno su cui far leva.
Sul fronte del lavoro intellettuale invece, oggi sottoposto a brutale
svalorizzazione, il riscatto può avvenire solo combinando i dispositivi del
mutualismo prima maniera con le più sofisticate tecniche digitali della
comunicazione.
Molti sostengono che è venuta l’ora di
scrivere uno Statuto dei Lavori. Cosa ne pensi?
Per l’amor del cielo! Ci manca pure
questa! Le leggi riflettono sempre quella che è la cosiddetta “costituzione
materiale” di un paese, ossia i rapporti di forza vigenti tra le classi.
Qualunque legge scritta oggi, con “questo” Parlamento, con “questo” clima nella
società civile, porterebbe il segno dello squilibrio oggi esistente tra
capitale e lavoro. Esiste già la Costituzione Italiana, basta e avanza per
tutelare il lavoro. Se fosse applicata. No, non sono necessarie nuove leggi, è
necessaria una mobilitazione capillare per cambiare la costituzione materiale
del Paese, per cambiare quei rapporti di forza. Una volta che saremo riusciti a
girare la frittata, potremo sancirlo con nuove leggi. È l’ora di invocare il Widerstandsrecht,
il diritto di resistenza.
(L’intervista è tratta
da “il manifesto” del 21 maggio 2020)
Editoriale del primo numero della
rivista “Primo Maggio – Sergio Bologna
Scrive Sarah
Lazare nel numero di In These Times del 12 marzo: «Pensavamo
che il nostro sistema fosse caratterizzato da precarietà e senso di paura dei
lavoratori, il Coronavirus ci ha fatto capire che è stato costruito così
deliberatamente».
È vero. Tutte le
caratteristiche negative del nostro tempo, in termini di sistema capitalistico
in generale e in termini di sistema-Italia, stanno venendo a galla in maniera
più chiara e più comprensibile di quanto abbiano potuto fare le migliaia di
analisi e di denunce degli ultimi vent’anni.
Noi cominciamo qui
la nostra avventura di Officina Primo Maggio. Eravamo pronti a
uscire quando è partita l’emergenza. Far finta di nulla era ridicolo, mettersi
a fare grandi analisi, tanti lo facevano, meglio di quanto avremmo potuto fare
noi. Vorremmo provare allora a cambiare gioco e a pensare che cosa di positivo
potrebbe nascere nella testa della gente, perché se c’è un dato certo è che il
“pensiero unico” con il Coronavirus è andato in frantumi, e almeno su un paio
di cose dovrebbe avere qualche difficoltà a ricostruire la sua compattezza di
prima.
Primo, il ruolo
dello stato e del servizio pubblico in generale.
Il problema però
non dobbiamo guardarlo solo con l’ottica dell’emergenza: anche il più accanito
neoliberale oggi è disposto a invocare uno stato autorevole, un comando
centralizzato, una sanità pubblica efficace per combattere un virus. No,
dobbiamo ripensare il ruolo dello stato da dove lo avevamo lasciato con Primo
Maggio, e precisamente da quando ci siamo posti il problema dello
smantellamento del welfare state. Quello che stava accadendo ce
lo avevano spiegato Fox Piven e Cloward: non era tanto la demolizione del
welfare quanto la sua trasformazione in sistema di regolazione e controllo. Si
era in piena stagione dei movimenti di rivolta, Regulating the
Poor era il titolo del loro libro e noi trovavamo analogie
impressionanti con quanto avveniva in Italia con la cassa integrazione: non era
solo un ammortizzatore sociale, era un’arma di pacificazione di massa per
ingabbiare le lotte del “lungo autunno”.
Queste cose ce le
siamo scordate completamente quando agli inizi del millennio e di fronte al
crescere della precarizzazione si è lanciata la parola d’ordine del “reddito
garantito” e non si è riflettuto abbastanza che le forme di erogazione di
sussidi possono diventare strumenti di marginalizzazione – visto che
l’attivazione di politiche del lavoro rimane fine a se stessa – oppure di
limitazione della libertà individuale quando occorre. Proprio in Germania, il
paese forse più attrezzato per questo, tanti giovani poveri rinunciavano al
sussidio pur di non vedersi capitar in casa i controllori a metter le mani
negli armadi. Con l’emergenza attuale tutti corrono a chiedere elemosina allo
stato, il sussidio (chiamato ipocritamente “incentivo”) rischia di diventare un
modello di politica economica. Sono le imprese a sgomitare in prima fila con il
cappello in mano, la mano invisibile del mercato se la sono scordata.
Se il governo
Renzi si è divertito ad amputare tentacoli piccoli e grandi di stato – dalla
soppressione delle province e delle loro competenze sulle tematiche del lavoro,
alla soppressione del corpo dei forestali (pochi mesi prima che una bufera
eccezionale sradicasse parti importanti e preziose dei nostri boschi), a quella
del Magistrato alle Acque di Venezia –, già prima di lui era cominciata la grande
svendita dei beni demaniali: aree ed edifici pubblici ceduti ai privati a
prezzi di mercato, rinunciando a investire in progetti di impiego sociale o di
pubblica utilità. E ancor prima: nel 1997 Bassanini proponeva di trasformare in
Spa tante aziende municipalizzate dei servizi essenziali. Quattordici anni dopo
per salvare l’acqua pubblica ci vorrà addirittura un referendum. Il risultato
fu chiarissimo: no alla privatizzazione. Ma non è bastato. Insomma, è
dall’epoca di Mani Pulite e dello yacht Britannia, cioè per tutto il tempo
della Seconda Repubblica, che il mestiere dei nostri governi è demolire lo
stato dopo averlo logorato o svenduto.
Quello che è
avvenuto in questi anni non è solo la riduzione dello stato al minimo ma anche
la trasformazione di quel minimo in strumento di controllo, selezione e in
ultima analisi creazione di diseguaglianza: un apparato burocratico che appare
sempre più pesante, parassitario e corrotto.
Sicché non basta
dire “torniamo al pubblico” ma occorre andare alle radici per rifondare la
cultura, l’etica del servizio pubblico contro l’idea neoliberale della “pura
efficienza” dell’apparato, perché questa invocazione dell’efficienza è quella
che ha consentito d’introdurre i dettami del mercato nel sistema pubblico.
Riscoprire il ruolo dello stato non è possibile senza una rivalutazione del
senso etico del funzionario pubblico, di quello che un tempo si chiamava “senso
di responsabilità”. Ed è proprio questo che la pandemia da Covid 19 ha
dimostrato: la figura simbolo in questa emergenza s’identifica oggi con la
professione nella quale vige un vincolo di giuramento a un preciso codice
deontologico: la professione sanitaria. E subito dopo il pensiero corre alla
figura dell’insegnante. Sanità e scuola, se non poggia su queste fondamenta,
ogni discorso sullo stato mostra la corda. In principio c’è la “sostanza umana”
della professione, il Beruf weberiano, poi viene la scienza
dell’organizzazione, poi le tecnologie – delle quali comunque, come si vede
dall’indice, intendiamo occuparci.
Eppure non basta
nemmeno questo, non è possibile riscoprire il ruolo dello stato e nello stesso
tempo evitarne i poteri di controllo senza uno slancio di reale partecipazione
democratica. Per esempio, un aiuto statale, in forma di sussidi per pagare l’affitto,
può rivelarsi uno strumento di oppressione: chi avrà diritto a questi
incentivi? E nello stesso tempo, in ragione delle regole di mercato, più che
alleggerire il problema, può benissimo generare un innalzamento degli affitti.
Ben altra partecipazione popolare richiede una reale gestione democratica del
diritto all’abitare.
E l’economia?
Questo è il terreno sul quale molto probabilmente, superato il virus, il
“pensiero unico” può ricomporsi. Bisogna impedirlo. Per ora non ci addentriamo,
lo mettiamo però in agenda nel lavoro di Officina Primo Maggio,
limitandoci a richiamare l’attenzione su quei testi che sono tornati a parlare
di “economia fondamentale”. Ciò che ha costituito la caratteristica del
capitalismo degli algoritmi, simboleggiato dal modello Amazon e dalla funzione
logistico-distribuiva, è la sua vocazione a soddisfare bisogni non essenziali.
Riportare lo stato nella sfera economica significa concentrare le scelte
prioritarie sui bisogni essenziali. Ci diranno che è facile a dirsi in situazioni
d’emergenza dove qualche regola di mercato può essere sospesa senza troppi
ostacoli, ma come farlo passare nel “new normal”? Un modo potrebbe
essere prendendo il toro dalle corna digitali, come abbiamo tentato di fare in
alcuni nostri articoli. A ben pensare, la rivoluzione digitale intesa come
capitalismo delle piattaforme e degli algoritmi si è concentrata soprattutto
sulla prestazione di servizi che non rispondono a bisogni essenziali. In questo
primo numero abbiamo cercato di guardare in concreto cosa succede nel mondo di
Industria 4.0. e di Logistica 4.0. Nel prossimo, se vogliamo parlare di stato,
dovremo misurarci con l’Agenda digitale, con la digitalizzazione della Pubblica
Amministrazione. È un salto in avanti oppure un modo per congelare lo stato
attuale del sistema pubblico e renderne più complessa una riforma sostanziale?
Su questo terreno, sul terreno delle reti, l’emergenza ha messo a nudo il ruolo
essenziale di Internet – come potrebbe altrimenti una popolazione chiusa in
casa comunicare e lo smart working di molte aziende
funzionare? – e la sua natura di habitat dal quale non
possiamo più uscire. L’art. 82 del decreto Cura Italia è tra quelli meno
criticabili.
Se dobbiamo
guardare avanti e immaginare che questa emergenza possa riaprire delle partite
che ormai sembravano definitivamente chiuse, uno dei terreni a noi più
congeniali – avendo messo in testa al nostro programma il conflitto nei
rapporti di lavoro – è quello della fabbrica. Sì, quanto è accaduto e sta
accadendo in quella specie di sfera residua del paese che si chiama
“manifattura”, che si chiama “industria” – tanto residua da far dire ai primi
decreti che lì tutto continuava as usual,mentre altrove tutto si
poteva e si doveva fermare – riapre un orizzonte di rapporti sociali e di dinamiche
organizzative che non dobbiamo chiederci se sono obsolete o meno ma se sono o
non sono espressione di bisogni essenziali, senza i quali parlare di democrazia
non ha senso.
È nelle fabbriche,
infatti, che si è manifestata la prima scossa a un sistema imputridito. Dettata
dalla paura, certo (ma perché, la classe operaia deve avere sempre “nobili
sentimenti”?). Abbiamo cercato di capire che cosa stava succedendo con un
lavoro di inchieste-lampo.
Le agitazioni
erano cominciate prima, ma è dopo la conferenza stampa di Conte della sera
dell’11 marzo che esplode la protesta, a sentir dire il premier che tutto (o
quasi) si poteva chiudere in Italia, tranne le fabbriche. Tale e quale la
posizione espressa da Confindustria: la produzione industriale non si doveva
assolutamente fermare, una sospensione delle attività avrebbe provocato danni
irreparabili al sistema economico, tagliando fuori le aziende italiane dalle
catene di produzione internazionali e dalla possibilità di competere. Immediata
la reazione degli operai: il giorno dopo scioperi e fermate un po’ ovunque.
Invece di capire
al volo che il clima era mutato di colpo, Assolombarda per bocca del suo
presidente definiva irresponsabili quei sindacati che avevano dichiarato
sciopero, anzi “istigato” allo sciopero. Non aveva capito che erano stati
“spinti” e talvolta “costretti” allo sciopero non da chissà quale voglia di
protagonismo ma dai loro delegati, pressati, sommersi da una moltitudine
operaia che si era sentita come presa in trappola. «Come? Gli impiegati possono
lavorare a casa, in smart working, e noi chiusi qua dentro senza
misure precauzionali, senza mascherine, senza disinfezione degli ambienti,
senza tute protettive, attaccati spesso l’uno all’altro, mentre a tutti gli
italiani si chiede di stare almeno a un metro e mezzo di distanza?». E allora
di colpo, nel giro di poche ore, è caduto il sipario sulle condizioni igieniche
dei nostri luoghi di lavoro, dalla metalmeccanica alle banchine dei porti alla
cantieristica. Si è rotta la coltre di silenzio e di omertà che ormai da molti
anni impediva di vedere e di dire che in molti luoghi di lavoro non esisteva
nemmeno il sapone nei bagni, dove gli interventi di igienizzazione e
sanificazione non erano mai stati fatti, dove i dispositivi di protezione individuali
non erano mai stati introdotti; mancavano le premesse per una gestione
ordinaria dell’igiene, figuriamoci per una situazione d’emergenza. Alla faccia
dello Statuto dei Lavoratori, di cui tra poco festeggeremo il cinquantesimo
anniversario.
Questa spinta
operaia si è rovesciata innanzitutto sui delegati di fabbrica, sulle
rappresentanze sindacali aziendali (Rsu), sui rappresentanti dei lavoratori per
la sicurezza (Rls), figure che nel corso degli anni erano state ritenute
“ridondanti” e poco per volta erano state “sfoltite”, decimate, depotenziate,
mentre aumentava a dismisura la produzione normativa sulla sicurezza e il suo
delirante corredo burocratico. Il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10
maggio 2014, sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria prevede che il
numero dei componenti delle Rsu deve essere di 3 nelle unità produttive che
occupano fino a 200 dipendenti; 3 ogni 300 dipendenti nelle unità produttive
che occupano fino a 3.000 dipendenti; 3 ogni 500 dipendenti nelle unità produttive
di maggiori dimensioni. Nessun criterio viene definito invece sul rapporto
numero di dipendenti/responsabili della sicurezza territoriali (Rlst).
E d’improvviso
queste figure, questo esile strato di rappresentanza, diventano l’unico filtro,
l’unica mediazione, l’unica realtà istituzionale che si frappone tra una rabbia
esasperata, mista a sconcerto e paura, e un padronato, un management, incapaci
di rendersi conto di quanto sta succedendo. E trovano di nuovo, forse dopo
anni, decenni, una loro legittimazione, una loro autorevolezza, che ha
consentito di concludere decine di accordi. Là dov’era più forte, il sindacato
– in particolare la Fiom – veniva a trovarsi come unico punto di riferimento
istituzionale, mentre Confindustria e le rappresentanze padronali sul
territorio venivano messe da parte come un inutile ingombro, le multinazionali
non le consideravano nemmeno e la maggioranza dei datori di lavoro presto
capiva con chi era meglio mettersi a un tavolo. Bisognava trovare la quadratura
del cerchio: da un lato chiudere le fabbriche per consentire di adottare le
misure minime di sicurezza, ma chiuderle quel tanto che non avrebbe impedito di
evadere gli ordini, che in molti casi erano schizzati in alto proprio a causa
del virus. Ordini di clienti esteri, che temevano di vedersi arrivare addosso
le misure drastiche che l’Italia stava adottando e volevano riempire le scorte.
Non tutte le fabbriche si trovavano in questa condizione ovviamente, perché
tante erano a corto di ordini da tempo, per queste andava bene poter fare un
po’ di Cig. In tutte però il tasso di assenteismo era cresciuto, era al 20-25%,
per autodifesa o, soprattutto, per far fronte a obblighi familiari resi
difficili dalla chiusura delle scuole. Quindi occorreva trovare soluzioni
differenziate. Per averne un’idea, citiamo dal comunicato sindacale della Fiom
di Brescia del 12 marzo:
Dopo le aziende in
cui è già stata definita la chiusura nei giorni scorsi in misura diversa […]
sono aumentate le realtà dove è stata disposta una diversa organizzazione del
lavoro, dal turno centrale a turni avvicendati, con riduzione degli orari,
oppure riduzione dell’orario pur su un unico turno di lavoro, oppure rotazione
delle presenze con utilizzo permessi/ferie per assenti.
Ma là dove il
sindacato è più forte, come a Reggio Emilia e in parti della Regione
emiliano-romagnola, i provvedimenti sono stati presi in anticipo anche rispetto
ai decreti del governo. Grazie alla presenza capillare dei delegati, il
sindacato è stato in grado di capire prima dell’autorità sanitaria (le Asl si
sono rivelate strutture inconsistenti dopo la falcidia agli organici inflitta
loro negli ultimi anni) quali misure di sicurezza assumere e ha redatto un
vademecum fatto pervenire alle fabbriche, utilizzando anche una What’sApp cui erano
iscritti più di 500 delegati.
Ma anche in Emilia
Romagna, come in Lombardia, Veneto, Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Liguria,
interi settori sono sguarniti sindacalmente, la presenza di sindacati di base
talvolta compensa l’assenza o l’inconsistenza delle grandi centrali ma spesso
c’è il vuoto. Tuttavia anche in questi settori la protesta spontanea di base,
pur timidamente, si è manifestata ed è riuscita a smuovere le acque, qualcosa
dunque sta cambiando. E poi c’è il resto, il buio delle migliaia di piccole e
minuscole realtà da dove non arrivano voci. E poi ci sono le ditte d’appalto
che lavorano per le aziende sindacalizzate e non: non hanno diritti, figurarsi
protezioni o mascherine. Da loro non è mai entrata la Costituzione (ma grazie a
loro siamo leader mondiali nella costruzione di navi da crociera…). E poi ci
sono i precari, gli occasionali, i freelance, c’è il mondo brulicante
della gig economy, l’universo dove il conflitto non è mai
arrivato.
Ci sono luoghi
dove le nostre inchieste-lampo non sono arrivate a raccogliere informazioni
sufficienti, altri dove abbiamo potuto ascoltare un po’ di voci. Il Veneto è
uno di questi. Ed è emerso un quadro variegato, contraddittorio dove paura di
ammalarsi e rabbia nel vedersi messi in ferie forzate convivono nella stessa
persona. Alcuni padroncini si sarebbero attivati per procurare mezzi di
protezione, timorosi di veder arrivare i controlli; ma pochissimi tra operaie e
operai ci hanno poi detto di aver veramente visto arrivare i controlli delle
delle autorità competenti. Molte microimprese e certe Pmi sono aziende a
conduzione famigliare, contesti in cui buona parte del parentado lavora a
stretto contatto con i dipendenti, sono aziende subfornitrici che fanno
lavorazioni conto terzi. «Non è che i padroni non ci pensano, hanno paura anche
loro di ammalarsi. Sono tutto il giorno in fabbrica. Ma se chiudiamo c’è il
rischio di perdere i clienti, questi poi si trovano un altro fornitore e non li
rivedi più». Aziende fragili, raramente sindacalizzate. In questi casi le
aspettative risiedono tutte nell’azione del governo, sono luoghi dove la
frustrazione potrebbe esplodere quando verrà chiesto di stringere i denti per
risollevare l’Italia. È troppo presto per fare previsioni, chissà, forse tra
qualche mese la rabbia che seguirà alle difficoltà economiche potrebbe spingere
alla coesione con il piccolo padronato, e rivolgersi direttamente contro la
politica, contro lo Stato, reo di non aver elargito sussidi a sufficienza.
Ma eccoci a un
secondo atto del dramma. Il 22 marzo, di fronte a una protesta operaia che
chiede sicurezza e sospende il lavoro, il governo emana un nuovo Decreto dove
si definiscono le attività industriali e commerciali considerate essenziali e
autorizzate a funzionare, tutte le altre avrebbero dovuto chiudere. A detta dei
sindacati l’elenco delle attività industriali contenute nel Dpcm era troppo
ampio e comprendeva settori che con i servizi fondamentali (sanità,
agro-alimentare, energia ecc.) avevano ben poco a che fare.
Le dichiarazioni
pubbliche di Confindustria che rivendicavano il merito di aver ottenuto un
elenco di attività così “ecumenico” hanno riacceso gli animi e si è arrivati a
una serie di scioperi dichiarati da intere categorie sindacali, in maniera
unitaria (settore metalmeccanico, chimico-tessile-gomma-plastica e carta) con
il risultato che il 25 marzo il governo è nuovamente intervenuto modificando,
con un Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico, il precedente elenco in
modo da diminuire il numero di lavoratori chiamati al lavoro. Ad esempio, nel
settore metalmeccanico si stima che la sospensione poteva avere effetto sul 90%
della forza lavoro. Ma nella norma era stata inserita una scappatoia per le
imprese “escluse” che avrebbero potuto, mediante autocertificazione, dichiarare
di essere al servizio delle filiere fondamentali e chiedere l’autorizzazione a
proseguire l’attività. Affidato ai prefetti, rappresentanti territoriali dello
stato, il compito di verificare la veridicità delle autocertificazioni.
Clamorosa la deroga che consente le attività dell’industria dell’aerospazio e
della difesa, sempre previa autorizzazione dei prefetti. Considerarle attività
di rilevanza strategica per l’economia nazionale, al pari del settore sanitario
e agroalimentare, è una decisione che non ha bisogno di commenti. La norma,
scritta – com’è buona tradizione italica – in maniera imprecisa e ambigua, ha
gettato i territori nella più totale confusione. Com’è consolidata tradizione
dei paesi dove lo stato è debole, le singole prefetture si sono mosse in maniera
difforme, in particolare per quanto riguarda il coinvolgimento del sindacato
nel processo di selezione: alcune hanno fornito gli elenchi delle imprese che
avevano inoltrato l’autodichiarazione, altre hanno semplicemente comunicato
l’elenco delle imprese che avevano già autorizzato a operare, alcune si sono
preoccupate di mantenere un rapporto di condivisione con il sindacato avendo un
occhio all’ordine pubblico, altre hanno semplicemente manifestato la loro
impotenza, travolte dalle richieste e impossibilitate a esaminarle celermente.
Sta di fatto però che Confindustria è riuscita a far rientrare dalla finestra
quello che era stato cacciato dalla porta. Mentre chiudiamo questo editoriale
ci sono segnali che le agitazioni stanno riprendendo, la parola è di nuovo ai
territori. Che tenuta avrà questa possibile seconda ondata di scioperi? Quante
famiglie ormai cominciano a non avere i soldi per mangiare? La riapertura di
molte attività avrà l’effetto di ritardare il superamento dell’emergenza e il
ritorno alla normalità? Oltre a tutti i danni che ha prodotto negli ultimi
decenni, dovremo ringraziare Confindustria anche di averci fatto pagare un
prezzo più alto in termini di contagiati e di morti? Noi del conflitto – del
conflitto dentro il rapporto di lavoro – abbiamo fatto un programma, il primo
punto di un’agenda culturale, di un’intenzione di ricerca. E riteniamo che il
conflitto manchi soprattutto dentro il lavoro intellettuale, creativo,
digitale. Non ci facciamo illusioni, il paese, uscito stremato dalla crisi del
Coronavirus, chiederà alla gente di lavorare “pancia a terra”, ma forse qualche
spinta verso il superamento dell’individualismo e della rassegnazione porterà
la gente a guardare con occhi diversi la necessità della coalizione. E quando
accadrà, saremo pronti a dare una mano. Non c’interessa fare una rivista,
c’interessa fare un’operazione politico-culturale, c’interessa mettere il
nostro minuscolo gettone per cambiare le cose.
da qui
Una generazione ribelle - Sergio Bologna, Giairo Daghini
Ecco un altro anniversario. Dopo il 2017 che ci ha ricordato la rivoluzione d’ottobre e il movimento del ’77 nelle università italiane, è la volta di ricordare i cinquant’anni dal fatidico 1968. C’eravamo? Sì, c’eravamo, mezzi partecipanti e mezzi spettatori, perché la nostra generazione aveva iniziato prima, sei-sette anni prima o anche dieci, quando la rivolta di Ungheria aveva cominciato a spargere qualche dubbio sul rapporto tra classe operaia e comunismo. E quelli con qualche anno di più, Raniero Panzieri tanto per fare un nome, ci insegnavano che prima degli ungheresi erano stati gli operai tedeschi di Berlino Est a scontrarsi con i carri armati russi. Il ’68 quindi non era “nostro”, era un passaggio, importantissimo, decisivo, di un lungo percorso nel corso del quale dovevamo trovare una strategia di liberazione e di ribellione che non seguisse i canoni comunisti, neanche nelle loro varianti maoiste o guevariste. Ma era un passaggio, non il passaggio. Anzi, diciamola tutta, gli operaisti accaniti, come noi, reduci di “Classe Operaia”, non erano ben visti nelle prime rivolte universitarie, quelle dell’ondata cosiddetta “antiautoritaria”. Chi mise le cose a posto fu il maggio francese. Lì si vide che, se c’era da tentare una, sia pure limitata, sovversione dell’ordine delle cose – nella fattispecie l’ordine metropolitano –, la classe operaia non si tirava indietro. Alla notizia dei primi scontri nel Quartiere Latino, vicino alla Sorbonne, ci siamo detti: “Dobbiamo esserci”.
L’arrivo a Parigi è stato uno shock e il senso di quella metropoli in gran movimento ci accompagnerà e farà da intercessore nel racconto che ne faremo al ritorno. Quel che ci ha colpito di sorpresa è stato lo scoppio di desiderio dilagante, trasversale, con masse di operai, di medici, di studenti, di lavoratori della cura e intellettuali, di uomini, di donne tantissime che invadevano le strade e spezzavano i ritmi e le regole di quella macchina della valorizzazione che è la metropoli.
In una moltitudine in fibrillazione ciascuno sembrava divenire qualcun altro, qualcuno che fino ad allora era rimasto compresso e che ora prendeva respiro. Grandi sciami di persone si spostavano sempre dialogando con animazione e soprattutto in grande atmosfera di amicizia. Non la folla di una metropoli, ma una moltitudine che si ricomponeva di continuo per blocchi di amicizia con una socialità politica immediata.
Ogni giorno dovevamo aggiustare i nostri schemi mentali a fronte di una società che spezzava i ritmi, le convenzioni e che nell’incontro di tutte le componenti del lavoro vivo rimetteva in discussione in ogni disciplina le proprie basi gnoseologiche, le pratiche politiche e il concetto stesso di lavoro in quanto produttore di merci.
L’articolo sui “Quaderni Piacentini”, che scrivemmo nel giugno (lo si può leggere oggi in rete qui) fu un gesto politico. Forse oggi non scriveremmo le stesse cose. La nostra interpretazione, la nostra stessa ricostruzione dei fatti, era fortemente condizionata dal paradigma operaista: avevamo intenzionalmente costretto la realtà in quella camicia di forza perché non c’interessava restituire a Parigi quel che era di Parigi, c’interessava la partita che si stava giocando in Italia, cioè spostare l’intero movimento studentesco dalla lotta per la riforma dell’istruzione alla lotta di fabbrica. L’abbiamo tentato con il giornale “La Classe”, con la presenza e l’agitazione alle porte della FIAT, e ci riuscimmo. Grazie alle avanguardie di fabbrica, a Marione Dalmaviva, ma anche grazie ai lavoratori-studenti di Trento, di Padova, grazie alle facoltà scientifiche, grazie ai tecnici di fabbrica.
Questo grande movimento di lotte del ’69 alla FIAT ci introduce nel decennio del lungo ’68 italiano dove una ribellione civile che parte anche dalla fabbrica investe tutta la metropoli. È stata una generazione ribelle con una straordinaria forza di innovazione nella produzione culturale, nelle forme della socialità, negli spazi urbani e che ha posto con una grande intensità l’istanza del lavoro vivo, il lavoro di soggettivazione che avviene nella individuazione e nella socializzazione del linguaggio, degli affetti, delle forze di memoria, di percezione e dell’intelletto. Quelle forze cognitive che la controrivoluzione neoliberista tenterà di catturare integrando l’agire e la cooperazione sociale di una generazione di mezzo nelle reti della finanziarizzazione.
Come si fa a raccontarla a questa generazione di mezzo e a quella giovane di oggi? Come possono capire la voglia di mettere in discussione tutto, loro che, nella grande maggioranza, sembrano accettare l’ordine delle cose, l’ordine del mercato, tranne i pochi che hanno raccolto le nostre bandiere? Come può uno che segue la trafila telefonino-scuola-telefonino-università-iPhone-soggiorno in Inghilterra per imparare bene l’inglese-iPhone 6-cv in tutte le direzioni-iPhone 8-stage-iPhone 10-primo colloquio di lavoro-iPad-“beh, mi pagano di merda ma fa tutto curriculum”-iPad 2-mutuo per la casa coi soldi dei genitori… Come fa uno così a concepire che si possa buttare all’aria tutto, lavoro sicuro, famiglia con casa al mare, per mettersi in mezzo ai casini, alle occupazioni, agli scontri e non credere più a quello che ti hanno insegnato a scuola, in facoltà, per inseguire una rivoluzione che sai benissimo non si farà mai e se si facesse chissà se sarebbe meglio o peggio? Come fa uno che vive nei social, e non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che la vita possa essere diversa, a capire, a concepire la ricerca di una propria visione del mondo? Oppure riesce sì a immaginarlo, ma in un ambiente esotico, nell’Amazzonia, in Australia, nella Terra del Fuoco, mentre noi pensavamo di farla diversa la vita negli stessi luoghi in cui eravamo nati e cresciuti, con gli stessi negozi sotto casa e gli stessi vicini di pianerottolo.
Trasmettere oggi quell’esperienza è forse impossibile. Non sono le forme esteriori a rappresentare un ostacolo, le occupazioni, i cortei, le assemblee, persino le botte con la polizia, no, quelle sono facilmente trasmissibili, sono alla portata persino dello zombie con l’iPhone. No, intendiamo le motivazioni che hanno spinto a compiere quelle azioni, i ragionamenti, il senso comune, che le hanno legittimate – queste sono le cose che a nostro avviso possono apparire impenetrabili ai millennial. Prendiamo ad esempio la parola d’ordine “rifiuto del lavoro”. Come si può capire che quelle tre parole avevano un’importanza enorme non solo per noi ma per gli operai di fabbrica? Basta guardare l’intervista con Italo Sbrogiò, leader operaio del Petrolchimico di Marghera in pensione, per rendersene conto. Come possono capirlo quelli che sono disposti, lavorando gratis o per quattro soldi, a portar via il posto a un giornalista di quarant’anni, a un operatore televisivo, a un curatore di mostre d’arte? Di questa oscena corsa al ribasso, che abbiamo tutti sotto gli occhi, non possiamo dare la colpa solo alla pubblica amministrazione coi suoi bandi demenziali o agli algoritmi o ai padroni in genere e ai loro uffici del personale. C’è gente, tanta, disposta a vendersi per un niente pur di mettere la testa dentro qualcosa, fior di laureati, gente da spaccar loro le gambe a pensare il danno che fanno agli altri, oltre che a se stessi. Gente che non vede altro che il mercato, ma che non capisce un accidente del mercato stesso, nemmeno la regola aurea che più scendi di prezzo meno sarai capace di rialzarlo, un domani.
Ecco, se qualcuno ci chiedesse in che modo utilizzare questo anniversario, in che modo cercare di far capire i valori del ’68, noi risponderemmo: spiegando le ragioni che hanno portato il lavoro intellettuale e cognitivo a difendere il suo valore, a difendere la sua dignità. Il lavoro intellettuale e cognitivo, diciamo con enfasi, perché è quello che oggi, assai più del lavoro manuale, è disposto a vendersi per un tozzo di pane o per niente.
da qui
Una generazione ribelle - Sergio Bologna, Giairo Daghini
Ecco un altro anniversario. Dopo il 2017 che ci ha ricordato la rivoluzione d’ottobre e il movimento del ’77 nelle università italiane, è la volta di ricordare i cinquant’anni dal fatidico 1968. C’eravamo? Sì, c’eravamo, mezzi partecipanti e mezzi spettatori, perché la nostra generazione aveva iniziato prima, sei-sette anni prima o anche dieci, quando la rivolta di Ungheria aveva cominciato a spargere qualche dubbio sul rapporto tra classe operaia e comunismo. E quelli con qualche anno di più, Raniero Panzieri tanto per fare un nome, ci insegnavano che prima degli ungheresi erano stati gli operai tedeschi di Berlino Est a scontrarsi con i carri armati russi. Il ’68 quindi non era “nostro”, era un passaggio, importantissimo, decisivo, di un lungo percorso nel corso del quale dovevamo trovare una strategia di liberazione e di ribellione che non seguisse i canoni comunisti, neanche nelle loro varianti maoiste o guevariste. Ma era un passaggio, non il passaggio. Anzi, diciamola tutta, gli operaisti accaniti, come noi, reduci di “Classe Operaia”, non erano ben visti nelle prime rivolte universitarie, quelle dell’ondata cosiddetta “antiautoritaria”. Chi mise le cose a posto fu il maggio francese. Lì si vide che, se c’era da tentare una, sia pure limitata, sovversione dell’ordine delle cose – nella fattispecie l’ordine metropolitano –, la classe operaia non si tirava indietro. Alla notizia dei primi scontri nel Quartiere Latino, vicino alla Sorbonne, ci siamo detti: “Dobbiamo esserci”.
L’arrivo a Parigi è stato uno shock e il senso di quella metropoli in gran movimento ci accompagnerà e farà da intercessore nel racconto che ne faremo al ritorno. Quel che ci ha colpito di sorpresa è stato lo scoppio di desiderio dilagante, trasversale, con masse di operai, di medici, di studenti, di lavoratori della cura e intellettuali, di uomini, di donne tantissime che invadevano le strade e spezzavano i ritmi e le regole di quella macchina della valorizzazione che è la metropoli.
In una moltitudine in fibrillazione ciascuno sembrava divenire qualcun altro, qualcuno che fino ad allora era rimasto compresso e che ora prendeva respiro. Grandi sciami di persone si spostavano sempre dialogando con animazione e soprattutto in grande atmosfera di amicizia. Non la folla di una metropoli, ma una moltitudine che si ricomponeva di continuo per blocchi di amicizia con una socialità politica immediata.
Ogni giorno dovevamo aggiustare i nostri schemi mentali a fronte di una società che spezzava i ritmi, le convenzioni e che nell’incontro di tutte le componenti del lavoro vivo rimetteva in discussione in ogni disciplina le proprie basi gnoseologiche, le pratiche politiche e il concetto stesso di lavoro in quanto produttore di merci.
L’articolo sui “Quaderni Piacentini”, che scrivemmo nel giugno (lo si può leggere oggi in rete qui) fu un gesto politico. Forse oggi non scriveremmo le stesse cose. La nostra interpretazione, la nostra stessa ricostruzione dei fatti, era fortemente condizionata dal paradigma operaista: avevamo intenzionalmente costretto la realtà in quella camicia di forza perché non c’interessava restituire a Parigi quel che era di Parigi, c’interessava la partita che si stava giocando in Italia, cioè spostare l’intero movimento studentesco dalla lotta per la riforma dell’istruzione alla lotta di fabbrica. L’abbiamo tentato con il giornale “La Classe”, con la presenza e l’agitazione alle porte della FIAT, e ci riuscimmo. Grazie alle avanguardie di fabbrica, a Marione Dalmaviva, ma anche grazie ai lavoratori-studenti di Trento, di Padova, grazie alle facoltà scientifiche, grazie ai tecnici di fabbrica.
Questo grande movimento di lotte del ’69 alla FIAT ci introduce nel decennio del lungo ’68 italiano dove una ribellione civile che parte anche dalla fabbrica investe tutta la metropoli. È stata una generazione ribelle con una straordinaria forza di innovazione nella produzione culturale, nelle forme della socialità, negli spazi urbani e che ha posto con una grande intensità l’istanza del lavoro vivo, il lavoro di soggettivazione che avviene nella individuazione e nella socializzazione del linguaggio, degli affetti, delle forze di memoria, di percezione e dell’intelletto. Quelle forze cognitive che la controrivoluzione neoliberista tenterà di catturare integrando l’agire e la cooperazione sociale di una generazione di mezzo nelle reti della finanziarizzazione.
Come si fa a raccontarla a questa generazione di mezzo e a quella giovane di oggi? Come possono capire la voglia di mettere in discussione tutto, loro che, nella grande maggioranza, sembrano accettare l’ordine delle cose, l’ordine del mercato, tranne i pochi che hanno raccolto le nostre bandiere? Come può uno che segue la trafila telefonino-scuola-telefonino-università-iPhone-soggiorno in Inghilterra per imparare bene l’inglese-iPhone 6-cv in tutte le direzioni-iPhone 8-stage-iPhone 10-primo colloquio di lavoro-iPad-“beh, mi pagano di merda ma fa tutto curriculum”-iPad 2-mutuo per la casa coi soldi dei genitori… Come fa uno così a concepire che si possa buttare all’aria tutto, lavoro sicuro, famiglia con casa al mare, per mettersi in mezzo ai casini, alle occupazioni, agli scontri e non credere più a quello che ti hanno insegnato a scuola, in facoltà, per inseguire una rivoluzione che sai benissimo non si farà mai e se si facesse chissà se sarebbe meglio o peggio? Come fa uno che vive nei social, e non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che la vita possa essere diversa, a capire, a concepire la ricerca di una propria visione del mondo? Oppure riesce sì a immaginarlo, ma in un ambiente esotico, nell’Amazzonia, in Australia, nella Terra del Fuoco, mentre noi pensavamo di farla diversa la vita negli stessi luoghi in cui eravamo nati e cresciuti, con gli stessi negozi sotto casa e gli stessi vicini di pianerottolo.
Trasmettere oggi quell’esperienza è forse impossibile. Non sono le forme esteriori a rappresentare un ostacolo, le occupazioni, i cortei, le assemblee, persino le botte con la polizia, no, quelle sono facilmente trasmissibili, sono alla portata persino dello zombie con l’iPhone. No, intendiamo le motivazioni che hanno spinto a compiere quelle azioni, i ragionamenti, il senso comune, che le hanno legittimate – queste sono le cose che a nostro avviso possono apparire impenetrabili ai millennial. Prendiamo ad esempio la parola d’ordine “rifiuto del lavoro”. Come si può capire che quelle tre parole avevano un’importanza enorme non solo per noi ma per gli operai di fabbrica? Basta guardare l’intervista con Italo Sbrogiò, leader operaio del Petrolchimico di Marghera in pensione, per rendersene conto. Come possono capirlo quelli che sono disposti, lavorando gratis o per quattro soldi, a portar via il posto a un giornalista di quarant’anni, a un operatore televisivo, a un curatore di mostre d’arte? Di questa oscena corsa al ribasso, che abbiamo tutti sotto gli occhi, non possiamo dare la colpa solo alla pubblica amministrazione coi suoi bandi demenziali o agli algoritmi o ai padroni in genere e ai loro uffici del personale. C’è gente, tanta, disposta a vendersi per un niente pur di mettere la testa dentro qualcosa, fior di laureati, gente da spaccar loro le gambe a pensare il danno che fanno agli altri, oltre che a se stessi. Gente che non vede altro che il mercato, ma che non capisce un accidente del mercato stesso, nemmeno la regola aurea che più scendi di prezzo meno sarai capace di rialzarlo, un domani.
Ecco, se qualcuno ci chiedesse in che modo utilizzare questo anniversario, in che modo cercare di far capire i valori del ’68, noi risponderemmo: spiegando le ragioni che hanno portato il lavoro intellettuale e cognitivo a difendere il suo valore, a difendere la sua dignità. Il lavoro intellettuale e cognitivo, diciamo con enfasi, perché è quello che oggi, assai più del lavoro manuale, è disposto a vendersi per un tozzo di pane o per niente.
da qui
Come il
patrimonio teorico dell’operaismo italiano è servito a comprendere la realtà
del lavoro postfordista – Sergio Bologna
Sergio Bologna, protagonista dell’operaismo e del post-operaismo italiano,
racconta l’evoluzione di un pensiero politico, vario e ricco di sfaccettature,
che attraversa mezzo secolo di elaborazione teorica e azione militante in
Italia, dagli anni Sessanta a oggi. Un pensiero che ancora oggi mostra tutta la
sua potenziale ricchezza ed è capace di innervarsi con le energie delle nuove
generazioni. Perché l’esercizio del pensiero critico è linfa per la
comprensione di ciò che è successo e motore di ciò che verrà.
* * * * *
Il sistema di pensiero che viene riassunto con il nome di “operaismo
italiano” non è un sistema organico, racchiuso in un testo fondamentale, in una
qualche Bibbia, ma è la somma di diversi contributi teorici provenienti da
alcuni intellettuali militanti che hanno fondato le riviste “Quaderni Rossi” e
“Classe Operaia”.
[1] Raniero
Panzieri, Mario Tronti, Toni Negri e Romano Alquati sono quelli che hanno posto
le fondamenta del sistema, altri, come Gaspare De Caro, Guido Bianchini,
Ferruccio Gambino, Alberto Magnaghi, hanno portato dei contributi essenziali su
tematiche specifiche che completavano l’orizzonte del pensiero operaista e gli
davano l’impronta di un “sistema” coerente al suo interno, come la
storiografia, l’agricoltura, le migrazioni, il territorio.
Operaismo e fordismo
L’esperienza dei gruppi operaisti si è sviluppata in un periodo storico nel
quale sembrava che nelle società capitaliste non ci fosse un’alternativa alla
produzione di massa caratterizzata da grandi imprese in grado di ottenere forti
economie di scala. La grande fabbrica nella quale migliaia di lavoratori
svolgevano operazioni sempre più semplificate – mentre le macchine svolgevano
operazioni sempre più complesse – sembrava il punto d’arrivo di un processo
storico che aveva origine nella nascita dell’industrialismo. La produzione di
massa era il modo migliore per produrre beni che costavano poco sul mercato e
potevano essere acquistati da tutti, in primo luogo dagli stessi lavoratori che
li producevano, anche se si trattava di beni complessi come l’automobile. Così
si creavano le premesse per realizzare l’insostituibile integrazione alla
produzione di massa, cioè il consumo di massa. Un sistema tanto perfetto e ben
funzionante che era stato adottato anche dai paesi dove aveva trionfato la
rivoluzione comunista. Anzi, la rivoluzione comunista aveva trionfato in paesi
nei quali questo sistema era ancora molto imperfetto, poco sviluppato o
addirittura inesistente, sono stati i governi usciti dalla rivoluzione a
portare a compimento lo sviluppo del sistema della produzione di massa
organizzandola in grandi Kombinat, in complessi industriali con migliaia di
lavoratori, estendendola anche all’agricoltura. In Occidente questo sistema
veniva chiamato per comodità “fordismo” perché aveva trovato la sua
applicazione pratica e teorica più compiuta nell’organizzazione delle fabbriche
dell’automobile di Henry Ford. L’idea di base dell’operaismo, mutuata
ovviamente dalla teoria marxiana, era che la grande fabbrica con le sue
migliaia di operai potesse trasformarsi in un grande terreno fertile per un
progetto rivoluzionario e diventare da sede della produzione di massa a spazio
liberato dall’oppressione capitalistica. Il capitalismo doveva essere
imprigionato nella sua stessa dimora, le mura della sua casa dovevano diventare
le sbarre della sua prigione. Il lavoro fordista alla catena di montaggio
doveva diventare il terreno di formazione del soggetto rivoluzionario,
dell’operaio massa. Come si vede, l’idea primordiale dell’operaismo era il
calco, l’impronta rovesciata del fordismo. Senza un’organizzazione sociale come
quella della fabbrica fordista l’operaismo avrebbe avuto difficoltà a elaborare
il suo progetto rivoluzionario, l’operaio massa si formava come classe dentro
un sistema produttivo con particolari caratteristiche tecnologiche, era
tutt’uno con questo sistema, che gli forniva i mezzi di sussistenza. L’operaio
massa era innanzitutto un salariato, la struttura della sua busta
paga era composta da una parte fissa, il salario base, da un parte variabile,
collegata alla produttività e da altre voci che corrispondevano ad altrettante
conquiste contrattuali come il recupero dell’inflazione, gli assegni familiari,
le ore straordinarie, i premi di produzione, le indennità per lavori notturni o
nocivi ecc.. L’organizzazione produttiva fordista non era il sistema dominante
solo all’interno della fabbrica ma proiettava i suoi rigidi schemi anche sulla
società, sulla mobilità urbana ed extraurbana, sugli insediamenti abitativi,
sugli orari dei negozi. Migliaia di operai uscivano al mattino presto dalle
fabbriche dopo aver fatto il turno di notte ed altrettante migliaia erano in
attesa fuori dai cancelli per entrare al primo turno del mattino. Era questo il
momento migliore per distribuire e diffondere i volantini di “Classe Operaia” e
di “Potere Operaio”, volantini che quasi sempre erano stati scritti su
indicazioni fornite da operai delle stesse fabbriche, dopo un lungo lavoro di
“conricerca”, di dialogo e di scambio di opinioni e informazioni tra militanti
operaisti e operai di fabbrica. L’operaismo quindi è stato in tutto e per tutto
l’immagine rovesciata del fordismo, era tutt’uno con il fordismo, viveva in
simbiosi con esso, non sembrava immaginabile un operaismo senza una società
fordista, senza una produzione di massa, senza l’operaio massa. Con la morte
del fordismo avrebbe dovuto morire anche l’operaismo. La società postfordista,
la società dell’informazione, la società della prevalenza del terziario e della
finanza, del lavoro precario e del lavoro indipendente, avrebbero dovuto essere
incomprensibili a chi si era formato sul fordismo. L’operaismo avrebbe dovuto
estinguersi lentamente man mano che la figura dell’operaio massa diventava
sempre più marginale nelle società occidentali. Invece ciò non è avvenuto, i
militanti, gli attivisti, gli intellettuali che avevano condiviso l’esperienza
operaista sono stati in grado meglio di altri di cogliere le caratteristiche
della nuova formazione capitalistica – che per comodità abbiamo chiamato
“postfordista”. Anzi, di tutte le organizzazioni ed i gruppi extraparlamentari
degli Anni 70 operanti in Italia, gli eredi dell’operaismo sono rimasti gli
unici a tentare, a volte con successo, di elaborare una nuova teoria della
liberazione praticabile nella società postfordista, sono gli unici che sono
riusciti a tallonare l’evoluzione del capitalismo da Henry Ford a Steve Jobs,
producendo analisi convincenti e pratica politica sia con il lavoro salariato
sia con il lavoro non salariato. Com’è stato possibile?
Il ruolo dell’intellettuale
Innanzitutto occorre ricordare che l’operaismo non è stato una semplice
riproposizione dell’anarcosindacalismo o del Linkskommunismus, gli
operaisti non hanno mai creduto che il sistema capitalista, assediato da
conflitti industriali sempre più estesi, con una classe operaia sempre più
aggressiva, disposta a praticare il blocco della produzione e di qualunque
attività propria del lavoro subordinato, sarebbe crollato in seguito a uno
sciopero generale prolungato e irreversibile. Queste utopie non appartengono
alla tradizione operaista, anche se le tecniche del conflitto industriale che
l’operaismo ha cercato di promuovere erano le stesse dell’anarcosindacalismo.
L’operaismo non è mai stato indulgente con le semplificazioni, con le facili
parole d’ordine, a costo di apparire esercizio di intellettualismo, a costo di
essere accusato di eccesso di pensiero astratto. Prima di tutto l’operaismo non
ha mai preteso di poter “insegnare” agli operai la via della rivolta o della
rivoluzione, al contrario, la pratica operaista della “conricerca” vuol dire
semplicemente che il militante deve “imparare” dagli operai, deve saperli
ascoltare, mantenendo però sempre il suo ruolo d’intellettuale, che gli
consente di trasmettere strumenti di pensiero e di analisi che possono essere
utili all’operaio che intende affrontare un percorso collettivo di liberazione.
L’operaismo ha sempre rifiutato l’atteggiamento populista, che era molto comune
tra i militanti dei gruppi extraparlamentari degli anni 70 in Italia, di
camuffarsi da operai, di vestire la tuta blu per assomigliare agli operai, di
nascondere con vergogna le proprie origini borghesi. Al contrario, chi ha avuto
la fortuna di poter studiare, di frequentare l’Università, di avere a
disposizione strumenti per arricchire le proprie conoscenze, per sviluppare uno
spirito critico, chi ha avuto la fortuna di poter studiare all’estero, di
imparare le lingue, di conoscere meglio e da vicino il pensiero del capitale,
chi ha avuto la fortuna di conoscere la storia del movimento operaio, il
pensiero marxista, ha il dovere di perfezionare al massimo
questi strumenti di conoscenza, di raggiungere con i suoi lavori i livelli più
alti di produzione scientifica e di mettere a disposizione di tutti ma in
particolare dei lavoratori il suo sapere, le sue conoscenze. Deve concepire se
medesimo come una cellula di una struttura di servizio. Questo
atteggiamento degli operaisti veniva trattato con disprezzo, venivano chiamati
spregiativamente “i professori”, in realtà anche quando i loro principali
esponenti si sono trovati a ricoprire ruoli accademici (da Negri a Tronti, da
Alquati a Gambino, da Bianchini a Magnaghi) hanno sempre svolto il loro
insegnamento come una missione politica, hanno sempre fatto ricerca come fosse
una “conricerca”, hanno sempre parlato e scritto lo stesso linguaggio nelle
loro pubblicazioni scientifiche e nel materiale di propaganda politica. Il
principio regolatore della loro vita d’intellettuali è stato quello di essere
sempre se stessi, non di sdoppiarsi in un ruolo di professori ed uno di
militanti, facendo gli accademici di giorno e gli operaisti di sera o nei week
end. Ed infatti sono stati gli unici professori universitari ad essere messi in
galera o ad essere espulsi dall’Università. La repressione si è abbattuta in
maniera selettiva su di loro.
La classe operaia come organismo complesso
Da quanto si è detto è facile intuire che il sistema di pensiero operaista
non ama gli schematismi e le semplificazioni, al contrario, consapevole
dell’estrema complessità della realtà capitalistica, cerca di scandagliare a
fondo questa realtà, di rendersi conto dei suoi aspetti palesi e meno palesi.
Potremmo dire che ha una grande considerazione dell’avversario, sa che deve
combattere una potenza raffinata, brutale e seducente al tempo stesso.
Sottovalutare l’avversario è proprio degli stupidi, destinati a sicura
sconfitta. Il primo aspetto del sistema capitalistico al quale l’operaismo ha
prestato la sua attenzione è stato quello della tecnologia.
L’impulso decisivo lo ha dato Raniero Panzieri con la sua lettura innovativa
del “Frammento sulle macchine” di Marx pubblicato sul n. 1 dei “Quaderni
Rossi”.[2] La tecnologia è lavoro incorporato,
essa svolge un ruolo ambivalente, perché “libera” l’operaio da una certa fatica
ma al tempo stesso “sottopone” l’operaio ad un maggiore e più rigido controllo.
La tecnologia ha il potere di plasmare un certo tipo di forza lavoro, di
determinare certe sue caratteristiche professionali, che possono avere dei
risvolti specifici anche nella sua mentalità, nella sua cultura e quindi nel
suo agire politico. L’operaismo dice che la tecnologia ha il potere di
determinare “la composizione tecnica della classe operaia”. Facciamo un
esempio. Nelle fabbriche dell’auto degli anni 70 c’erano dei reparti nei quali
l’operaio aveva un rapporto individuale con la macchina, ne conosceva tutti i
segreti, era in grado di “prepararla”, di attrezzarla ed era molto orgoglioso
di questa sua conoscenza che era anche la fonte del suo piccolo potere. Si
trattava di operai specializzati con una forte coscienza del proprio ruolo, che
venivano considerati la cosiddetta “aristocrazia operaia” ed in genere erano
anche i più combattivi, moltissimi erano comunisti e consideravano il loro
essere comunisti come una naturale conseguenza del loro essere i più
specializzati, i più qualificati, non solo per quanto riguardava la macchina
loro affidata, una pressa, un tornio, una fresa, una saldatrice, ma per quanto
riguardava l’intero ciclo produttivo; conoscevano la fabbrica in ogni suo
angolo, erano in grado quindi di organizzare scioperi improvvisi, blocchi della
produzione, fermando i punti nevralgici del ciclo. Trasmettevano il loro sapere
ai più giovani ma al tempo stesso avevano un forte senso della gerarchia,
ritenevano giusto un sistema salariale fortemente differenziato, il giovane
doveva salire gradino dopo gradino la scala della specializzazione. In altri
reparti della fabbrica invece c’erano le catene di montaggio, cioè un tipo di
tecnologia che non permette un approccio individuale, dove potevano essere
inseriti operai e operaie senza nessuna qualificazione. A Milano agli inizi
degli Anni 60 nelle fabbriche elettromeccaniche, dove il lavoro alla catena non
era spesso pesante come nell’auto, nei reparti del montaggio venivano impiegate
le donne, operaie generiche, pagate ovviamente molto meno degli operai addetti
alle macchine. Questa classe operaia era quella che l’operaismo definì “operaio
massa”, con una mentalità molto diversa dall’operaio specializzato
dell’aristocrazia operaia e quindi con delle rivendicazioni opposte: aumenti
salariali uguali per tutti, abolizione del cottimo individuale. Rivendicazioni
che dovevano suonare come una bestemmia alle orecchie del vecchio operaio
comunista che lavorava come attrezzista sulle macchine individuali.
Cosa succede quando negli Anni 80 la fabbrica si disintegra e poco alla
volta si diffonde e poi dilaga la tecnologia dell’informazione? Cosa succede
quando gli operai di fabbrica, specializzati o meno, operai massa o meno,
vengono in parte sostituiti dai robot, in parte vengono licenziati perché la
produzione si delocalizza verso i paesi emergenti, perdono la loro forza
sociale, la tradizione comunista viene buttata a mare dai partiti di sinistra e
la classe operaia non è più un soggetto politico? Succede che il mondo del
lavoro si adatta alle nuove tecnologie, viene plasmato dalle nuove tecnologie.
Chi proviene dall’esperienza operaista si trova ad avere degli strumenti
intellettuali in grado di capire cosa sta succedendo. Come prima aveva
osservato il rapporto tra operaio specializzato e macchina individuale o tra
operaio massa e catena di montaggio ora osserva il rapporto tra personal
computer e soggetto che lo sta utilizzando, mette a confronto due modi di lavorare
totalmente differenti, un modo di lavorare fordista, inquadrati in una rigida
organizzazione che comprende migliaia di persone in spazi dedicati, ed un modo
di lavorare solitario, senza spazi dedicati, capace di determinare i propri
ritmi e di accedere in permanenza ad un universo d’informazioni potenzialmente
infinito. Al primo momento l’uomo che lavora al personal computer gli appare
come un puzzle. E’ un uomo libero? Ha un grado di libertà maggiore
dell’operaio schiavo della catena di montaggio? Apparentemente sì. E’ un uomo
che ha potere? Potere di negoziazione nei confronti del suo datore di lavoro,
quanto ne avevano gli operai che collettivamente fermavano la produzione e
trattavano con la direzione? Apparentemente no, anzi sicuramente no, il potere
sociale lo si ottiene solo con la coalizione, l’individuo da solo è sempre
subalterno. Come dice Michel Serres, “la connettività ha sostituito la
collettività”, il lavoratore non vive insieme ad altri lavoratori come lui, a
tu per tu, è connesso con altri lavoratori dei quali non
conosce né il volto né la voce ma solo l’indirizzo mail. La massa
d’informazioni che può procurarsi tramite Internet gli conferisce maggiore
potere, maggiore capacità di negoziazione rispetto all’operaio che, schiavo
della macchina, non aveva la possibilità di accedere al mondo
dell’informazione? No, non ha maggior potere, il solo vantaggio che può avere
nei confronti del lavoratore subordinato, operaio o impiegato che sia, è quello
di potere usare quelle informazioni per vivere come lavoratore indipendente,
come non salariato. Sono bastate quindi poche domande che il vecchio operaista
ha rivolto a se stesso sulla natura del lavoro postfordista per capire che il
capitalismo aveva fatto un enorme salto in avanti nella capacità di controllare
la forza lavoro; il nuovo soggetto, al quale mancava ancora un nome, non aveva
soprattutto la possibilità immediata di coalizzarsi, di porsi in maniera
negoziale con il datore di lavoro, anzi non sapeva chi fosse il suo datore di
lavoro, se medesimo o una terza persona? Per immaginare un percorso di
liberazione era necessario ricominciare daccapo, mantenendo fermo però il punto
di partenza, quello che tutti ritenevano ormai superato: il problema del
lavoro. Era ancora possibile immaginare un percorso di liberazione partendo dal
lavoro? Era ancora possibile vedere nell’uomo del personal computer un
lavoratore o questa parola “lavoratore”, worker, Arbeiter, travailleur,
trabajador, doveva essere cancellata dal vocabolario, perché appartenente ad un’epoca
ormai tramontata, cioè all’epoca fordista?
L’idea di lavoro nel postfordismo
La forza dell’elaborazione teorica operaista consiste, come si è detto,
nell’affrontare la complessità dei problemi, nell’andare a fondo delle cose,
evitando le semplificazioni, le scorciatoie. L’esempio più illuminante lo si
può vedere osservando come gli operaisti trattavano il concetto di classe
operaia. Per la maggior parte dei militanti politici degli anni 60 e 70 il
termine “classe operaia” era una specie di mantra, una parola magica
onnicomprensiva. Bastava richiamarsi alla classe operaia per essere considerato
una persona appartenente alla “Sinistra”, al movimento operaio, per essere
considerato un comunista. Per gli operaisti invece la classe operaia era un
universo inesplorato, estremamente differenziato e complesso o, meglio, era il
punto di arrivo di un processo lunghissimo, irto di ostacoli, nel corso del
quale la forza lavoro prendeva coscienza del proprio ruolo e della propria
forza e si presentava sulla scena della società come un protagonista, non come
l’appendice del sistema di produzione capitalista. Come ho avuto modo di
scrivere in un mio saggio sull’operaismo, “il lavoro collettivo che la
pattuglia operaista stava conducendo a contatto diretto con il mondo della
produzione di fabbrica cercava di andare a fondo dei diversi piani che
compongono il sistema dei rapporti di produzione: l’organizzazione sequenziale
del ciclo produttivo, i meccanismi gerarchici che esso produce spontaneamente,
le tecniche di disciplinamento e di integrazione che vengono elaborate,
l’evoluzione delle tecnologie e dei sistemi di lavorazione, le reazioni ai
comportamenti spontanei della forza lavoro, le dinamiche interpersonali
all’interno del reparto, i sistemi di comunicazione degli operai durante
l’orario di lavoro, la trasmissione dei saperi dagli operai più anziani a
quelli più giovani, la formazione di una cultura del conflitto, le divisioni
interne alla forza lavoro, l’uso delle pause e dell’orario di mensa, i sistemi
retributivi e la loro applicazione differenziata, la presenza del sindacato e
le forme di propaganda politica, la coscienza del rischio e i metodi per
tutelare la propria integrità fisica e la propria salute, il rapporto con i
militanti esterni, il controllo dei tempi e il rapporto con il cottimo,
l’ambiente di lavoro e via dicendo”.[3] L’uomo con il personal computer, in
quanto lavoratore, cioè persona che cede un determinato prodotto intellettuale
a terzi in cambio di una retribuzione per poter sopravvivere, doveva presentare
la stessa, se non maggiore, complessità. Cominciamo dalle cose più semplici.
Per esempio: quale forma assume la sua retribuzione? La vecchia forma del
salario oppure la forma dell’onorario? Viene pagato a ore o a prestazione
professionale? Ha un orario di lavoro? I parametri fondamentali per definire un
lavoratore sono il salario e l’orario, la sua vita privata, la sua esistenza
personale, la sua quotidianità, i suoi consumi, i suoi rapporti di coppia, il
suo standard di vita sono determinati in tutto o in parte da questi due
parametri. E’ una visione molto materialista, rozzamente materialista, alla
quale l’ideologia della modernità oppone la teoria che ciò che conta
nell’individuo non è la sua condizione materiale ma è la sua personalità, il
suo carattere, se è ottimista o pessimista, socievole o scontroso, seducente o
scostante, portato alla leadership o sottomesso, espansivo o silenzioso,
disinvolto o timido, che ha “carattere” o non ne ha. Ma, a ben vedere, il più
rozzo materialismo è meno ingannevole del soggettivismo esasperato,
dell’individualismo sterile e illusorio, che sono, a ben vedere, dispositivi
ideologici che hanno lo scopo di dissolvere la nozione di “lavoro”. La
concezione moderna di lavoro contenuta nell’ideologia della modernità è che
esso non è più un’attività umana conto terzi in cambio di mezzi di sussistenza
ma attività in cui l’individuo estrinseca la propria personalità, conosce
meglio se stesso, è quasi un incontro mistico. “Il lavoro è un dono di Dio” ho
sentito un giorno dire da un dirigente sindacale cattolico, il lavoro non
rientra nel mondo delle merci ma in quello della psicologia umana. Da questa
ideologia nasce l’idea del lavoro come “dono” dell’individuo alla collettività,
nasce la giustificazione del lavoro gratuito, del lavoro malpagato. Il
principio marxista che considera il lavoro il terreno primordiale sia
dell’antagonismo sociale che della cooperazione tra individui, il terreno sia
del conflitto che della solidarietà, viene completamente cancellato.
White collar e knowledge worker
Che nome diamo all’uomo con il personal computer? Abbiamo accettato il nome
che gli aveva affibbiato l’ideologia dominante, knowledge worker, ci sembrava
utile perché conteneva la parola “worker” e quindi nessuno poteva negare che si
trattasse di una persona la cui essenza viene definita dal lavoro. Abbiamo cominciato
a ragionare su questa definizione. Poteva assomigliare al white collar del
fordismo? La risorsa analitica che potevamo mettere in campo era quella delle
inchieste sui tecnici di produzione apparse sin dai primi numeri di “Classe
Operaia” e poi divenute una costante della teoria e della pratica operaista.
Quanto più complessa diventava la tecnologia, quanto più sofisticate
diventavano le macchine, tanto maggiore era l’importanza della forza lavoro
dotata di conoscenze tecniche. Il capitalismo incorporava dentro i suoi
processi produttivi sempre maggiori contenuti scientifici, la produzione
industriale di massa aveva alle spalle i laboratori di ricerca delle università
e dei reparti specializzati delle aziende. I tecnici potevano essere
rappresentati come una nuova classe, che avrebbe potuto avere uno sviluppo
analogo a quello della classe operaia. Già nella storia del movimento operaio,
durante i movimenti rivoluzionari dei consigli alla fine della prima guerra
mondiale, i brain worker avevano svolto un ruolo positivo ed erano stati
considerati dal comunismo delle origini una componente essenziale della classe
rivoluzionaria. Non è un caso che l’operaismo, durante le rivolte studentesche
del ’68, era più diffuso nella facoltà scientifiche che in quelle umanistiche.
Ma l’uomo con il personal computer non poteva esser definito banalmente un
white collar perché il mondo del lavoro non era costituito soltanto da lavoro
subordinato, da lavoro salariato, bensì da tanti lavoratori indipendenti che
fornivano le loro prestazioni, anche se avevano un solo committente, lavorando
a casa o in spazi di coworking o in un caffé Starbuck. Il white collar
condivideva con gli operai gli spazi dell’azienda, aveva orari di lavoro
simili, era a contatto quotidiano con i problemi della produzione. Ci trovavamo
di fronte ad un mutamento antropologico, non solo a un mutamento sociologico.
Se avessimo dovuto ragionare ancora in termini sociologici avremmo dovuto dire
che la divisione chiara tra classi che il sistema fordista aveva determinato
non era più riconoscibile nella società dell’informazione e quindi i nostri
parametri dovevano cambiare. Restava fermo invece il punto di partenza, cioè la
convinzione che la tecnologia ha un effetto fortissimo sulla vita e la
mentalità del soggetto che usa questa tecnologia per stare nel mondo, per
lavorare, per guadagnarsi da vivere, per comunicare. Il nostro interesse, la
nostra analisi, dovevano concentrarsi sulla figura del knowledge worker e
scandagliare le caratteristiche intrinseche a quella moltitudine che formava la
nuova middle class, un aggregato sociale che ormai non aveva più i valori della
vecchia borghesia, che non era più capace di sfruttare il lavoro altrui perché
ancora non capiva come faceva a non sfruttare se stesso. L’estrazione di
plusvalore ormai si trasferiva sempre più dalla sfera produttiva alla sfera
finanziaria, le enormi disuguaglianze di reddito che sempre più si accumulavano
nelle società capitaliste, l’impoverimento progressivo della middle class, si
spiegavano meglio analizzando le dinamiche finanziarie che quelle della
produzione di massa. Anche su questo terreno l’operaismo poteva mostrare una
sua superiorità, perché, unico tra le componenti dei movimenti di protesta
degli Anni 70, aveva affrontato le problematiche della politica monetaria e dei
grandi flussi finanziari internazionali, soprattutto con il lavoro svolto dalla
redazione della rivista “Primo maggio”.
Il caso italiano
Infine, la ragione forse decisiva per la quale l’operaismo ha avuto gioco
facile nel comprendere la natura del postfordismo è stata la sua origine
italiana. Tra tutti gli stati del capitalismo avanzato l’Italia è stata il
paese che ha portato avanti la disgregazione della grande fabbrica in maniera
più radicale. L’Italia è stata all’avanguardia nel cosiddetto “decentramento
produttivo”, nella frammentazione dell’impresa in tante piccole e minuscole
aziende artigiane. Nel giro di un decennio, dal 1980 al 1990, l’Italia diventa
il paese dei “distretti industriali”, aree specializzate in determinate
produzioni, soprattutto in produzioni a basso valore aggiunto
(tessile-abbigliamento, cuoio e calzature, arredo per la casa), caratterizzate
dalla presenza di piccole e medie imprese. Il sistema del decentramento
produttivo comporta due vantaggi rispetto alla fabbrica fordista: diminuisce i
costi di produzione e riduce il rischio di conflitti industriali. Una parte
delle lavorazioni vengono date in outsourcing, spesso agli stessi operai che
vengono trasformati in artigiani fornitori, il numero dei dipendenti diminuisce
drasticamente e si riduce la massa salariale e l’effetto di rivendicazioni
sindacali. Siamo a metà tra fordismo e postfordismo o, se vogliamo, siamo in
presenza di un postfordismo “dall’alto”. I vantaggi di questo sistema
consentono la formazione anche di grandi imprese multinazionali, come Benetton
e Luxottica. I distretti industriali si diffondono in particolare nelle regioni
a forte controllo sociale, nel Veneto cattolico e nell’Emilia Romagna
comunista. Il Partito Comunista Italiano sposa l’ideologia del decentramento
produttivo come un “capitalismo dal volto umano” sostenibile perché privo di
conflitti, il fine principale di una comunità civile sembra quello, dopo il
decennio di forti conflitti e scontri di classe, della pace sociale. Gli
intellettuali che provengono dall’esperienza operaista colgono immediatamente
questa trasformazione, che viene accentuata e resa più radicale anche dai
movimenti di protesta del ’77, i quali rappresentano con le tematiche della
soggettività, dell’ambiente, del rifiuto del lavoro normato, disciplinato,
irreggimentato, una specie di postfordismo “dal basso”, un desiderio di
liberazione che non teme di contrapporsi alla stessa classe operaia. Sin dalle
prime grandi ristrutturazioni di aziende dell’auto (Innocenti di Milano, anni
1974-75) con l’uso massiccio della Cassa Integrazione, gli operaisti seguono da
vicino queste trasformazioni, l’analisi del decentramento produttivo è uno dei
temi centrali sia di riviste come “Primo Maggio” che di gruppi universitari di
ricerca, in particolare a Milano alla Facoltà di Architettura dove insegna
Alberto Magnaghi.[4] Non sono gli unici, anzi molti
laboratori universitari, nel Veneto, in Emilia Romagna, in Toscana, nel
Mezzogiorno, seguono con interesse la trasformazione del modello fordista, la
differenza sta che nell’analisi dei gruppi che mantengono il retaggio
dell’operaismo il decentramento produttivo viene visto come un attacco
all’unità della classe operaia, come una rivincita del capitalismo dalle
sconfitte dell’”autunno caldo”, mentre gli altri gruppi di ricercatori vedono
nel decentramento produttivo solo una nuova frontiera del capitalismo, con
molti risvolti positivi. E’ il periodo in cui Toni Negri promuove il movimento
di Autonomia e teorizza l’emergere dell’”operaio sociale”. Quindi la percezione
del cambiamento e di un cambiamento epocale è, si può dire, immediata. Il
movimento del ’77 sembra per un momento intravedere uno sbocco libertario del
postfordismo, ma è solo una fiammata, l’anno successivo i gruppi della lotta
armata alzano il tiro e raggiungono l’apice della loro azione con il rapimento
Moro (marzo 1978). Un anno dopo, il 7 aprile 1979, parte l’ondata di arresti di
tutti i militanti del disciolto “Potere Operaio”. Non ci sarà più nessuna “via
libertaria al postfordismo”, il cambiamento di paradigma del capitale porterà
solo ed unicamente il segno della rivincita di classe.
L’operaismo e le nuove generazioni degli Anni 90
Per un decennio la talpa operaista smette di scavare. In realtà “il periodo
d’oro” dell’operaismo si era chiuso già da un pezzo. Per Tronti, Asor Rosa,
Cacciari ed altri si era chiuso già prima del ’68 con il loro ingresso nel PCI,
per Negri ed altri compagni si era chiuso probabilmente con lo scioglimento di
“Potere Operaio”.[5] Non c’è mai stata una discussione
sulla periodizzazione storica dell’operaismo, non ci sono dubbi sulla sua data
di nascita ma non c’è nessun accordo sulla sua data di morte, anche perché una
teoria politica che è anche una metodologia conoscitiva non muore mai finché
c’è qualcuno che ritiene utilizzabili i suoi strumenti analitici e le sue
conseguenze pratiche. Sicché possiamo ben parlare di un “post-operaismo”
intendendo con questo il riaffiorare di un interesse per i suoi paradigmi
presso una nuova generazione di militanti e di ricercatori nati alla fine degli
Anni Sessanta e che all’inizio degli Anni Novanta avevano vent’anni. La rivista
“Primo Maggio” è stata senza dubbio un’iniziativa culturale che esplicitamente
si richiamava all’operaismo, le sue pubblicazioni cessano nell’autunno 1988 con
il numero 29, ma proprio negli ultimi anni, quando a dirigerla erano Cesare
Bermani e Bruno Cartosio, s’erano avvicinati alla redazione alcuni giovani che
in seguito avrebbero avuto un ruolo nella critica al postfordismo e nei
tentativi di organizzare il precariato, il lavoro cognitivo, all’interno dei
centri sociali.[6] Altri si erano buttati a capofitto
nell’informatica e nella cultura digitale contribuendo a creare l’area italiana
del movimento cyberpunk e del movimento hacker, avendo come punto di
riferimento iniziale la Libreria Calusca di Primo Moroni a Milano, che era
stata anche il centro propulsore della distribuzione di “Primo maggio”.
Raffaele “Valvola” Scelsi e Ermanno “Gomma” Guarneri[7] saranno tra i fondatori della
rivista “Decoder” e poi della casa editrice Shake, che ha svolto un ruolo
fondamentale nella diffusione della “civiltà del computer” e della cultura
digitale. Essi, assieme a Rosie Ficocelli, Paola Mezza e Marco Philopat (il
quale fonderà poi una propria casa editrice), appartengono alle nuove
generazioni fortemente influenzate dall’operaismo, che intraprenderanno dei
percorsi politici originali e innovativi. Altri ancora avevano avuto come
maestri e docenti universitari i fondatori dell’operaismo e quindi facevano
tesoro del loro insegnamento, come Devi Sacchetto, allievo di Ferruccio
Gambino, o Emiliana Armano, allieva di Romano Alquati, che oggi è tra le ricercatrici
più attive a livello internazionale sulle tematiche del precariato.[8] Questa nuova generazione, nata e
cresciuta nel postfordismo, si serve per la sua crescita teorica e per le sue
prime produzioni di saggi e di riflessioni della rivista “Altreragioni”, nata
nel 1991 nel clima di tensione politica creato dalla guerra del Golfo, per
iniziativa di alcuni tra i primi collaboratori di “Classe Operaia”, di
“Quaderni Piacentini” e dell’Istituto Ernesto de Martino. Michele Ranchetti,
uno dei più importanti intellettuali italiani del dopoguerra, storico,
saggista, direttore editoriale, pittore, poeta, musicista, Franco Fortini,
poeta, scrittore, critico letterario, già vicino ai “Quaderni Rossi”, Edoarda
Masi, sinologa, bibliotecaria, saggista, collaboratrice di “Quaderni
piacentini” assieme a Sergio Bologna, Ferruccio Gambino, Pier Paolo Poggio,
Lapo Berti, Guido De Masi, Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Primo Moroni,
Giovanna Procacci (tutti nomi che troviamo anche tra i collaboratori di “Primo
Maggio”) ed altri lanciano l’iniziativa della rivista “Altreragioni” alla quale
si avvicinano immediatamente i giovani della nuova generazione che aveva subìto
l’influsso dell’operaismo. Uno di questi è Andrea Fumagalli, che negli anni
successivi, assieme alla compagna Cristina Morini (che apre la discussione
sulla femminilizzazione del lavoro, ndr.), rappresenterà un punto di
riferimento teorico e politico dei movimenti del precariato e del
“cognitariato” (pensiamo all’esperienza di San Precario e della MayDay, ndr.).
Dopo i primi numeri la rivista sarà diretta da Ferruccio Gambino e Giovanna Procacci,
mentre Sergio Bologna, Primo Moroni, Lapo Berti, Christian Marazzi, Pier Paolo
Poggio, Mavì Defilippi, Marco Cabassi ed altri daranno vita ad un’altra
iniziativa che ha avuto una certa importanza nel raccogliere l’eredità
operaista, la “Libera Università di Milano e del suo Hinterland (LUMHI)”. Due i
temi centrali della sua attività culturale: la battaglia contro il revisionismo
storico e la definizione dei soggetti sociali del postfordismo. Dall’attività
della LUMHI nasce in co-edizione Shake-Feltrinelli l’opera collettiva che
rappresenta una svolta nell’analisi di classe post-operaista: “Il lavoro
autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia” a cura di
Sergio Bologna e Andrea Fumagalli.[9] E’ il 1997, vecchia e nuova
generazione hanno trovato qui un terreno comune di dialogo e di produzione
analitica.
Le tesi e le ricerche di alcuni ex militanti dei gruppi operaisti
riguardanti la condizione dell’uomo moderno nel postfordismo e nell’economia
del debito hanno trovato largo riscontro anche sul piano internazionale, è il
caso per esempio di Maurizio Lazzarato, che si era laureato a Padova ed aveva
avuto come insegnanti Toni Negri, Ferruccio Gambino, Ferrari Bravo e Sergio
Bologna. La nuova generazione affronta anche la storia dell’operaismo, comincia
a scriverla a partire dalle testimonianze dei principali protagonisti.[10] Dall’estero, non soltanto
dall’Italia, arrivano altri contributi che, riflettendo sulla storia
dell’operaismo, ne vogliono trarre, come “Storming Heaven” di Steve Wright,[11] un bilancio culturale e politico.
Oggi la fonte principale per i documenti originali dell’operaismo è la collana
“Biblioteca dell’operaismo” della casa editrice Derive&Approdi di Roma,
fondata da un compagno di “Potere Operaio”, Sergio Bianchi.
Uno studio di caso sul passaggio da una società industriale fordista a una
società del terziario avanzato in un quartiere di Milano è stato analizzato nel
documentario di Sabina Bologna “Oltre il ponte. Storie di lavoro.”[12]
Il ruolo della Libreria Calusca di Milano
A questo punto è necessario mettere a fuoco il ruolo molto importante che
ha avuto Primo Moroni e la sua Libreria Calusca nel creare un ponte tra la
cultura operaista e le nuove generazioni.[13] La Libreria, durante gli anni 70 e
80, ha svolto una funzione difficilmente classificabile con i parametri
tradizionali delle organizzazioni culturali. E’ stata un luogo d’incontro, di
convergenza, di dialogo tra tendenze politiche le più diverse, ma con
un’accentuata simpatia per il filone operaista, per i diversi filoni anarchici,
per le tendenze situazioniste e internazionaliste. Tradizioni e tendenze, come
si vede, fortemente diverse tra di loro o anche conflittuali ma che trovavano
accoglienza e rifugio (nei tempi duri) in un luogo che era straordinario perché
eccezionale era la personalità del suo titolare, Primo Moroni, uomo di grande
cultura e di ancora maggiore sensibilità per l’innovazione culturale, pur non
avendo nessuna formazione universitaria. Ex ballerino del varietà, ex
rappresentante librario, figlio di ristoratori toscani immigrati a Milano,
cresciuto in quartieri popolari dove la piccola malavita locale aveva modi e
codici di onore molto diversi da quelli della mafia, dove magari si rubava ai
ricchi per dare ai poveri, ultima propaggine di quella “mala” milanese che agli
inizi del ‘900 popolava i quartieri del Ticinese e viveva in simbiosi nelle
“case di ringhiera” con il proletariato industriale e l’artigianato
tradizionale fortemente influenzati dal socialismo. Ladri, rapinatori,
ricettatori, prostitute indipendenti, scassinatori, falsari vivevano accanto
alla pellicciaia, al tipografo, all’operaio elettromeccanico, al bottaio, al
falegname e formavano un amalgama molto resistente alla mentalità della società
borghese. Erano i componenti di un’unica cultura proletaria che difendeva le
sue prerogative ed ammetteva al suo interno le pratiche di illegalità e di
esproprio. Attorno a questo mondo sono sorti miti e leggende, è nato un vero e
proprio Canzoniere che negli anni 60 e 70 è tornato di moda, soprattutto tra i
movimenti di protesta che esaltavano molte forme di illegalità. Primo Moroni
era capace di dialogare sia con le ultime tracce di questo mondo sia con gli
intellettuali di “Classe Operaia”. Egli riconosceva nell’operaismo il sistema
di pensiero politico più innovativo, ne era affascinato, così come era attratto
dal pensiero situazionista. Quando nel 1973 gli presentammo il nostro progetto
di “Primo maggio” ne colse immediatamente la ricchezza d’idee ed il rigore
scientifico e divenne l’editore e il distributore della rivista. Quando, dopo
il 1971/72, iniziarono le prime azioni di guerriglia urbana e fecero la loro
comparsa le Brigate Rosse e altri gruppi armati, Primo Moroni non esitò a
tenere in libreria e a diffondere le loro pubblicazioni e i loro scritti;
quando le carceri cominciarono a riempirsi di compagni che militavano nei
gruppi extraparlamentari la Libreria di Moroni divenne un punto di riferimento
per l’invio di materiali di lettura nelle carceri. Fu così che la rivista
“Primo Maggio” ebbe una diffusione ampia nelle prigioni (circa 500 copie per
numero venivano inviate in carcere su richiesta dei detenuti). Questa attività
naturalmente portò gli inquirenti e la polizia a considerare “Primo maggio” una
rivista vicina al terrorismo e solo grazie a delle prese di posizione decise di
alcuni membri della redazione, anche nei confronti di Toni Negri, fu possibile
evitare l’identificazione tra la nostra rivista e i gruppi dell’Autonomia o i
gruppi armati. Negli Anni 80 e 90 tutta la controcultura giovanile delle nuove
generazioni che entravano nell’èra digitale faceva riferimento alla Calusca, la
quale nel frattempo era diventata anche una struttura di soccorso ai vecchi
militanti che scontavano molti anni di carcere, soprattutto a quelli privi di
ogni sostegno, senza organizzazioni di riferimento, che avevano perduto tutto,
casa, famiglia, lavoro. Abbiamo visto spesso queste persone, sempre ex operai o
comunque gente di origine proletaria, uscire dal carcere a Milano, magari dopo
vent’anni trascorsi nelle prigioni di alta sicurezza di tutta Italia e, non
sapendo dove rivolgersi per un aiuto, arrivare in Libreria Calusca a chiedere
un prestito per un biglietto del treno, in modo da andare sulla tomba dei
genitori morti nel frattempo in qualche paesino del Sud. In Primo Moroni
trovavano sempre solidarietà proletaria. La sua Libreria dunque metteva insieme
i superstiti della cultura operaista, i giovani dei centri sociali e dei
movimenti cyberpunk, i reduci della lotta armata ma anche moltissime persone di
autentici sentimenti democratici, docenti universitari, professionisti,
insegnanti. La Calusca era una specie di “zona franca” dove persone
diversissime e ambienti che non avevano alcun contatto tra di loro
s’incontravano e si rispettavano. Primo Moroni era un grandissimo affabulatore,
non ha scritto molto ma ha rilasciato molte interviste e testimonianze. Senza
Primo Moroni l’operaismo non avrebbe mai raggiunto le giovani generazioni
dell’èra digitale.
Il post-operaismo e la sindacalizzazione dei self employed
La caratteristica specifica del pensiero dell’operaismo è la sua stretta
aderenza alla realtà, è il suo rapporto costante con l’azione, con la pratica
militante. Gli scritti della tradizione operaista non sono destinati alla mera
lettura o alla mera propaganda, il loro rigore scientifico non è destinato alla
valutazione accademica, il loro messaggio è un messaggio puramente politico,
esso deve produrre azione, mobilitazione, conflitto,
confronto. L’analisi non deve restare pura analisi, non avrebbe alcun senso se
restasse allo stadio di analisi, anche la più sofisticata. L’analisi può essere
anche parziale, insufficiente, ma deve produrre
mobilitazione, deve risvegliare le coscienze, deve mettere
in moto delle dinamiche soggettive che portano le persone a tutelare e
difendere i propri diritti, la propria dignità, sul lavoro, nei rapporti di
lavoro. Le analisi contenute nel volume “Il lavoro autonomo di seconda
generazione” sono state anche duramente criticate dalla sociologia accademica,
con qualche ragione, ma quelle pagine hanno trovato ascolto in coloro che
cominciavano a muoversi per conto proprio per costituire una rappresentanza
sindacale dei self employed. E così doveva essere. Se la critica accademica è
arrivata a definire sprezzantemente le nostre analisi del lavoro autonomo come
“inutilizzabili”[14] a noi non importa gran che, ne
prendiamo atto ma l’importante per noi è che le nostre analisi vengano
comprese, assimilate e condivise da coloro i quali vivono di lavoro autonomo,
da coloro che del lavoro indipendente non salariato fanno dipendere la loro
sopravvivenza. Queste persone hanno saputo utilizzare le nostre analisi ed
hanno smentito in tal modo la critica accademica. Alla fine degli Anni 90 negli
Stati Uniti e agli inizi del nuovo Millennio in Italia si sono costituite delle
associazioni di difesa dei lavoratori indipendenti, dei freelance, i quali
storicamente sia al di qua che al di là dell’Atlantico sono sempre stati
esclusi dal welfare state e dallo stesso diritto del lavoro perché considerati
“imprese”. Poiché queste figure professionali, esplose con l’avvento
dell’informatica, appartengono socialmente alla lower middle class,
l’identificazione con il mondo dell’imprenditoria piuttosto che con il mondo
dei lavoratori è stata un pesante retaggio della loro cultura borghese. Le
organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti non li hanno mai presi in
considerazione, non li hanno considerati come soggetti facenti parte del mondo
del lavoro. Solo in epoca assai recente, negli ultimi due anni, in Italia il
sindacato CGIL, timoroso di vedersi sfuggire di mano una rappresentanza di
questi gruppi sociali che avevano iniziato ad autoorganizzarsi, ha cominciato a
creare dei gruppi di lavoro dedicati ai professionisti ed ai self employed. Il
post operaismo è riuscito quindi a cogliere questa trasformazione del mondo del
lavoro, è riuscito a dare un pensiero collettivo ai self employed, a renderli
consapevoli della loro identità di lavoratori, ha dimostrato l’assurdità di
considerare una persona come un’impresa (the one-man/one woman business),
l’impresa è sempre un’organizzazione complessa di cooperazione tra più persone
con diversi ruoli per la creazione di profitto in cambio dell’erogazione di
salari. Quali sono le principali rivendicazioni dei self employed? In primo
luogo il riconoscimento del loro diritto, come cittadini, a un’assistenza
pubblica in caso di malattia, a sussidi di disoccupazione e ad un trattamento
fiscale pari a quello dei lavoratori dipendenti.[15] L’attività di pressione che le
associazioni di difesa dei diritti dei self employed ha esercitato in Europa
negli ultimi cinque anni ha ottenuto qualche risultato, in particolare la
dichiarazione del parlamento europeo del gennaio 2014 nella quale si afferma
che tutti i cittadini hanno gli stessi diritti indipendentemente dal lavoro che
svolgono.[16]
Molto maggiore ampiezza ha assunto invece la sindacalizzazione dei
freelance negli Stati Uniti grazie a una donna, Sara Horowitz, che negli ultimi
anni del Novecento ha saputo creare la Freelancers Union (FU), che oggi conta
quasi 250 mila iscritti. Grazie al sostegno finanziario di molte Fondazioni
private, la FU ha costituito una Insurance Company che offre ai soci copertura
finanziaria e assistenza in caso di malattia.[17]
In Italia l’associazione che ha recepito le analisi post operaiste è
l’Associazione Consulenti Terziario Avanzato (ACTA), fondata a Milano nel 2003,
purtroppo ancora molto piccola, circa 2000 soci, ma riconosciuta come sister
organization dalla Freelancers Union.[18] ACTA è membro anche dell’European
Forum of Independent Professionals, di cui detiene la Vicepresidenza.[19] Se nella storia del movimento
operaio dei salariati la sindacalizzazione si accompagnava sempre a un’adesione
alle idee socialiste, nella sindacalizzazione dei self employed prevale
l’apoliticità, ma anche perché non esiste più una forza politica di sinistra a
livello europeo. In Italia, per esempio, dove esisteva il più forte Partito
Comunista dell’Occidente, non c’è più traccia di un pensiero sociale
d’ispirazione marxista, se non in movimenti sociali che non sono rappresentati
in Parlamento. Il Partito Democratico, che è in parte l’erede del vecchio
Partito Comunista e che nel corso degli anni ha cambiato nome più volte per
cercare di cancellare le tracce delle sue origini marxiste, è oggi una
formazione politica che sposa interamente le dottrine neoliberali delle lobbies
finanziarie. Essere apolitici non significa non avere idee politiche ma non
riconoscersi nei partiti rappresentati nel Parlamento.
Conclusioni
Il pensiero operaista ha dimostrato di sapersi rinnovare e di saper
interpretare le grandi trasformazioni della società e dei modi di lavorare. Ma
le speranze dell’operaismo, i valori morali, civili e sociali per i quali si
era battuto sono stati brutalmente combattuti ed emarginati, quasi cancellati,
dal pensiero neoliberale dell’epoca postfordista ed in particolare dalle classi
dirigenti italiane di origine cattolica, socialista o liberale. La sistematica
persecuzione dei militanti di “Potere Operaio”, talvolta più ossessiva di
quella rivolta contro i militanti della guerriglia urbana, l’emarginazione del
pensiero operaista dalla scena culturale ed accademica non sono riusciti
tuttavia a impedire che le nuove generazioni riconoscessero in quel pensiero
uno strumento utile di liberazione. Le classi dirigenti che hanno combattuto
con stupido accanimento l’operaismo sono le stesse che hanno trascinato
l’Italia nella condizione miserevole, sia dal punto di vista economico che dal
punto di vista civile, di oggi. Il 40% di disoccupazione giovanile non è forse
l’aspetto più grave della miseria delle nuove generazioni, il precariato di
milioni di persone, i bassi salari, gli stages gratuiti, oltre all’assenza di
tutele, sono altrettanto, se non ancora più gravi. Se finalmente un giorno
questa massa di cittadini umiliati troverà la forza di ribellarsi, il pensiero
operaista e post-operaista tornerà ad avere un’ampia diffusione e forse avrà
ancora lunga vita.
[1] Per coloro che
hanno partecipato alla nascita del pensiero operaista scriverne la storia non è
facile, si rischia sempre d’introdurre delle forzature soggettive; pertanto
questo articolo va interpretato come una testimonianza piuttosto che una
ricostruzione storica; forse per una deformazione professionale ho cercato
altre volte di scrivere la storia dell’operaismo in forma di testimonianza, v.
Sergio Bologna, Workerism: An inside View. From the Mass-Worker to
Self-employed Labour, in “Beyond Marx. Theorising the Global Labour
Relations of the Twenty-First century”, ed. by Marcel van den Linden and Karl
Heinz Roth, in collaboration with Max Henninger, Brill, Leyden-Boston 2014, p.
121-143; il testo italiano è pubblicato in “L’altronovecento. Comunismo eretico
e pensiero critico. Vol. III, Il sistema e i movimenti, Europa 1945-1989”, a
cura di Pier Paolo Poggio, Jaca Book, Milano, 2011, pp. 205-222. L’opera più
completa sulla storia dell’operaismo è “L’operaismo degli Anni Sessanta. Da
‘Quaderni Rossi’ a ‘Classe Operaia’”, a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana,
introduzione di Mario Tronti, Derive&Approdi editore, Roma 2008, in
allegato un CD con tutta la collezione di “Classe Operaia”.
[2] Raniero
Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo,
in “Quaderni Rossi”, n. 1, p. 53 sgg, 1961.
[3] “L’altronovecento”
cit., vol III, pp. 205-206, testo inglese in “Beyond Marx” cit., p. 122.
[4] Queste analisi
sono state pubblicate per la maggior parte sulla rivista “Quaderni del
Territorio”, fondata da Alberto Magnaghi e durata dal 1975 al 1979. Sono appena
usciti in una nuova edizione i quaderni dal carcere che Magnaghi ha scritto tra
il 1979 e il 1982, durante la sua detenzione nelle prigioni di Milano e di
Roma, “Un’idea di libertà”, con prefazione di Alberto Asor Rosa e postfazione
di Rossana Rossanda, Derive&Approdi editore, Roma 2014.
[5] “L’operaismo
italiano degli Anni Sessanta comincia con la nascita dei ‘Quaderni Rossi’ e
finisce con la morte di ‘Classe Operaia’. Punto.” (Mario Tronti in “L’operaismo
italiano” cit., p. 5).
[6] “La rivista
‘Primo Maggio’ (1973-1989)”, a cura di Cesare Bermani, con il DVD di tutti i
numeri della rivista, Derive&Approdi, Roma 2010.
[7] V. il suo
contributo nel numero 22 di “Primo Maggio”, autunno 1984.
[8] Non bisogna
dimenticare i contributi importanti di Luciano Ferrari-Bravo, che ha
partecipato all’attività dei gruppi operaisti sin dalle origini; una parte dei
suoi scritti sono stati pubblicati nel volume “Dal fordismo alla
globalizzazione. Cristalli di tempo politico”, prefazione di Sergio Bologna, Il
Manifesto Libri, 2001.
[9] Il volume è
pubblicato in co-edizione Shake-Feltrinelli nel 1997 a Milano.
[10] “Futuro
anteriore. Dai ‘Quaderni Rossi’ ai movimenti globali. Ricchezze e limiti
dell’operaismo italiano”, a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi
Roggero, Derive&Approdi, Roma 2002.
[11] “Storming
Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism”, Pluto
Press, London 2002.
[12] Derive&Approdi
ha raccontato com’è nato e come si è realizzato questo progetto nell’opuscolo
“Dalla classe operaia alla creative class. Le trasformazioni di un quartiere di
Milano” che contiene anche il DVD con il documentario, della durata di 39’, con
sottotitoli in inglese.
[13] Calusca è il
nome di un vicolo che sbocca sulla piazza Sant’Eustorgio, nel quartiere
Ticinese di Milano, la sua origine deriva dall’espressione dialettale ca’
lusc (case losche, postriboli). La Libreria fu poi spostata qualche
centinaio di metri più avanti, in Corso di Porta Ticinese, e successivamente in
via Conchetta, sul Naviglio Pavese, dove esiste tuttora dentro un centro sociale
(Cox 18). Primo Moroni è morto di cancro nel 1998, un suo profilo è pubblicato
nel volume 77 (2012) del “Dizionario Biografico degli Italiani”
dell’Enciclopedia Treccani.
[14] Vedi in
particolare la recensione di Paolo Barbieri dell’Università di Trento per
l’Istituto Cattaneo, www.cattaneo.org/archivi/biblio/pdf/Bologna-Fumagalli
1997 (Barbieri).pdf. Questa critica è stata rivolta in
particolare alle “Dieci tesi sul lavoro autonomo di seconda generazione” nel
volume a cura di Bologna e Fumagalli, “Il lavoro autonomo ecc.” cit., pp.
13-42.
[15] Un’analisi del
processo di sindacalizzazione dei self employed in Dario Banfi, Sergio Bologna,
“Vita de freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro.”,
Feltrinelli, Milano 2011, in particolare l’ultimo capitolo.
[16] 2013/2111 (INI)
– 14.01.2014 Texte adopté du Parlement Lecture unique
[17] www.freelancersunion.org. Il sito è lo
strumento più efficace di propaganda e informazione sulle attività delle
associazioni dei self employed.
[18] www.actainrete.it.
[19] www.efip.org. Joel Dullroy, un attivista di
EFIP che risiede a Berlino, ha lanciato quest’anno la campagna per un movimento
dei freelance: www.freelancersmovement.org.
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