Rapido bilancio di un lockdown che in India, date le
dimensioni, è stato anche il più grande del mondo. L’impressionante esodo non è
mai finito e chissà quando si concluderà, anche oltre la prevista data di
riapertura, il 17 maggio. Il viaggio della dis/peranza, il ritorno a casa di
centinaia di milioni rimasti senza alcun futuro nelle città dopo l’improvviso
annuncio del confinamento il 24 marzo scorso, è semplicemente continuato, a
piedi, in bicicletta, aggrappati ai camion, infinito serial di emergenze,
finalmente visibili su tutti i canali TV anche per i ceti provvisti di casa in
cui confinarsi. Alle prime scene di moltitudini in fuga, è seguita la chiusura
dei confini tra alcuni stati, e le soluzioni di fortuna gestite da varie
autorità: ricoveri, tendopoli, marciapiedi, distribuzione del rancio con la
faccia del Primo Ministro Modi stampata sopra, o direttamente col mestolo dai
pentoloni, tutti in fila e distanziati. Lockdown quindi più potenzialmente
infettivo che altro, come sarebbe stato ovvio prevedere.
Incredibile ma vero, i primi treni ‘organizzati’
intra-stati, si sono resi disponibili solo il primo di maggio, festa del lavoro
che in India l’anno scorso registrò cortei letteralmente oceanici, e che
quest’anno ha coinciso con la fine di tutto, lavoro compreso, e compreso anche
quello nei campi nonostante sia questo il tempo dei raccolti. Lo scenario
immediatamente successivo sarà di fame, penuria alimentare su tutti i fronti,
classi abbienti comprese. E tra tutti, l’episodio più sconvolgente si è
verificato settimana scorsa lungo una certa linea ferroviaria che collega il
Maharashtra con il Madhya Pradesh: 16 camminanti falciati via nel sonno da un
treno merci. Si erano accasciati esausti sulle rotaie dopo ore di marcia sotto
il sole, contavano di riprendere prima dell’alba e invece non hanno neppure
sentito la sirena del treno che cercava di frenare, in rete le foto di quel che
resta, ciabattine di plastica, sparsi chapati, stracci. In compenso le cifre
del contagio restano basse, 67.700 in tutto, con neanche 2.500 decessi (meno di
quelli registrati in US nella sola giornata del 6 maggio).
Ma in crescita, 4.213 contagi in più solo nelle ultime 24
ore, forse a causa del massiccio rimpatrio che è iniziato anche dall’estero:
decine di aerei addetti a una migranza di rientro ben più presentabile ma più
pericolosa di quella a piedi, considerate le aeree di provenienza, US, UK,
Germania, Italia, il peggio forse deve ancora venire.
Che India sarà quella che si affaccia alla ripresa fra
due giorni? Ne abbiamo parlato con la scrittrice Arundhati Roy, anche lei in
lockdown. Ma per niente confinata né in silenzio.
Lunghe interviste a «Democracy Now», «Intercept»,
«Deutche Welle»; e vari articoli, l’ultimo dei quali questa settimana su
Progressive International, la piattaforma nata dall’alleanza di Diem25 e
Sanders Institute con l’obiettivo di contribuire all’unione delle forze per il
quanto mai necessario e urgente cambiamento. Soprattutto in tempi di limitate
libertà personali e crescente, data per scontata, se non addirittura invocata
sorveglianza.
Partiamo dai numeri, così incredibilmente bassi per 1.4
miliardi di popolazione…
Numeri sicuramente inaffidabili come direi un po’
ovunque, per la diversità dei criteri di calcolo, oltre alla scarsità dei test.
In India per esempio da noi si contano solo i morti in ospedale, e veniamo a
scoprire che solo il 22% delle morti vengono diagnosticate, chissà quanti altri
saranno i decessi per/a causa del Covid, magari per fame, o colpo di sole
mentre erano in marcia.
L’unica cosa certa è che sia il lockdown che il social/physical distancing non possono funzionare in India, se pensiamo alle decine di milioni negli slum. Prendi Dharavi, la più grande baraccopoli dell’Asia, a Mumbai: un milione di persone in 2 km quadrati, un WC ogni 1400 residenti, come sarà possibile un minimo d’igiene, per non dire confinamento, o quarantena? Per cui chissà, probabile che con tutti i virus che ci volano intorno, l’India ha un sistema immunitario all’altezza del Corona. O forse è vero che il caldo riduce la sua carica infettiva, e da fine marzo le temperature qui sono già alte.
Ma la gravità della situazione che si è creata nel corso di questo mese e mezzo, non è solo sanitaria, bensì sul fronte economico, per non dire dei diritti umani, della repressione che si è scatenata approfittando dall’emergenza Covid. E più ancora sul fronte della più odiosa islamofobia, dilagante ormai a macchia d’olio e con toni inquietanti.
L’unica cosa certa è che sia il lockdown che il social/physical distancing non possono funzionare in India, se pensiamo alle decine di milioni negli slum. Prendi Dharavi, la più grande baraccopoli dell’Asia, a Mumbai: un milione di persone in 2 km quadrati, un WC ogni 1400 residenti, come sarà possibile un minimo d’igiene, per non dire confinamento, o quarantena? Per cui chissà, probabile che con tutti i virus che ci volano intorno, l’India ha un sistema immunitario all’altezza del Corona. O forse è vero che il caldo riduce la sua carica infettiva, e da fine marzo le temperature qui sono già alte.
Ma la gravità della situazione che si è creata nel corso di questo mese e mezzo, non è solo sanitaria, bensì sul fronte economico, per non dire dei diritti umani, della repressione che si è scatenata approfittando dall’emergenza Covid. E più ancora sul fronte della più odiosa islamofobia, dilagante ormai a macchia d’olio e con toni inquietanti.
Ha fatto rumore una sua recente intervista al canale
«Deutsche Welle» in cui per l’appunto descrive questa dilagante islamofobia
come qualcosa che potrebbe preludere a un genocidio. Ci aiuta a ricostruire
l’escalation di questa situazione?
Gli episodi di violenza, o veri e proprio massacri
organizzati dalla maggioranza indù contro la minoranza mussulmana in India non
sono una novità, pensiamo al pogrom che è continuato per mesi nel 2002 in
Gujarath, quando Narendra Modi era al Governo di quello Stato e fu senz’altro
complice per il fatto di non aver mosso un dito. Da quando nel 2014 Modi è
diventato Primo Ministro dell’India, è stato un crescendo di linciaggi,
punizioni corporali e (quel che è peggio) campagne di hate speech seguitissime
sui social. L’obiettivo è fomentare il disprezzo contro tutte le minoranze
dell’India, ma soprattutto contro i mussulmani, in nome di un suprematismo indù
che dice di ispirarsi al fascismo del primo Mussolini, ma in realtà è già tutto
inscritto nella millenaria Legge di Manu, che predica su base religiosa la
disuguaglianza castale.
Ma per venire a queste ultime settimane: subito dopo
l’annuncio del lockdown, ecco la notizia di vari casi di contagio in un
quartiere poco distante da dove abito, Nizamuddin, che solo qualche tempo prima
aveva ospitato un convegno importante per il mondo islamico, con numerosi
delegati dall’estero della stessa congregazione, la Tablighi Jamaat, che
l’aveva organizzato. Ed ecco che parte su Twitter l’ashtag #CoronaJihad,
con toni da caccia all’uomo e un’infinità di situazioni odiose, per esempio in
Assam, dove i migranti che premono ai confini con il Bangla Desh vengono
definiti ‘termiti’ persino nei talkshow; o in Jharkhand, dove una donna gravida
viene malmenata mentre sta per entrare in ospedale, finché perde i sensi e
anche il bambino; per non dire degli stessi delegati TJ ancora in visita in
India, braccati come criminali, sottoposti a interrogatori per tracciare gli
eventuali infetti, gettati in pasto all’opinione pubblica come Human Bombs,
agenti di chissà quale complotto… sarebbe infinito l’elenco dei casi,
regolarmente amplificati dai media e subito incendiari sui social. Ma ciò che
mi ha spinto a parlarne in termini di pre-genocidio, è la componente di non
casualità che vedo in tutti questi momenti. Perché non è che un genocidio
succede così, da un giorno all’altro. C’è un processo di predisposizione
emotiva e culturale che lo prepara, che porta alla costruzione del nemico in
quanto appunto portatore di pericolo, malattie. Ed ecco che un’intera comunità
viene demonizzata, ostracizzata psicologicamente ed economicamente, come
confermerebbe chiunque si è trovato a studiare questo tipo di processi. Non è
successa la stessa cosa in Germania, quando cavalcando la paura del tifo o del
colera, il nazismo inaugurò l’ostilità verso gli ebrei come ‘agenti patogeni’?
Eppure, nei mesi precedenti l’annuncio della pandemia, le
città dell’India erano state teatro del più partecipato movimento di proteste
contro la vituperata legge di cittadinanza, così evidentemente discriminante
per la stessa comunità mussulmana, e con il più ampio consenso della
popolazione. Come spiega un così rapido deteriorarsi della situazione?
Infatti! Soprattutto a Delhi erano successe cose
straordinarie tra dicembre e febbraio, in risposta alle incursioni della
polizia nelle università occupate, JNU, Jamia Millia Islamia, l’intera città
solidale con queste istanze di fondamentale cittadinanza. E dopo gli incidenti
più gravi verso metà dicembre, ecco l’inizio di quel bellissimo sit-in sempre
più grande di donne, nel quartiere di Shaheen Bagh, che nel giro di pochi
giorni si sarebbe trasformato nel più vasto e duraturo movimento non violento
nella storia dell’India post-coloniale. E con una partecipazione di collettiva
creatività, reading di poesia, concerti di musica,
laboratori per bambini, di tutto… tra l’altro subito emulato in altre città
dell’India, Kolkata, Mumbai, Bengaluru.
A questo aggiungi i risultati delle amministrative nello
stato di Delhi, che l’8 febbraio riconfermarono il mandato al partito Aam Admi
(Partito dell’uomo qualunque) con schiacciante maggioranza: 62 seggi su 70, una
clamorosa bocciatura per il BJP. Ma ahimè la vendetta non si è fatta attendere:
verso fine febbraio, ecco l’attacco in un’area operaia a maggioranza mussulmana
a nord di Delhi, con squadracce di vigilantes armati fino ai denti mentre le
forze dell’ordine restavano a guardare. Caccia all’uomo per i vicoli, case
incendiate, corpi martoriati lasciati imputridire nei canali di scolo: lo
stesso copione già visto in Gujarath, alle porte della capitale e proprio
mentre in uno stadio nuovo di zecca ad Amdebadh andava in scena la visita di
Trump al suo omologo (in tutti i sensi) indiano, un milione di spettatori a
fargli festa. E tutti i riflettori puntati ovviamente lì: le decine di morti
negli scontri di Delhi, passarono in secondo piano.
E ancor più in Italia, dove in primo piano c’erano i
primi casi di Covid: zona rossa, dibattiti in TV, il propagarsi del virus a
così enorme distanza da Wuhan. Di quel bagno di sangue passato inosservato
nonostante la ferocia, ci accorgemmo solo verso i primi di marzo, con quella
sua lettera subito virale sui social che così concludeva: «questa è la nostra
versione del Coronavirus… e siamo tutti infettati». E anche in India è arrivato
poi il Corona vero…
E da una parte ci ha trovato terribilmente impreparati,
dall’altro è servito ad accelerare quel regolamento di conti sul fronte di
tutte le libertà costituzionali, che era già nell’aria, funzionale tra l’altro
a distrarre l’opinione pubblica dalla pessima gestione della crisi. E così è
successo che le impressionanti scene dell’esodo, delle centinaia di milioni di
poveri che cercavano di tornare a casa dopo essere stati privati di qualsiasi
fonte di reddito – sono diventate un po’ meno impressionanti grazie alla
raffica di arresti e denunce, per intellettuali, attivisti, giornalisti, tutti
sommariamente accusati o indiziati di comportamenti anti-national.
A metà aprile ecco la resa (come se fossero dei
ricercati) di due straordinari intellettuali, Anand Teltumbde e Gautam Navlaka,
entrambi con una mole impressionante di pubblicazioni, interventi, campagne sul
fronte dei diritti umani: il primo in difesa dei dalits, per la
messa al bando di quella vergogna che resta la questione castale; il secondo
già molto attivo anni fa nello sforzo di controinformazione rispetto a
quell’infinita guerra civile tra esercito indiano e naxaliti nelle zone
minerarie del centro India, e non meno attivo più di recente sulla sempre più
grave repressione in Kashmir, in totale lockdown da mesi.
Notare la data di questi arresti: 14 aprile,
l’anniversario della nascita di Ambedkar, che per un’enorme parte dell’India in
resistenza contro uno Stato sempre più dominato da interessi corporativi, è
molto più di una figura simbolica. E quindi: doppio sfregio. Ma in galera hanno
rischiato di finire anche Siddharth Varadarajan, fondatore dell’ottimo
sito The Wire da lui stesso fondato; parecchi giornalisti
non ancora arresi in Kashmir; per non dire dei leader della protesta
studentesca dei mesi scorsi, tra cui una giovane che ho conosciuto, Safoora,
benché incinta. Tutti colpevoli dello stesso crimine: aver osato il dissenso.
L’ultima vittima di questo attivismo repressivo è stato persino il Presidente
della Commissione per i Diritti delle Minoranze, Zafurul Islam Khan. La
settimana scorsa si è trovato in casa una trentina di poliziotti, e solo per
motivi di anzianità l’interrogatorio si è svolto al suo domicilio invece che in
questura. Il suo crimine: aver reso pubblica su Facebook il testo di una
interrogazione alle autorità competenti, in merito appunto agli episodi di cui
sopra – come era nei suoi compiti.
Gli ultimi giorni di questo lockdown indiano sono stati persino
più drammatici degli inizi, con la notizia di incidenti in due diversi impianti
chimici nel sud dell’India, già da tempo nel mirino delle associazioni
ambientaliste; per non dire dei 16 migranti morti nel sonno sotto un treno
merci, in Madhya Pradesh; o delle cronache di scontri tra comuni cittadini e
forze dell’ordine che si sono registrati qua e là. Che India sarà quella che
sta per riaprirsi dopo 56 giorni di lockdown?
È un’India ferita nel profondo, irrimediabilmente
separata nelle sue abissali diseguaglianze, da sempre ignorate benché sotto gli
occhi di tutti, ed ora spettacolarmente evidenti. Il lockdown ha non solo
provocato il blocco di molte attività economiche, ma chissà per quanto tempo
distanziato dai luoghi di lavoro una colossale manovalanza a bassissimi costi,
che sarà difficile recuperare e che al tempo stesso alimenterà la più
disperante disoccupazione ovunque: se già prima del lockdown la situazione era
drammatica, con il tasso peggiore in 40 anni, figuriamoci ora, con un intero sub-continente
in sofferenza, gli stati più poveri che prima vivevano di rimesse dalle città,
che si trovano con un’eccedenza di bocche da sfamare. Lo spettro per tutti è
già quello della fame, pensando ai campi in abbandono, e in questo che sarebbe
tempo di raccolti.
Come per il corpo umano, questo virus sembra aver avuto
l’effetto di accelerare il collasso anche nel corpo sociale. Tutte le malattie
già da prima latenti, sono esplose. Con l’unica consolazione che adesso, questo
mosaico emergenziale è sotto gli occhi di tutti: chi ha avuto il privilegio del
lockdown tra le mura domestiche, non ha potuto fare a meno di vedere la
magnitudine di un disastro che prima gli viveva sì accanto, ma era dato per
scontato, situazione interstiziale, funzionale alla crescita. Cosa potrà
succedere nelle prossime settimane e mesi, dipende da ognuno di noi, non solo
in India: continuare alla cieca sugli stessi tracciati, oppure lavorare al
cambiamento, come ho cercato di dire in quello scritto Il virus come portale
che ho visto molto condiviso. E non meno inquietante, anzi forse di più, è la
rapidità con cui questa situazione emergenziale, sta naturalmente scivolando
verso lo stato di sorveglianza. Uno ‘sviluppo’ annunciato un po’ ovunque, e che
in India sta avvenendo con incredibile velocità. Una certa applicazione
chiamata «Arogya Setu» è già stata scaricata da 60 milioni di utenti, e
dichiarata obbligatoria per i dipendenti del Governo. Se prima del Corona
eravamo alle soglie di tutto questo senza quasi saperlo, ora siamo i primi a
voler essere controllati, con motivazioni precauzionali. Io questo tempo, molto
più del Corona.
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