Prima di tutto una breve precisazione terminologica: la dizione “maturità”,
nel suo senso scolastico, è stata sostituita, e da ben vent’anni, con quella,
ufficiale, di “esame di stato”. O meglio, per essere precisi, “esame di stato
conclusivo del corso di studio di istruzione secondaria superiore”.
Il fatto che tutti noi – insegnanti, studenti, collaboratori scolastici,
dirigenti, ispettori nonché cittadine e cittadini in genere – continuiamo
imperterriti a chiamarla “maturità” è significativo. E di che è significativa
questa inveterata fedeltà a un vecchio nome? Ma del fatto che il mutamento,
come molti altri mutamenti in molti altri ambiti della vita italiana, è solo
nominale. La sostanza rimane sempre quella, come, del resto, nella scuola in
generale. Non cambia mai niente. Le acque profonde sono ferme, stagnanti benché
le superfici conoscano increspamenti continui.
Infatti dal 1999 a oggi la “maturità”-“esame di stato” ha subito un numero
consistente di variazioni. Nelle modalità di svolgimento, nelle attribuzioni
del punteggio, nella composizione delle commissioni.
Una delle poche cose buone, per esempio, risultava la cosiddetta “tesina”.
A me piaceva, tanto per dire. Lo studente sceglieva un tema che gli era
congeniale e lo presentava alla commissione. Era un buon modo per avviare il
colloquio interdisciplinare. Siccome era una buona cosa è stata abolita. Come
spesso accade nel nostro bel paese. Si diceva: eh, ma gli alunni copiano da
internet. E allora? Era pur sempre un esercizio. E poi non era vero che tutti
copiavano. C’era effettivamente anche qualcuno che lo faceva, come sempre è
accaduto e sempre accadrà, nella scuola e altrove.
Persino Franz Kafka barò all’esame. Anzi: tutta la sua classe imbrogliò
l’ignaro insegnante di greco (Gustav Adolf Lindner) nell’anno scolastico
1900-1901. Con un gustoso stratagemma, complice la governante del professore,
che fruttò a Franz e compagni l’acquisizione temporanea del prezioso
quadernetto in cui il docente segnava i testi che avrebbe chiesto agli scolari.
(La faccenda è raccontata nei dettagli da Reiner Stach nel suo Questo è
Kafka?, Adelphi, 2016.)
Alcune innovazioni hanno avuto, per fortuna, vita breve. Come le famigerate
buste dello scorso anno.
Non bastava la bancarizzazione della scuola, con i crediti e i debiti. E
proprio in un momento storico in cui la fiducia nelle banche è ai minimi. Ci
voleva la quizzizzazione! Busta uno, due o tre, signora Longari?
Non mi si rimproverino i neologismi orripilanti. La scuola e i suoi esperti
socio-psico-pedo-didattici ne sono maestri riconosciuti e ne coniano a iosa.
Neologismi e sigle. (Ve li risparmio, non voglio infierire).
Quest’anno la maturità si svolge in una situazione di emergenza.
Niente scritti. Solo un orale, già ribattezzato “maxi-orale”.
Bene, vediamo di che si tratta. Il tempo previsto è un’ora a studente. I
commissari d’esame sono sei, tutti interni. Come ai tempi della ministra
Moratti. Solo il presidente è esterno. Il motivo è chiaro: solo i docenti
interni possono sapere esattamente quello che è stato fatto o non fatto durante
l’anno e durante i mesi dell’emergenza, la quale emergenza, mi pare abbiano
detto gli esperti, non è ancora finita.
Un’ora, ossia dieci minuti a materia; il colloquio è pluridisciplinare,
certo, ma dovrà pure ogni docente dire la sua, intervenire, porre qualche
domanda. Se fosse solo così non avrei nulla da eccepire.
Ma non è così.
L’esame inizierà con la discussione di un elaborato della materia
d’indirizzo. Poi ci sarà la discussione di un testo di italiano affrontato
durante l’anno. (Nelle zone bilingui, come la mia, accanto al testo in
italiano, sarà discusso un testo in tedesco o in francese o in sloveno, a
seconda.) Poi ci sarà la discussione di un argomento multidisciplinare scelto
dalla commissione, che dovrebbe costituire il colloquio vero e proprio. Poi ci
sarà la presentazione dell’esperienza di PCTO, che non è un’onomatopea
rappresentante uno sputacchio o analoga espressione di profondo disgusto, bensì
una sigla (ve l’avevo pur detto delle sigle): Percorsi per le Competenze
Trasversali e l’Orientamento, ossia quello che prima si chiamava “alternanza
scuola-lavoro”, ch’era troppo semplice e comprensibile per rimanere tale.
E poi, dulcis in fundo, ci sarà la parte relativa ai quesiti
sulle attività di “cittadinanza e costituzione”, che, per essere chiari, è la
vecchia, buona, cara “educazione civica” (introdotta parecchi lustri fa da un
ministro che di nome faceva Aldo Moro, nientemeno), rivisitata e corretta.
Tutto ciò mi pare assai irrealistico. Un’ora sola non è affatto
sufficiente. Perché caricarla di tutte queste consegne o compiti che dir si
vogliano? Perché, come ha più volte ribadito la ministra nel corso delle sue
svariate esternazioni, l’esame dev’essere “serio”.
Ora, io non ho nulla contro la nostra buona ministra. Mi piacciono molto i
suoi sgargianti rossetti, segno di traboccante gioventù e pura gioia vitale.
Ma, se potessi farlo, le chiederei: signora ministra Azzolina, è sicura che
l’esame di maturità in sé e per sé, accantonando per un momento l’emergenza, sia
una cosa seria?
I dati dell’ultimo anno scolastico dicono che la percentuale dei promossi è
stata pari al 99,7 per cento.
Ed è comunque da molti anni che i promossi superano il 99 per cento. Io
sono contento di questi dati. Non sono un insegnante che boccia. Non ho la bava
alla bocca quando metto un’insufficienza. Non ne metto quasi mai. Ma, se un
esame non opera un minimo di selezione, che senso ha?
Prendiamo per esempio l’esame per la patente. I dati dicono che passa
approssimativamente la teoria circa il settanta per cento dei candidati e alla
prova pratica l’ottantacinque per cento. Una selezione c’è. L’esame un suo
senso lo ha.
La maturità no. Passano regolarmente tutti. Da anni. Da decenni. In trent’anni
che insegno ho visto un solo respinto. Che poi ha fatto ricorso e l’ha vinto.
Quindi nessuno in trent’anni.
Non sarebbe meglio abolirla, questa maturità?
A me, anno dopo anno, la maturità pare solo un involucro assai elaborato,
un insieme di pacchi, pacchetti e pacchettini, dentro cui non c’è più nulla, o
quasi.
Perché c’è da dire che le procedure formali dell’esame, quelle sì, sono
impegnative, una burocrazia capillare e pervasiva. I presidenti hanno sempre un
corposo volumetto con tutti gli adempimenti del caso cui devono scrupolosamente
attenersi.
Quest’anno, così per citare un esempio, gli insegnanti di italiano devono
allegare telematicamente i testi che hanno affrontato durante l’anno. Non basta
elencarli. No, no, riprodurli proprio. Ma perché? Visto che il commissario è
interno, sono tutti interni; perché devo mandare un testo, che fra l’altro ho
già distribuito durante l’anno agli alunni, a me stesso? Che senso ha? E chi lo
sa?
È, a mio modesto avviso, la maturità in sé a non aver più molto senso. Non
è più da tempo un rito di passaggio. Passaggio a cosa? Transito verso dove? Da
un parcheggio a un altro, forse? Non lo so.
So però che quando fu istituita, da un ministro con l’azione del quale si
può essere o non essere d’accordo, ma che aveva delle idee ben precise al
proposito (non so se al MIUR o negli uffici scolastici provinciali ci sia
qualcuno che ha magari anche solo sfogliato il Sommario di pedagogia
come scienza filosofica del ministro in questione) la maturità un
senso lo possedeva. La prima maturità classica fu superata dal cinquantanove
per cento dei candidati. Il governo fascista corse allora ai ripari. Negli anni
a seguire l’esame fu, more italico, annacquato e edulcorato.
Gentile era avversato dai fascisti stessi e i suoi successori ne smontarono
l’opera, basti anche solo ricordare il ministro Fedele. (Pietro Fedele, non la
Fedeli, la ministra “senza maturità”, nel senso che lei non l’aveva mai
conseguita, altra vicenda esemplare).
Non voglio rievocare poi il provvedimento demagogico della “maturità
provvisoria”, vistosamente ridotta rispetto a prima, introdotta nel 1969
dall’allora ministro Fiorentino Sullo, e che lo fu per trent’anni, provvisoria,
fino, per l’appunto, al 1999.
No, no, non voglio, come d’uso ricondurre tutto al fatidico ’68 e alle sue
colpe, reali o presunte.
Dico solo che accingermi una volta ancora a un rituale sempre più svuotato
ed esangue mi provoca un certo scoramento e mi disanima. Che sia anche perché,
quest’anno, in certe zone si rischia pure la pelle?
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