sabato 4 luglio 2020

Necropolitica - Achille Mbembe




“L’espressione ultima della sovranità consiste, in larga misura, nel potere e nella capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire”, dice all’inizio del breve saggio Achille Mbembe.
Poche pagine dense, con citazioni e riferimenti a filosofi come Foucault, e Frantz Fanon, e alla realtà del mondo, e agli Stati che con più disinvoltura applicano la necropolitica.
Usare quel concetto semplice e crudo come guida per interpretare e capire il mondo, gli stati e la loro politica che “decide chi può vivere e chi deve morire” permette di arrivare all’essenza delle cose, a “come sono veramente le cose”, per dirla con Bertolt Brecht.
Provo a fare degli esempi per interpretare quelle parole ed esemplificare.
A parte gli stati che hanno la pena di morte ci sono tanti modi per applicare la “capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire”
Quando una nave della marina militare (non solo italiana, evidentemente) si allontana velocemente dal luogo nel quale un barcone pieno di esseri umani sta affondando, quella è necropolitica, quando i soldati e le forze dell’ordine (non in guerra, ma con civili disarmati) hanno l’ordine di sparare, poi si coprirà tutto, il necrostato difenderà e renderà onore agli assassini (si pensi alla Palestina, o alla polizia degli Usa), quella è necropolitica, quando i droni armati e assassini lavorano a distanza, nessuno si sporcherà le mani, tranne le  vittime (il pilota è nel suo bell’ufficio, poi passerà a prendere i bambini a scuola), quella è necropolitica, quando gli aerei turchi bombardano i curdi, in Turchia e in Siria, quella è necropolitica, quando i generali egiziani decidono chi deve essere torturato e anche assassinato, per aver sventolato una bandiera, o per aver pensato, o addirittura detto, cose proibite, quella è necropolitica, quando uno stato decide che la sanità si paga e chi non ha soldi, pazienza, è la legge della jungla, quella è necropolitica, quando in Brasile si lascia correre il virus, fra i deboli, e i virus e i garimpeiros fra gli indios, quella è necropolitica, lasciare i migranti in Libia, Turchia, ex-Jugoslavia, quella è necropolitica, quando la Gran Bretagna, serva degli Usa, tiene in galera, e si tortura, Julian Assange, fino a farlo impazzire e metterlo in condizioni di non nuocere, quella è necropolitica, quando in Turchia si imprigionano le persone perché non si ascoltino le loro voci e le loro musiche, e alcuni scelgono lo sciopero della fame fino alla morte, sperando che il mondo, sordo, ascolti il loro grido di dolore, quella è necropolitica.

(E per quanto noi ci crediamo assolti siamo per sempre coinvolti, cantava Fabrizio De André)

Il libro termina con un piccolo saggio Roberto Beneduce che riprende, sostiene ed esemplifica con chiarezza le tesi di Achille Mbembe.



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Il perenne gioco al massacro di «separare l’umanità» - Miguel Mellino
Tra le «geografie della crisi» che l’Europa ci sta riconsegnando da due anni ve n’è una di particolare interesse. Questa geografia della crisi è andata materializzandosi a partire dal suo addensamento in alcuni specifici «punti nodali»: identificare la sua costituzione materiale – gli snodi e i rapporti che ne disegnano un suo particolare contorno – può essere un buon primo passo per aggiornare un discorso postcoloniale sull’Europa di oggi. I contorni di questa geografia ce li danno, come sempre, alcuni nomi: Atene, Lesvos, Calais, Ventimiglia, Lampedusa, Idomeni, Parigi, Bruxelles, Molenbeek, Como, Brennero, ma anche Brexit, Siria, Turchia e Libia.
QUESTA SINGOLARE geografia pone l’Europa di fronte alla sua crisi, ma anche di fronte alle sue guerre. Guerra ai migranti e ai richiedenti asilo; ma anche guerra dichiarata ai «post-migranti» o europei «bi-nazionali» (postcoloniali), ai figli di decenni di una gestione razzista delle proprie popolazioni. Questa geografia della crisi, costruita dal regime di significazione politico-mediatico come «crisi dei rifugiati», ci parla di un’Europa in preda a un «delirio securitario» sempre più «manicheo», per riprendere qui la nota espressione di Fanon.
La furia di alcune immagini e discorsi possono aiutarci ad afferrare l’entità e la qualità mortifera di questo delirio: treni fermi alle frontiere; repressione, caccia violenta e deportazioni di migranti e rifugiati accampati in diverse «giungle» (prima Ventimiglia, più di recente Calais e ora anche Parigi); proliferazione dell’approccio hotspot alle migrazioni; innalzamento di muri lungo i confini; missione militare Eunavfor nel Mediterraneo; accordo con la Turchia per la deportazione di profughi; prolungamento dello stato d’emergenza e richiesta di revoca della nazionalità ai «condannati» per terrorismo (la deriva Hollande); confisca dei beni ai rifugiati (approvata dal parlamento danese); sfruttamento come forza lavoro a basso costo di rifugiati (misura in vigore in Germania e anche in Italia).

È in questo contesto di evidente «decomposizione dell’Europa» che può essere di grande utilità un testo come Necropolitica di Achille Mbembe. Pubblicato di recente da ombre corte (pp. 107, euro 10), e corredato da un suggestivo saggio di Roberto Beneduce, Necropolitica è uno dei più noti scritti di Mbembe. Il testo, interrogandosi sul ritorno delle «politiche di morte» al centro dello scenario politico contemporaneo, ha come punto di partenza una domanda ben precisa: che ruolo hanno avuto razza e razzismo nello sviluppo delle diverse forme di sovranità moderna? Attraverso il concetto di necropolitica Mbembe cerca di rielaborare alcuni aspetti abbozzati dal lavoro di Foucault sul rapporto tra razzismo, modernità, colonialismo e sovranità, ma lasciati in secondo piano sia dalla sua opera complessiva, sia da una buona parte della letteratura foucaultiana. E tuttavia, ci sembrano aspetti fondamentali per comprendere più efficacemente i processi attuali di gerarchizzazione della cittadinanza, ma anche ciò che possiamo chiamare la «condizione postcoloniale europea».
L’ASSUNTO DI PARTENZA di Mbembe è che la modernità è all’origine di diversi tipi di «sovranità», ma soprattutto che la necropolitica – come specifica «tecnologia di governo» – è uno dei prodotti dell’incontro della sovranità moderna occidentale con le popolazioni coloniali; la necropolitica, come dispositivo di produzione della popolazione, è dunque il risultato dell’intreccio tra «sovranità» e «razza». Si può già evincere qui un’importante differenza tra l’approccio di Mbembe e quello, per esempio, di autori come Wendy Brown o Agamben, le cui prospettive non concepiscono alcuna colonialità interna alla sovranità. Mbembe, invece, insiste sul fatto che «vi sono alcune figure della sovranità moderna» il cui fine ultimo non era la creazione di una comunità politica, bensì la strumentalizzazione dell’esistenza umana e la distruzione materiale di certi corpi e di certe popolazioni; e queste figure della sovranità non erano mosse dalla sragione, dalla follia o dal mero istinto, ma dalla stessa logica civilizzatrice occidentale. Le colonie, infatti, non erano soltanto il luogo per antonomasia in cui la sovranità consisteva nell’esercizio del potere al di là della legge, ovvero in cui lo stato d’eccezione è chiaramente la regola, ma erano spazi in cui la violenza dello stato d’eccezione operava al servizio della civiltà.
PER MBEMBE, dunque, il necropotere sta a significare l’esercizio della sovranità negli spazi coloniali, dove una parte della popolazione viene a possedere sempre di più lo status di morti-viventi (gli zombies di Fanon). È così che la necropolitica andrà sempre di più materializzandosi in questi contesti come un sistema di governo incentrato, non tanto sulla produzione di vita, ma sulla produzione di terrore, violenza e morte (fisica, ma anche sociale) presso una parte della popolazione ma in quanto condizione minima dell’intera produttività (biopolitica) sociale. In breve: Mbembe ci chiede di pensare qui la necropolitica come una sorta di «rovescio costitutivo» delle tecnologie liberali (biopolitiche) occidentali di governo. È importante ricordare che per Mbembe la necropolitica, proiettando il discorso della razza sulla società, non produce semplicemente segmentazione, ma finisce per separare l’umanità, ovvero per produrre mondi di «reciproca esclusività». Necropolitica e biopolitica sono quindi alla base della costituzione di società o territori striati e anche duali.
INFINE, LA DIMENSIONE necropolitica del potere tende a iscrivere costantemente i corpi nell’ordinamento di un’economia imperniata sul massacro (guerra, violenza, repressione, incarcerazione sono i suoi principali strumenti). Per questo, conclude Mbembe, a partire dal Gilroy di The Black Atlantic, nei contesti dominati dal «necropotere» – e qui Mbembe ha in mente la piantagione, il ghetto della città coloniale, i campi profughi in molti paesi dell’Africa, il Sudafrica dell’Apartheid, la Palestina di oggi – la morte può essere vista come una liberazione dal terrore, dalla schiavitù e dal razzismo. In breve: il desiderio di morte appare in questi contesti un prodotto diretto delle condizioni di materiali di vita, di sofferenza e di sfruttamento dei soggetti. Fanon ha descritto in modo esauriente gli effetti di cosificazione e di de-soggettivazione (di morte sociale) prodotti dal razzismo.
A noi pare che il ragionamento di Mbembe, con le dovute cautele, possa essere esteso a quanto sta succedendo in alcune zone d’Europa. Inoltre, come si sostiene nel saggio di Roberto Beneduce, è difficile non pensare le necropolitiche contemporanee – da una parte e dall’altra – coma una sorta di nemesi della necropolitiche coloniali europee.

IL RICHIAMO di Mbembe alla dimensione «necropolitica» come rovescio storico della «biopolitica» può essere di fondamentale importanza per correggere (o decolonizzare) un certo tipo di studi «foucaultiani» sulla «governamentalità neoliberale», che tendono a concepire la razionalità alla base di questa tecnologia di governo come esclusivamente incentrata sulla messa al lavoro della vita, ovvero sulla produzione di libertà, di laissez-faire, di sicurezza e di tutte le altre condizioni ottimali al «libero» concatenarsi della concorrenza e dell’auto-imprenditorialità presso ogni popolazione. Il discorso di Mbembe, infatti, non pone l’accento sulla necropolitica come «limite sovrano» della tecnologia di governo biopolitica, bensì sull’intrinseca interdipendenza dei processi (governamentali) «biopolitici» da quelli «necropolitici».
È così che il lavoro di Mbembe ci consente di guardare diversamente anche all’attuale crisi dell’Europa. Da questa prospettiva, i processi di gerarchizzazione della cittadinanza alla base dell’attuale logica neoliberale/ordoliberale di accumulazione appaiono come il prodotto di un duplice dispositivo di governo (biopolitico-necropolitico), in cui la messa al lavoro della vita, la produzione di libertà, di concorrenza, di auto-imprenditorialità e la gestione umanitaria di una parte della popolazione non solo sono intrinsecamente connessi, bensì appaiono del tutto dipendenti dalla segregazione, dal disciplinamento, dallo sfruttamento servile, dall’incarcerazione e dalla morte (fisica e sociale) di un’altra.
FENOMENI COME il securitarismo, il razzismo (istituzionale e poliziesco) la militarizzazione dei territori e dei confini, la deportazione forzata non sono qualcosa di esterno o un mero «limite sovrano» della «governamentalità neoliberale», ma dispositivi al centro stesso di tale tecnologia di governo. Seguendo il ragionamento di Mbembe, dunque, il lato necropolitico dell’Europa non è qualcosa di estraneo alla logica di comando della UE. Più che di crisi dell’Europa sarebbe forse più opportuno parlare di Europa nella crisi. È nella morsa della crisi economica che l’Europa, questa Europa, ci mostra il suo lato (costitutivo) più oscuro.
da qui


La Necropolitica di Achille Mbembe – (1) Chiara Del Corona

Mi è capitato tra le mani il volumetto del filosofo camerunense, Achille MbembeNecropolitica e, sebbene il libro risalga al 2003, penso che la sua riflessione resti ancora molto attuale e interessante.
Mbembe, fondendo la sua riflessione su Arendt, Foucault, Agamben, Bataille, Gilroy sviluppa una sorta “di genealogia dei poteri di morte: figura emblematica della modernità, della razionalità e della nozione di sovranità, che in essi esprime la sua essenza più cupa”( dalla quarta di copertina).
La tesi di fondo di Mbembe, partendo dall’analisi – e dalla documentazione – dello schiavismo coloniale, prima, e neocoloniale dopo, dall’orrore dei campi di sterminio fino ad arrivare ai nuovi tipi di occupazione territoriale (si pensi alla questione dei territori palestinesi occupati militarmente, psicologicamente e, direi, ontologicamente, dato che l’occupazione stessa annulla l’esistenza, l’identità e persino il destino umano degli occupati), fino ad arrivare a una riflessione sugli atti terroristici, è, che non basta la nozione di biopolitica e biopotere per dar conto delle forme di sovranità attuali.
Per il filosofo e docente camerunense l’espressione ultima della sovranità consiste nella capacità di decidere chi può vivere e chi può morire, nel dare la vita o la morte, nel determinare chi sia degno di vita e chi non lo sia: “Esercitare la sovranità significa esercitare il controllo sulla mortalità e definire la vita come il dispiegarsi e il manifestarsi del potere”[1], cosa che si potrebbe anche condensare nella nozione, già citata, di biopotere di Michel Foucault. Ma, Mbembe, pur partendo da questo concetto, si chiede se esso sia in grado di dar conto “delle contemporanee forme attraverso le quali il politico, nei modi della guerra, della resistenza, o della lotta al terrore, fa dell’uccisione del nemico il suo obiettivo fondamentale e assoluto”[2].
Il saggio di Mbembe cerca proprio di dare una risposta a questa domanda così complessa, partendo anche dall’assunto che la guerra, e le sue forme derivate, sia un modo per “realizzare la sovranità come esercizio del diritto di uccidere[3] e, se anche la politica può venire intesa come una forma di guerra, resta da chiederci quale sia il posto che viene dato alla vita, alla morte e al corpo umano, e a come questi vengano inscritti e ascritti nell’, e, all’ordine di potere.  Per rispondere alla questione Mbembe lega la nozione di biopotere a quella di “stato di eccezione”, spesso discusso in relazione al nazismo, ai totalitarismi, ai campi di concentramento e sterminio che forse, più di ogni altra cosa, vengono rappresentati come “una metafora centrale della violenza sovrana e distruttiva e come segno estremo del potere assoluto del negativo”[4]. Anche per Hannah Arendt, citata da Mbembe “non ci sono paralleli con la vita nei campi di concentramento. Il suo orrore non può essere mai del tutto compreso con l’immaginazione per la semplice ragione che essa sta al di là della vita e della morte”[5]. Come direbbe Giorgo Agamben, coloro che vi erano reclusi sono stati ridotti alla nuda vita, cioè “la vita uccidibile e i sacrificabile dell’homo sacer […] Un’oscura figura del diritto romano arcaico, in cui la vita umana è inclusa nell’ordinamento unicamente nella forma della sua esclusione (cioè nella sua assoluta uccidibilità)”[6].
Lo stato di eccezione è infatti indicativo di un paradosso insito alla sovranità stessa che si manifesta come sovrana eccedendo, appunto, lo stesso diritto che impone e che garantisce, di cui è, per usare un gioco di parole, sovrana. Nello stato di eccezione il sovrano si pone all’interno dell’ordinamento giuridico ma per annullarlo, o meglio, per sospenderlo, e dunque ponendosi al di fuori di esso, pur continuando ad appartenergli. Il sovrano, dunque, avendo “il potere legale di sospendere la validità della legge, si pone legalmente fuori legge. Ciò significa che il paradosso si può anche formulare in questo modo: «la legge è fuori di se stessa», ovvero: «io, il sovrano, che sono fuori legge, dichiaro che non c’è un fuori della legge»”[7]Il paradosso emerge in maniera ancor più radicale se riflettiamo sul fatto che, nello stato di eccezione, come scrive Schmitt, l’“autorità dimostra di non aver bisogno del diritto per creare diritto”. Il rapporto con la norma non si annulla, ma anzi, rimane nella forma della sua stessa esclusione, o della sua stessa sospensione: “la norma si applica all’eccezione disapplicandosi, ritirandosi da essa. Lo stato di eccezione non è il caos che precede l’ordine, ma la situazione che risulta dalla sua sospensione.
In questo senso l’eccezione è veramente, secondo l’etimo, presa fuori (ex-capere) e non semplicemente esclusa”[8]. In questo senso, il sovrano, seguendo di nuovo Schmitt e la riflessione Agambeniana, non è colui che si limita a decidere del lecito e dell’illecito, ma colui che decide l’inclusione o la “forclusione” – termine lacaniano e dunque appartenente all’ambito psicoanalitico ma che uso volontariamente perché, a mio avviso, escludere dalla dimensione del diritto significa in qualche modo cancellare, o meglio, ostentare la rimozione di chi in quella dimensione si decide non debba far parte –  nella e dalla sfera del diritto. Il sovrano decide  “l’implicazione originaria del vivente nella sfera del diritto, o, nelle parole di Schmitt, la «strutturazione normale dei rapporti di vita», di cui la legge ha bisogno. […] non perché comanda e prescrive, ma in quanto deve innanzitutto creare l’ambito della propria referenza nella vita reale, normalizzarla[9].
Se lo stato di eccezione è la messa in parentesi del diritto che essa stessa crea, la sovranità riprendendo la lettura che ne dà Mbembe (fondendola appunto su quella di Agamben e Schmitt), si definisce e si autodefinisce come un duplice processo di auto-istituzione e auto-limitazione (limiti che però scompaiono nello stato di eccezione, ovvero, la sovranità decide di fissare come limite l’abolizione – sospensione – del limite stesso). L’espressione ultima della sovranità “è la produzione di norme generali attraverso un corpo (demos) fatto di uomini e donne uguali e liberi. Questi ultimi sono considerati soggetti a pieno titolo, capaci di auto-comprensione, auto-consapevolezza e auto-coscienza.
La politica è pertanto definita secondo un duplice profilo: come un progetto di autonomia e come la realizzazione di un accordo collettivo attraverso la comunicazione e il riconoscimento”[10]. Ma l’interesse del saggio di Mbembe non cade tanto su questa lettura normativa, tardo-moderna, della politica, come linea di confine, spazio di confine tra razionalità e irrazionalità, come spazio, luogo di esercizio della ragione del soggetto nella sfera pubblica, quanto trovare quelle zone franche, quegli “stati di eccezione”, in cui la politica cessa di esercitare il diritto, o meglio, lo esercita annullandolo e mettendolo da parte. Se il Nomos sovrano è la presa della terra, la fissazione di un ordine giuridico (Ordnug) e territoriale (Ortung), va a cercare quegli spazi di “presa del fuori”, di “eccezione” (Ausnahme), quelle zone di indifferenza fra esterno e interno, di non demarcazione tra il caos e la normalità o normatività, quelle spazialità dove il diritto si pone al di fuori di se stesso, auto-imponendosi come annullamento, come sospensione. Blanchot, come nota Agmaben nel già citato Homo Sacer ha parlato di un tentativo, da parte della società, di cattura del fuori (enfermer le de hors).
È così che nasce l’eccezione, attraverso l’inclusione di ciò che sta fuori dal diritto, dall’ordinamento giuridico, dallo status politico, attraverso la creazione di ciò che sta fuori dal diritto senza cessare di appartenere ad esso. In questo senso il nazismo e i campi di concentramento rappresentano l’apoteosi di uno stato di eccezione, una spazialità in cui il diritto è completamente, tragicamente, sospeso, pur rimanendo parte della normatività, del Nomos, dell’esercizio “legale” della sovranità: “il campo [di concentramento] come spazio assoluto d’eccezione, è topologicamente diverso da un semplice spazio di reclusione. Ed è questo spazio d’eccezione, in cui il nesso tra localizzazione e ordinamento è definitivamente spezzato, che ha determinato la crisi del vecchio «nomos della terra»”[11]. Lo Stato nazista rappresenta perfettamente la realizzazione di uno Stato che esercita il diritto di uccidere, sovrapponendo “la gestione, la protezione e la riproduzione della vita al diritto sovrano di uccidere. Attraverso le estrapolazioni biologiche sul tema del nemico politico, organizzando la guerra contro i suoi avversari ed esponendo, nel medesimo tempo, i suoi stessi cittadini ad essa, lo Stato nazista ha aperto la strada a un tremendo consolidarsi del diritto di uccidere, quale è culminato nel progetto della ‘soluzione finale’. Nel far ciò, è diventato l’archetipo di una configurazione del potere che ha combinato le caratteristiche dello Stato razzista, omicida e suicida”[12].  Nello spazio dei campi, il soggetto diviene oggetto e le tecniche di morte si affinano fino a disumanizzarsi, a industrializzarsi: “le camere a gas e i forni crematori sono stati il culmine di un lungo processo di disumanizzazione e industrializzazione della morte, del quale un aspetto originale fu l’integrazione della razionalità amministrativa e produttiva del mondo occidentale moderno […]. Una volta meccanicizzata, l’esecuzione seriale fu trasformata in una procedura rapida, puramente tecnica, impersonale e silenziosa[13].
Del resto la disumanizzazione della morte è ben evidente nelle guerre odierne, in cui si spara su bersagli anonimi, su folle senza nome, senza identificazione, si spara dall’alto, lanciando bombe “intelligenti”, che colpiscono, senza che coloro che uccidono riescano mai, o quasi mai, a vedere i volti e le ferite delle proprie vittime. La guerra sempre più tecnicizzata, diventa una guerra che si auto-assolve nell’incoscienza della morte che crea, che diventa solo una serie di numeri senza faccia né nome.
[continua]
[1] A. Mbembe, Necropolitica, Ombre Corte, Verona 2016, p. 8.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 9.
[5] Ibidem, cit.
[6] G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, p.12.
[7] Ivi, p. 19.
[8] Ivi, p. 22.
[9] Ivi, p. 31.
[10] A. Mbembe, op. cit., p. 10.
[11] G. Agamben, op. cit., p.24, cit.
[12] A. Mbembe, op. cit., p. 18.
[13] Ivi, pp. 19-20.

da qui


La necropolitica di Achille Mbembe – (2) Chiara Del Corona

Ma tornando alle zone di eccezione, di sospensione del diritto, sebbene i campi di sterminio rappresentino l’esempio più drammatico, più orrendo della storia, esistono, e Mbembe li prende in considerazione, altri casi in cui il diritto si auto-sospende, in cui disapplica se stesso, in cui la sovranità si esercita come mero diritto di uccidere.
Si pensi alla schiavitù, che Mbembe considera come la prima forma di sperimentazione biopolitica, in quanto la struttura stessa della piantagione – e poi delle sue successive manifestazioni – può essere vista come una figura dello stato di eccezione. Lo schiavo subisce una triplice espropriazione: della propria casa, del proprio corpo, del proprio status politico. Questa triplice perdita corrisponde all’alienazione totale dalla nascita fino alla propria morte, all’espulsione dallo stato di diritto ma anche dall’umanità stessa (lo schiavo perde la propria soggettività, il proprio statuto ontologico ancor prima che politico), alla dominazione assoluta, sociale, politica, economica e corporea. Il corpo dello schiavo appartiene de facto et de jure al corpo del padrone. Nelle piantagioni non vale più alcun ordinamento giuridico, la sovranità esercitata dal padrone si afferma come piena disposizione della vita – e dunque della morte, o della possibilità della morte – dello schiavo, ridotto a strumento, oggetto, nelle mani del sovrano.
Il valore dello schiavo è mercificabile, così come lo è il suo corpo, perché esiste solo in quanto strumento di lavoro, merce sfruttabile e scambiabile. Come scrive Susan Buck-Morss “la vita dello schiavo è posseduta dal padrone”[1]. Secondo Mbembe, nei sistemi coloniali, nella forma dello schiavismo, si condensa emblematicamente il trinomio tra biopotere, stato di eccezione e stato di assedio, sottolineando come la figura centrale sia, ancora una volta, il concetto di razza. La colonia rappresenta perciò il luogo in cui la sovranità si esercita, si dispiega e si manifesta come pratica di potere al di fuori della legge, o meglio, di un potere che eccede la legge pur includendola.
Per giustificare questa tesi Mbembe fa appello alla nascita dello Jus publicum Europeo alla cui base rientravano in primo luogo l’eguaglianza giuridica fra tutti gli stati con un diritto di fare la guerra civilizzando i modi di uccidere e trovando obiettivi razionali per farlo e la costruzione di frontiere nel contesto dell’ordine globale. Da questo disegno derivò una netta demarcazione tra quelle parti del globo considerate disponibili per l’appropriazione dei vari stati, e, dall’altra, la stessa Europa, in cui si applicava lo Jus publicum.
Le colonie erano allora quelle zone di frontiera in cui tutto poteva essere permesso, legittimato, giustificato; erano “zone in cui la guerra e il disordine, le figure interne ed esterne della dimensione politica, erano contigue o si alternavano tra di loro. Erano il luogo per eccellenza dove i controlli e le garanzie dell’ordine giuridico potevano essere sospesi: il luogo dove la violenza dello ‘stato di eccezione’ era ritenuta qualcosa che operava al servizio della civilizzazione. Le colonie potevano essere dominate attraverso spazi di assoluta assenza di legge, a partire dalla negazione di ogni tipo di legame razziale tra il conquistatore e il nativo”.

Agli occhi dell’occupante l’indigeno non era che una forma di vita nuda, una forma di vita animale, addirittura qualcosa di altro dall’essere umano, di alieno, di orrendamente incomprensibile, come se a coloro che venivano chiamati “selvaggi” mancasse proprio un riconoscimento di umanità, un carattere specificamente umano. Per questo motivo la guerra coloniale si affermava come una guerra che non era soggetta a nessuna regolamentazione, a nessun codice, nessun ordinamento giuridico, tanto che non si può nemmeno parlare di guerra, ma di massacro. Si è trattato di massacro incondizionato e non regolamentato. Le “guerre” coloniali venivano percepite come “l’ostilità assoluta del conquistatore contro un nemico assoluto. Tutte le manifestazioni di guerra e ostilità che erano lasciate ai margini dell’immaginario legale europeo, trovarono nelle colonie lo spazio ideale per riemergere. Nelle colonie la distinzione fittizia tra i ‘fini della guerra’ e i ‘mezzi della guerra’ crollò. Accanto a questa idea collassò la finzione che la guerra potesse funzionare come un contesto retto da leggi e regole, e che l’opposto fosse la carneficina, dalla quale è assente il rischio e per la quale non esiste una giustificazione strumentale”[2].
La colonia si affermò anche come uno spazio in cui si svilupparono nuove configurazioni, nuove pratiche di territorializzazione: si trattava di misurare, delimitare e imporre il controllo su una nuova area geografica e al contempo di inscrivervi un nuovo ordine di relazioni sociali e spaziali. La pratica territorializzante equivaleva, e, come vedremo, equivale ancora oggi, alla creazione di “frontiere, gerarchie, zone ed enclave; al sovvertimento dei sistemi di proprietà preesistenti; alla classificazione delle persone in categorie differenziate; allo sfruttamento delle risorse estrattive, e, alla creazione di un ampio serbatoio di immaginari culturali[3] che fornirono un contenuto all’esercizio della sovranità. La sovranità si trascinava dietro con sé la violenza dell’occupazione e questa andava a delineare una zona in cui il discrimine tra la condizione di soggetto e quella di oggetto andava a sfumare, fino a dissolversi. Il discrimine tra la condizione di chi è eliminabile e quella di chi non lo è, alla costruzione del colonizzato, dell’occupato come homo sacer, per dirla di nuovo con Agamben.
Le modalità di occupazione della tarda modernità sono diverse da quelle della prima modernità, in particolare per la loro capacità di coniugare, in maniera sempre più evidente, potere disciplinare, biopolitica e politiche di morte. Secondo Mbembe il più emblematico e compiuto esempio contemporaneo di potere di morte è l’occupazione palestinese. Seguendo Fanon e la sua lettura dell’occupazione coloniale nel regime dell’apartheid in Sud Africa[4], Mbembe afferma che “l’occupazione tardo-moderna della striscia di Gaza e della West Bank presenta delle caratteristiche importanti per quanto riguarda la costruzione di una specifica ‘formazione di terrore’ – ‘potere di morte’ (necropower). Si tratta delle dinamiche della frammentazione territoriale, la chiusura e l’espansione degli insediamenti. L’obiettivo […] è da un lato, di rendere impossibile ogni spostamento, e dall’altro, di implementare una separazione secondo il modello dell’apartheid”[5].
Si tratta di un’ occupazione frammentata, frantumata e, come sottolinea Eyal Weizman, la segmentazione e la frantumazione dell’occupazione ridefiniscono la stessa spazialità e il rapporto tra questa e la sovranità: la divisione del territorio in parti e sottoparti che si estendono in tutte le direzioni, dall’alto verso il basso, attraverso frontiere tridimensionali, passaggi e sottopassaggi, che tagliano il volume dell’area occupata da una parte all’altra, produce quella che Weizman chiama “politica della verticalità” da cui deriva pertanto una forma di “sovranità verticale”. In questo nuovo tipo di sovranità, il controllo degli occupanti si allarga topograficamente in ogni direzione, estendendosi sia verso l’interno della zona occupata che verso l’esterno. Si tratta di un controllo totale, militare e disciplinare, una vigilanza sistematica e costante. Si tratta di un permanente “stato di assedio”.
Questo infatti permette “l’esercizio del ‘diritto di uccidere’ senza tracciare una differenza fra il nemico interno o esterno. Il mirino della sovranità è puntato su intere popolazioni. I villaggi assediati sono isolati e tagliati fuori dal mondo. La vita quotidiana è militarizzata. Ai comandanti locali è data la facoltà di decidere a loro discrezione a chi sparare e quando sparare. I movimenti fra le cellule disperse del territorio richiedono dei permessi formali. Le istituzioni civili locali vengono sistematicamente distrutte. La popolazione sotto assedio è privata dei mezzi di sostentamento. Le uccisioni invisibili si aggiungono alle esecuzioni extragiudiziarie”[6]. Vivere sotto un regime coloniale della tarda modernità significa sperimentare una condizione di disciplinamento invasivo della propria esistenza e soprattutto di terrore per la propria esistenza, costantemente posta sotto minaccia, sotto controllo.
La morte si accompagna dunque, inscindibilmente alle pratiche del biopotere, la possibilità di essere eliminabile come di non esserlo è sistematicamente presente nella condizione dell’occupato. La sovranità dell’occupante che grava su di lui lo pone in un limbo di inconsapevolezza sul proprio destino. Nel regime coloniale la sovranità esercita il diritto di decretare morte all’interno di qualcosa che viene sancito come diritto stesso. In una simile condizione, secondo Gilroy, citato da Mbembe, la morte assurgerebbe quasi a una forma di liberazione dal terrore stesso della propria morte.
In uno stato di annullamento totale della propria libertà, della propria agency, la morte rappresenterebbe, più che una liberazione, addirittura una forma di libertà, un’affermazione della propria capacità di agire, contro la negazione della propria libertà e contro il disciplinamento della propria esistenza, contro il terrore che si lega all’esercizio della sovranità: “se la mancanza di libertà è l’essenza del significato dell’esistenza per lo schiavo e il colonizzato, è attraverso questa stessa mancanza che lo schiavo conferisce valore alla propria mortalità. Riflettendo sulla pratica del suicidio individuale o collettivo degli schiavi messi al muro dai loro inseguitori, Gilroy suggerisce che la morte in questo caso può essere rappresentata come agency. La morte è qualcosa sulla quale io ho un potere, ma essa è anche lo spazio dove operano la libertà e la negazione”[7].

Pur non potendo addentrarsi in tutta l’analisi di Mbembe (ad esempio il filosofo prende in considerazione anche il suicidio-omicidio degli attentatori, o le guerre nell’era della globalizzazione), è interessante notare come la nozione di biopolitica di matrice foucaultiana trovi i suoi legami con lo stato di eccezione, lo stato di assedio, con un potere che è quello di decidere della vita o della morte. Secondo Mbembe la definizione stessa di biopolitica è insufficiente a render conto delle contemporanee forme di necropolitica che assoggettano la vita e la morte, o costruiscono morte nella vita. Si tratta di modi nuovi, raffinati, massimizzati di produrre morte, forme che sembrano quasi anonime e invisibili di distruzione delle vite umane, in cui “le armi vengono impiegate per produrre la massima distruzione delle persone e di creare dei mondi di morte, forme nuove e uniche di esistenza sociale, nelle quali popolazioni intere sono assoggettate a condizioni di vita che equivalgono a collocarle in una condizione di ‘morte in vita’”[8].
  1. Buck-Morss, Spettri di Haiti. Dal colonialismo francese all’imperialismo americano, Ombre Corte, Verona 2002. 
  2. Ivi, pp. 31-32. 
  3. Ivi, p. 33. 
  4. Secondo Fanon l’occupazione coloniale implica prima di tutto una suddivisione dello spazio in scomparti che a sua volta comporta la produzione di linee di confine e di frontiere interne. Lo spazio è controllato attraverso un discorso di mera forza, di intervento costante, di violenza, di presenza fissa. 
  5. Mbembe, op. cit., p. 36. 
  6. Ivi, p. 40. 
  7. Ivi, p. 57. 
  8. Ivi, p. 58.  
da qui


Migranti e necropolitica - Flore Murard-Yovanovitch 

Non ha nome, è lì tra i vecchi binari, i vecchi magazzini. In un altro mondo, un mondo accanto al mondo, rifugiati si riscaldano bruciando vecchie traversine dei binari, nell’ex stazione ferroviaria di Belgrado. A ridosso del scintillante Waterfront, un mostro immobiliare di lusso che tra poco cancellerà la jungle già nascosta da immensi cartelloni immobiliari di famiglie sorridenti con vista sul Danubio. Flash delle contraddizioni del capitale. Dietro, 2.000 esseri profughi organizzano turni per riscaldare un po’ di acqua calda e rimanere puliti dignitosi. Di notte temperature a meno 20 gradi. E mi chiedo che tipo di vitalità ci vuole per sopravvivere a meno 20… La forza del movimento libero forse?
Un odore acre che permea tutto e si attacca nel fondo dei polmoni. Tutti tossiscono, polmoniti forse pneumonie, ipotermie in corso. Nel grigio del fumo, come un archivio vivente, assalgono le immagini dell’archivio storico, quello storico, quello dell’apertura dei campi, il disastro della Seconda guerra mondiale. Germania anno zero, Europa anno zero, Europa 2017.

Un’umanità ridotta ai bracieri.
Coperte grigie sulle spalle, dalle coperte tutte uguali si riconoscono. Tremanti. Uomini rigettati nell’oscurità, fuori dal corpo sociale.
“Ebbene, storia, la contro-storia che nasce con il racconto della lotta delle razze, parlerà proprio della parte dell’ombra, a partire da quest’ombra. Sarà il discorso di quelli che non possiedono la gloria, o di quelli che l’hanno perduta, e si trovano ora - per un certo tempo forse, ma sicuramente a lungo - nell’oscurità e nel silenzio. Tutto questo farà sì che [… ] il nuovo discorso sarà una presa di parola che irrompe, un appello: “ (…). Noi usciamo dall’ombra. Non avevamo diritti e non avevamo gloria, ma proprio per questo prendiamo la parola e cominciamo a raccontare la nostra storia”. Questa presa di parola accomuna il tipo di discorso emergente [… ] a una sorta di rottura profetica.”
Michel Foucault, “Bisogna difendere la società” (1976)
Attraverso il fumo denso opaco, scorgo occhi verdi di speranza, quelli degli altipiani dell’Hindu Kush. Accanto alle pozzanghere gelate, contrastano come foto-shock mute, le infradito, le crocks, i piedi nudi gelati nelle scarpe da tennis sfondate e senza più suola, piedi nudi, alcuni persino in ciabatte d’albergo. Tutti hanno camminato mesi, per ritrovarsi nel limbo della jungle di Belgrado, tra le frontiere dell’Europa chiusa. Rotta balcanica (ufficialmente) chiusa, anche se continuano ad arrivare. L’altro giorno uno di loro è stato portato in ospedale per un mezzo congelamento di un piede. Uno a nord sul confine con l’Ungheria è morto di ipotermia.
Ad accendere i fuochi, scorgo bambini, alcuni non hanno più di dieci anni. I bimbi in questa storia, rappresentano la metà dei circa 8.500 rifugiati in Serbia, afghani pachistani, iracheni e siriani - tutti provenienti da zone di guerra. Quelli che sono fuori dei campi, a Belgrado, trovano rifugio nel più grande grande squat dell’Europa centrale, un’altra jungle, come Calais e Ventimiglia. Appena entrata, uno sviene a terra, scosso da forti tremori, si teme un’ipotermia in corso. Loro rifiutano di farsi registrare dalle autorità, per paura di venir rinchiusi nei 15 campi in Serbia o deportati, pushed-back, come accade ogni giorno, verso i confini macedoni o bulgari. E poi parte la catena del refoulement (respingimento, NdR) Serbia, Macedonia, ecc… Condizioni igieniche mostruose, gravide di una catastrofe umanitaria, come avverte da mesi Msf, che con una clinica mobile nel parco avverte e cura un’epidemia di malattie della pelle per ora contenuta. Un unico piatto caldo al giorno, distribuito da volontari, senza nomi, quelli che sono già intervenuti dal 2015 in Grecia, a Idomeni e sulla rotta balcanica (Hotfood Idomeni per le donazioni).
Perché il governo serbo, per paura del cosiddetto presunto “appello d’aria”, ha pubblicato una lettera pubblica per vietare alle Ong internazionali di distribuire cibo e vestiti a Belgrado ai migranti non registrati nei campi e che dormono all’adiaccio. L’inverno più duro alle porte, temperature notturne a meno 20. Deterrenza contemporanea. Si smaschera allora…. il progetto è di farli soffrire nella carne e nello spirito? Impazzire… E qual è il limite? Quando decine cadranno di polmonite, ipotermia, assideramento? Quando si molteplicheranno i casi di morti di gelo, le amputazioni (già tre casi l’inverno scorso), quando gli arti saranno rotti come le menti, di quest’umanità ridotta alla diversità? Nascondersi sempre, vivere negli anfratti, nelle fratture del capitalismo denunciandone con la propria esistenza, il volto mostruoso. Alzarsi ancora. Rifugiati a ridosso del Waterfront come una beffa, una denuncia di corpi viventi, sotto la neve.
Sadismo o piuttosto necropolitica migratoria? A che punto allora si muoverà la comunità internazionale? Quando la soglia diventa “soglia critica”? Le domande sorgono, qui nel cuore dell’Europa, nel vecchio impero Ottomano, ora attraversato e violento, e riecheggiano le parole di Achille Mbembe in Necropolitica:
«La sovranità in questi luoghi equivale alla capacità di definire chi conta e chi non conta, chi è eliminabile e chi non lo è».
«Creare dei mondi di morte, forme nuove e uniche di esistenza sociale, nelle quali popolazioni intere sono assoggettate a condizioni di vita che equivalgono a collocarle in condizione di “morti in vita”».
Achille Mbembe, Necropolitica, ombre corte 2016 (Necropolitics, 2003).
«Morti in vita», riflessione.

Deportazioni

Questi rifugiati respinti, che nessuno vuole, a parte i siriani di prima classe e nemmeno più loro dopo l’Accordo con la Turchia che permette di respingere interi nuclei familiari sopravvissuti alle bombe, indietro, persino verso la Siria. Quei respinti, che vivono tra i rifiuti, chi li rappresenta? Respinti tra Stati, come in un ping pong, dalle violentissime e xenofobe polizie ungherese e croata a colpi di pestaggi, pepper spray negli occhi, deportazioni e cani sguinzagliati. Addosso. Persino spari da arma da fuoco, in Croazia, secondo alcune testimonianze. Riportati in Serbia, finiscono per ritornare allo squat di Belgrado e riprovarci. Perché la Serbia, punto nodale tra gli Stati europei balcanici, è diventata una trappola dopo la chiusura della rotta balcanica, una specie di “discarica” per i non wanted refugees, pachistani, afghani per la maggioranza. In tutto circa 10.000 in tutto il paese, da statistiche non ufficiali (l’Unhcr li stima a 7.000) e nonostante la chiusura, continuano ad arrivare, 50 a giorno, tanti minori non accompagnati. La metà dei profughi in Serbia sono bimbi. Tutti hanno provato il border crossing almeno 3 volte, alcuni persino ventina di volte. Venti volte respinti.

La pelle archivio

Sulla pelle, i segni: ferite da manganelli, dissuasori elettrici, morsi da cane, maltrattamenti, umiliazioni, alcuni fatti saltare dai vagoni, le porte dei container rinchiuse sulle sulle caviglie strappate, piedi rotti, uomini con stampelle, a Kelebija, Subotica, Shid, Preševo. Come in un archivio vivente, la violenza della frontiera sui corpi. La sovranità, barbarie-Europa stampata a vita, sulla pelle.
«Le tracce di queste chirurgie demiurgiche persistono a lungo nella forma di figure umane che di certo sono vive, ma la cui integrità fisica è stata sostituita da pezzi, frammenti, pieghe e ferite immense che difficilmente si rinchiuderanno. La funzione di questi pezzi è mantenere davanti agli occhi della vittima, e chi sta intorno a lui o a lei, lo spettacolo morboso dell’amputare.» Achille Mbembe
Non voler vedere che è in corso un’eliminazione. Europa-negazione.
Nella tende del Community center gestiti da volontari internazionali, a Kelebija, entry point in Ungheria, una cinquantina di algerini fa a gara per mostrarmi le ferite di questa violenza di frontiera. Mentre ricaricano le batterie, cellulare bussola. Questa ferita è dovuta ai pestaggi della polizia ungherese, dall’altra parte della recinzione, questa sulla caviglia, a Shid, qua un cane mi ha attaccato, qua ho il segno del morso, a Preševo, qua in Ungheria, dall’altra parte del confine, ci hanno arrestati, e chiesto di camminare verso la Serbia, in piena notte. La prassi è anche di confiscare i cellulari, impunità che si diffonde come una macchia. Polizia di guanti neri. A Subotica una pattuglia ci ha fatto scendere di forza dai treni, il mio piede si è rotto nella porta del container. Qualcuno cammina con le stampelle, qualcuno è esaurito, un altro sta impazzendo. Mesi nei boschi, in capanne di foglie ad aspettare un varco o un smuggler. Con il rumore di un’improbabile apertura dei confini, la speranza non cessa mai, anche nei posti disperati, sorrisi immensi totali. Intanto all’altezza del duty free, uomini obbligati a rintannarsi nei boschi, mentre i tir di merci passanno, liberi. Uomini rintanati nei boschi.

Un’umanità ridotta ai boschi. Europa 2017

E poi c’è la lunga scia invisibile di deportazioni illegali, persino di richiedenti asilo registrati ai confini, i numeri sono registrati nei rapporti dell’Unhcr. 51, 150, 109. Unchr denuncia pure il netto incremento delle deportazioni illegali di migranti che cercano di raggiungere l’Europa passati per la Rotta Balcanica. «Circa 1.000 persone dal Medioriente, Asia e Africa sono stati espulsi nel solo mese di Novembre sulla rotta balcanica… di più dei mesi precedenti», dichiara la portavoce dell’Unhcr in Serbia, Mirjana Milenkovska. Fino al caso emblematico del 17 dicembre, dove un’intera famiglia curdo-siriana, registrata a Belgrado dalle autorità e in corso di trasferimento al campo di Boseligradj, centro-sud, viene fatta scendere dal bus, portata in un furgone delle forze speciali e abandonnata, due donne e un bimbo di due anni, in pieno nulla, nei boschi sul confine bulgaro, e consigliata di camminare verso la Bulgaria a meno 11 gradi. Grazie agli attivisti di Info-Park, sono scampati all’ipotermia. E quanti casi di deportazioni e scomparse nei freddi boschi dei confini balcanici? Non lo sapremo probabilmente mai. Barbarie-Europa avanza. Eliminabili.
E mi chiedo allora se basterà quel reportage, quelle prove, quella denuncia, l’ennesima. Mi chiedo se basteranno i loro occhi, le loro parole, le loro ferite, non vittime ma eroi, è la rivoluzione che avanza e la sua punta avanzata, è qua. E mi chiedo il senso di questo pezzo, se la narrazione non dovrebbe semplicemente riassumersi in un unica parola, il disumano.
A qualche centinaia da noi, sulle frontiere, sono in corso
Rastrellamenti, ratonnade, deportazioni in mezzo alle notti, pestaggi infiniti. Cadono dai treni, muoiono di gelo, congelati, assiderati nei boschi sui confini, costretti a camminare di notte in nuove marce forzate, uno è stato gettato in un lago ghiacciato, sui petti, vedo i morsi dei cani. Non ricorda nulla a nessuno… Se non è una lenta politica di eliminazione, questa, uomini-rifiuti, respinti, eliminabili. Necropolitica migratoria.

Migranti morti di gelo

Dal mio ritorno, e mentre chiudo quest’articolo a casa al caldo, giungono le notizie di morti annunciate sul confine bulgaro-turco, nei pressi del monte Strandzha, perché è l’unico carico a non aver recinti, passaggio del confine nella neve (30cm): nella sola prima settimana di gennaio 2017 sono morti di assideramento, 4 persone, migranti e solo nelle ultime 24 ore ci sono stati sette casi di congelamento a Belgrado.
Due giovani uomini iracheni, di 28 e 35 anni, ritrovati nei pressi del paese di Izvor, regione di Burgas, Sud-Est Bulgaria, 6 gennaio 2017.
Nella stessa zona, una donna somala è stata rirovata il 2 gennaio 2017 nei pressi di Ravadinovo. I compagni di viaggio, raccontano che sono stati costretti ad abbandonarla, perché non aveva più la forza di camminare.
Un altro afghano è morto di ipotermia, dopo aver traversato a nuoto il fiume Evros, a Nord della Grecia, ritrovato nei pressi di Didymoteicho, il 3 gennaio 2017.
E già il 26 dicembre un irachene richiedente asilo era stato costretto dai trafficanti ad abbandonare la propria sorella sul confine bulgaro, perché troppa stremata per camminare.
Mi sorprendo a scrivere queste cose come se fossero normali. “Lasciata indietro tra i boschi perché stremata, nel gelo, morta di gelo”. A 2000 km da casa nostra. Un orrore, un Novecento di ritorno.
Eliminazione. Racconti da Seconda guerra mondiale, di marce forzate, di morte per stenti, di esaurimento e di gelo. Non Siberia 1917, non Germania anno zero, Europa 2017. Barbarie-Europa.
Belgrade-Kelebija-Roma, 11 gennaio 2017
da qui

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