Durante i mesi del confinamento, in pieno choc
esistenziale e collettivo da Coronavirus, si è pensato, parlato, scritto
moltissimo su come sarebbe stato il “dopo”, sulla lezione impartita dal pianeta
Terra alla specie umana, sull’urgenza di cambiare rotta al fine di
prevenire future emergenze sanitarie, sul nesso fra la pandemia e
l’incontrollato consumo di risorse naturali. Niente dev’essere più come prima,
si diceva; non possiamo tornare
alla normalità, perché la normalità è il problema. Il tutto, ovviamente,
nella cornice di una crisi profonda, forse finale, della civiltà industriale,
alle prese con un collasso climatico spaventoso e
pressoché sfuggito a ogni controllo.
Ebbene, nel nostro piccolo paese, un paese che però si vanta ogni giorno
dei suoi meriti nelle arti, nel pensiero, nella cultura attraverso i
secoli, il “dopo” sembra essere un
insieme di provvedimenti governativi detti di “semplificazione”. Si tratta, in
buona sostanza, di vecchi, alle volte vecchissimi progetti “infrastrutturali”,
concepiti in una logica “sviluppista” da anni Sessanta e Settanta: nuove
strade, nuove autostrade, nuove grandi opere per lo più inutili (in
testa, addirittura, la vetusta Tav
Lione-Torino, ormai indifendibile sul piano tecnico-progettuale). In
controluce, si intravede un progetto di società cristallizzato in quel mondo
malato, letteralmente asfissiato dalle emissioni nocive, che è all’origine
della pandemia.
Quest’idea così arretrata, così mortifera di sviluppo – uno sviluppo
slegato da qualsiasi idea di bene pubblico e di benessere collettivo, uno
sviluppo senza futuro – è la certificazione del fallimento irreversibile di un intero ceto politico e
di una classe dirigente imprenditoriale del tutto inadeguata ai tempi presenti.
Potremmo dire che stiamo vivendo una fase
di anacronismo: tutti sappiamo che la via maestra ci spinge a battere strade
nuove, lontano dalla cultura del consumo di beni inutili e dell’estrazione
incontrollata di risorse non rinnovabili, ma chi comanda – in politica,
nella finanza, nel ceto imprenditoriale, nei mezzi di comunicazione – vive nel
passato ed è ancorato a un modello ormai incompatibile con il presente e il
futuro delle popolazioni viventi.
La via d’uscita è un cambiamento profondo degli orizzonti collettivi,
quindi del senso comune, e il punto di partenza non può essere che una
mobilitazione vasta e prolungata dei cittadini più attivi e più
consapevoli. Nuovi movimenti
sociali dovranno prendere la scena, senza perdere altro tempo. Dobbiamo
uscire dalla surreale “fase anacronistica” che stiamo vivendo.
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