Finalmente, il bisogno di un nuovo modello di sviluppo è espresso non solo
da pensatori che vivono nell'ombra, ma anche da politici,
sindacalisti, opinionisti e altri personaggi ad alta visibilità mediatica. Una
svolta indotta non solo dagli squilibri ambientali, sociali e sanitari
che caratterizzano il nostro tempo, ma anche dalle riflessioni morali,
sociali, esistenziali, avanzate da alcuni testi, primo fra tutti la Laudato
si’.
Ed ecco emergere un’altra idea
di sviluppo non più basata sulla quantità di cose che sappiamo produrre, ma sul
grado di felicità che sappiamo raggiungere, ricordandoci, come Gesù ebbe
a dirci già duemila anni or sono, che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni
parola che esce dalla bocca di Dio”. Un’enunciazione che volendola parafrasare
in chiave moderna e laica potrebbe diventare “non di solo Pil vive l’uomo, ma
di tutte le sue relazioni”.
Per troppo tempo abbiamo pensato che la felicità si misuri solo in termini
di ricchezza e di agiatezza, ma l’esperienza ci dice che dipende anche da
quanto ci sentiamo amati, da quanto tempo possiamo trascorrere con i nostri
cari e i nostri amici, da quanto tempo possiamo dedicare alle nostre passioni e
ai nostri interessi, da quanto ci sentiamo protetti, da quanto ci
sentiamo realizzati, da quanto sappiamo guardare al futuro con ottimismo, da
quanto ci sentiamo liberi e capaci di partecipare. Il che conferma, se mai ce
ne fosse bisogno, che l’essere umano non è solo dimensione corporale, ma
anche affettiva, sociale, spirituale, per cui si ha vera felicità
solo se tutte queste dimensioni sono soddisfatte in maniera armonica.
La volpe del Piccolo Principe direbbe che l’armonia è una cosa troppo dimenticata. Eppure l’armonia, intesa
come equilibrio, è la chiave di volta di un nuovo modello di sviluppo ispirato
a criteri di equità, sostenibilità, soddisfazione umana.
Equilibrio fra necessità produttive e limiti
delle risorse, equilibrio fra rifiuti prodotti e capacità di assorbimento della
natura, equilibrio fra esigenze occupazionali ed esigenze sanitarie, equilibrio
fra bisogni nutritivi e integrità del creato, equilibrio fra tempi di lavoro e
tempi di cura, equilibrio fra spazi cementificati e spazi verdi, equilibrio fra
produzione locale e produzione globale, equilibrio nella distribuzione della
ricchezza all’interno delle filiere internazionali, equilibrio fra energie
dedicate alla dimensione individuale e quelle dedicate alla dimensione
comunitaria.
E’ la prospettiva dell’ecologia integrale, che
per essere attuata richiede l’adozione di principi comportamentali totalmente
diversi da quelli che attualmente in vigore. In un celebre discorso che tenne
ad Assisi nel 1994, Alex Langer disse: “ Sinora si è agito all’insegna del
motto olimpico “citius, altius, fortius” – più veloce, più alto, più forte –
che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito
della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la
mobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed
onnipervadente.
Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse
sintetizzare, al contrario, in “lentius,
profundius, suavius” – più
lento, più profondo, più dolce -, e se non si cerca in quella
prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto
razionale, sarà al riparo dall'essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente
disatteso”. Un ribaltamento di paradigmi che nel concreto significa sobrietà invece di consumismo, riciclo invece
di usa e getta, cooperazione invece di sopraffazione, locale invece di globale,
tecnologia dolce invece che dirompente. La buona notizia è che parte di essi li
stiamo accogliendo.
Ad esempio ci siamo convinti che dobbiamo passare dall'energia fossile a
quella rinnovabile, dalla produzione lineare a quella circolare, dagli oggetti
ad alta intensità di materiale a quelli leggeri. Un insieme di trasformazioni
meglio note come green economy che la stessa Commissione
Europea è intenzionata a finanziare sotto il grande capitolo del green
new deal.
In definitiva ciò che si nota è la disponibilità a modificare il come, ma
non il quanto. Disponibilità a modificare come si produce e si consuma, ma non
quanto si consuma, perché la crescita è il meccanismo che dà stabilità alla
macchina capitalista.
Non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale considerato che
per vivere abbiamo bisogno di un lavoro e che il lavoro è legato a doppio
filo ai consumi, ormai non più solo a livello nazionale, ma addirittura
mondiale, visto che viviamo in un’economia globalizzata.
E tuttavia il lockdown ci
ha dimostrato in maniera inequivocabile quanto sia necessario contenere
produzione e consumi se vogliamo ridurre il nostro impatto sulla natura.
Secondo i calcoli della rivista Nature Climate Change, nell’aprile
2020 le emissioni di CO2 sono diminuite del 17% come conseguenza delle
restrizioni imposte dalla pandemia. Una riduzione che non si era mai vista
prima, neppure durante la crisi del 2009.
A contenere il pessimismo c’è che il passaggio all’economia verde creerà
nuovi posti di lavoro almeno in alcuni comparti. Ma i posti che perderemmo se
solo ci sbarazzassimo dell’inutile e del superfluo, sarebbero di certo
superiori a quelli recuperati. Per cui il vero tema che dovremo affrontare in
una prospettiva di sostenibilità è quella del lavoro: come coniugare sobrietà e lavoro per tutti?
Forse solo un Piccolo Principe, libero da ogni sorta di condizionamento,
potrebbe aiutarci a sciogliere il rebus, perché la nostra abitudine a
considerare come lavoro solo quello salariato non ci aiuta a trovare la
soluzione.
Ma in attesa di sapere vedere il lavoro con occhi nuovi, fin d’ora possiamo
intuire che una strada da battere è la riduzione dell’orario di lavoro. Una
proposta fin troppo scontata: quando
di lavoro salariato ne serve meno, complice l’introduzione di macchine sempre
più automatizzate, l’unico modo per estenderlo a tutti è redistribuirlo. In
alternativa dovremmo redistribuire il reddito, ma una società formata da pochi
che lavorano e molti che vivono alle loro spalle, non pare una prospettiva
molto dignitosa.
La piena partecipazione produttiva a orario ridotto converrebbe a tutti. Ai
vecchi, che godrebbero di un orario più adatto alle proprie condizioni fisiche.
Ai giovani, che conquisterebbero autonomia e dignità. Alle donne, che raggiunta
la parità fuori casa potrebbero rivendicarla anche fra le mura domestiche. Ma
meno lavoro salariato significherebbe inevitabilmente meno soldi e nella nostra
mente si affaccia un’altra domanda altrettanto angosciante: ce la faremo?
La risposta è che dipende da
ciò che i nostri salari devono coprire. Una cosa è doverci comprare solo cibo,
vestiario ed altri oggetti di uso quotidiano. Altra cosa doverci pagare anche
casa, farmaci, esami diagnostici, libri, retta scolastica e qualsiasi altra
necessità. In altre parole il salario di cui abbiamo bisogno dipende fortemente
dal livello di protezione sociale che ci offre l’economia pubblica.
Il sindacato lo ha sempre saputo e in altri tempi difendeva il salario non
solo rivendicando aumenti di paga, ma anche pretendendo servizi gratuiti da
parte della collettività. Il che dimostra che c’è un intreccio profondo tra riduzione dell’orario di lavoro ed
espansione dell’economia di comunità. Il rapporto è inversamente proporzionale: quanto più si riduce l’orario
di lavoro, tanto più devono crescere servizi pubblici e protezione sociale.
Solo a questa condizione la riduzione dell’orario di lavoro può mettere in
evidenza tutti i suoi risvolti positivi e diventare socialmente desiderabile.
Il che conferma che un nuovo modello di sviluppo è molto più di una semplice
rivisitazione tecnologica. E’ un nuovo modello organizzativo costruito su nuovi
valori, nuovi ruoli, nuove interazioni. Soprattutto è un nuovo modo di
concepire il lavoro, il mercato e la comunità.
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