Tra gli
insegnamenti che abbiamo colto dal Black Lives Matter, uno dei più importanti è
l’aver compreso che un quick fix non risolverà il problema. I
segnali del cambiamento sono evidenti – dalla rinuncia da parte del NASCAR
della bandiera confederata, alla decisione adottata dalla maggioranza dei
membri del Consiglio di Minneapolis riguardo lo smantellamento del dipartimento
di polizia –, ma non abbastanza.
Decenni di
riforme fallite e ricerche sul razzismo sono giunti alle stesse conclusioni:
solo un cambiamento radicale potrà garantire ciò di cui abbiamo bisogno. Il
momento vorticoso che stiamo vivendo si placherà. E poi? Come faranno i
movimenti a intraprendere una nuova fase di crescita?
I giovani
che hanno organizzato il Sunrise Movement, hanno integrato nel suo DNA un
costante impegno nell’aspetto formativo. Non ha senso affrontare il cambiamento
climatico, se le persone continuano semplicemente a fare “quello che hanno
sempre fatto”. Per citare il poeta Christopher Fry, “Affairs are now
soul-sized”. E per molti questo significa imparare ad agire in modo inusuale.
Se
decidessimo di prendere parte in uno scontro armato, dovremmo ricevere un
addestramento per combattere. Se volessimo sfruttare l’energia solare, dovremmo
ricevere una formazione tecnica. Se volessimo capovolgere un sistema
politico-economico che ci sta privando del nostro futuro, i movimenti
sociali dovrebbero ricevere un adeguato addestramento.
Con le
elezioni si possono, al massimo, approvare delle riforme, ma solo con i
movimenti sociali si può aspirare a una trasformazione radicale. Le istituzioni
insegnano le strategie di propaganda. I movimenti, invece, sviluppano quelle
competenze per attuare il vero cambiamento. Ed è lì che entrano in gioco le
attività di formazione per gli attivisti.
Il primo
corso formativo mi ha un po’ spaventato. Nel 1958, ero uno studente volontario
e il mio mentore, Charlie Walker, mi disse che uno dei migliori metodi che
conosceva era lo street speaking: stare in piedi su una scatola e
rivolgere la parola a chiunque si trovi a passare. Mi avrebbe messo in contatto
con il “migliore oratore da strada di tutta Philadelphia”, disse, “un
socialista di nome Carl Dahlgren.”
Oltre a
essere spaventato, ero anche piuttosto emozionato all’idea di iniziare questo
percorso. Chiaramente, la formazione degli attivisti è più impegnativa di
quella educativa tradizionale, che ci fa sentire generalmente più a nostro
agio, e più vicina alla tipologia di addestramento dei soldati, perché la posto
in gioco è alta in entrambi i casi.
Così,
nonostante fossi agitato e nervoso, ho conosciuto Carl Dahlgren. Al telefono ho
ammesso di essere un po’ teso, e lui ha riso.
“È ovvio che
tu sia teso”, mi ha detto. “Io lo sono ancora. Ogni volta. È solo ansia da
prestazione. Paura da palcoscenico. Ma se gli attori si lasciassero
immobilizzare da questa, non vedremmo mai nessuno spettacolo. Ci vediamo
venerdì sera.”
Quel venerdì
sera ero ancora più nervoso, ma alla fine ho incontrato Carl e gli altri. Ho
sistemato una cassetta di legno all’angolo della strada e ho aspettato che
arrivasse il mio turno. Quando sono sceso da lì, mi sentivo sollevato…. E ho
immediatamente dimenticato ogni mia singola parola.
Ci è voluto
del tempo prima che riuscissi a essere abbastanza sicuro di me per potermela
cavare da solo e rispondere a tono ai “disturbatori”.
“Forse,” mi sono detto, “ho la stoffa per diventare un vero attivista, dopo tutto.”
“Forse,” mi sono detto, “ho la stoffa per diventare un vero attivista, dopo tutto.”
I diritti civili hanno ampliato la nostra visione
sull’importanza della formazione per gli attivisti.
Pochi anni
dopo, siamo stati chiamati a “combattere” – in stile nonviolento – nel
movimento per i diritti civili. I membri del Student Nonviolent Coordinating
Committee (SNCC) avevano bisogno di “indirizzare” il loro coraggio e,
ovviamente, di perfezionare le loro competenze: come si affronta il
suprematismo bianco quando questo ti si avvicina con violenza?
Come nel
travolgente film di Danny Glover, “Freedom Song”, il SNCC e altri hanno usato
la tecnica del gioco dei ruoli, che si è rivelata particolarmente flessibile e
adattabile a ogni circostanza.
Nel 1963,
SNCC ha deciso di affrontare il Ku Klux Klan in Mississippi, dove il gruppo era
molto forte. Il KKK è stato per decenni il movimento terroristico più potente
di tutta l’America. L’anno successivo, il SNCC e alcuni alleati, hanno lanciato
la campagna Mississippi Freedom Summer. Sono riusciti ad attirare l’attenzione
di circa 1.000 studenti volontari dal Nord, i quali hanno deciso di trascorrere
l’estate nelle Freedom Schools, mettendo a rischio
le loro vite.
Mi sono
unito anche io, organizzando quotidianamente eventi e giochi di ruolo, e seguendo
i giovani volontari nel loro percorso di crescita personale e professionale,
durante il quale hanno appreso una serie di tecniche di
“de-ecalation” in situazioni
particolarmente tese, e molto altro.
Centinaia di
volontari sono stati suddivisi in tanti gruppi più piccoli. Notai che,
tra questi, alcuni sembravano più coinvolti, a livello umano. Così, formulai
un’ipotesi: le dinamiche che si creano all’interno del gruppo di lavoro possono
avere un notevole impatto sull’apprendimento di ciascun individuo, e alcuni
formatori sembravano aver compreso questo meccanismo meglio di altri.
Mobilizzare un gruppo per incentivare l’apprendimento.
La maggior
parte dei corsi di formazione conduce gli individui a una “collaborazione di
convenienza”, ignorando il forte potenziale che potrebbe essere sviluppato
all’interno del gruppo.
Ignorare il
potere del gruppo significa negare una parte della natura umana. L’uomo e la donna
sono “animali sociali”, costantemente influenzati dalle dinamiche del gruppo di
cui sono parte.
Per tutto
ciò che riguarda gli obiettivi di apprendimento della sessione, le dinamiche
che emergono all’interno di un gruppo di formazione possono essere neutrali,
positive o negative: potrebbe scoppiare una lotta per il potere tra due
pretendenti leader, oppure una minoranza potrebbe tirarsi indietro perché non
riceve nessun tipo di riconoscimento.
Quello che
io chiamo “segreto di sopravvivenza” di un gruppo può essere decisivo per
l’apprendimento di un individuo. Un insegnante o un formatore possono avere
brillanti slide da mostrare e un’abile retorica, ma non avere nulla di meglio
da insegnare se non l’impatto sociale più semplice e superficiale.
Il “coraggio”
è un muscolo che va allenato con il rischio. Ogni piccolo successo lo rafforza
e allenta quelle dinamiche di auto-sabotaggio che attiviamo su noi stessi.
Durante i
vent’anni seguenti, ho continuato a studiare tecniche e strumenti per
rafforzare lo spirito di gruppo tra persone che si erano incontrate casualmente
in workshop e seminari.
“Devo
confessarle, professore, che non mi è mai stato particolarmente simpatico,” mi
ha detto uno studente verso la fine del corso. “Mi sentivo a disagio quasi tutto
il tempo.”
“Ero uno
studente di economia, quindi ho pensato che sarebbe stato semplice per me
intraprendere questo tipo di studi sulla pace,” mi disse. “Ma con lei ho dovuto
lavorare duro, più di quanto non abbia mai fatto in qualunque altro corso.”
“Quindi
perché non hai mollato?” gli ho chiesto. Mi ha sorriso timidamente, poi è
scoppiato in una fragorosa risata. “Non lo so. Ho pensato che, se fossi andato
via, mi sarei sentito un perdente. E non volevo che fosse lei ad averla vinta.”
Si è fermato
un attimo a rifletterci su. “O semplicemente non avevo voglia di andar via.”
Le formazioni per attivisti devono potenziare il
coraggio
Per molti
anni, nelle attività di workshop che ho condotto, lo street speaking è
stato il mio asso nella manica, per due motivi. Prima di tutto, quando ero
ancora un novellino, questa tecnica ha rafforzato moltissimo il mio coraggio. E
poi, perché ha sempre funzionato, anche in contesti culturali differenti: in
Sudafrica, Danimarca, Tailandia e Nuova Zelanda.
Quando lo
uso come esercizio durante i workshop, prima mi assicuro che le dinamiche
emerse all’interno del gruppo siano positive e, quindi, in grado di fornire
supporto agli individui che si mettono in gioco. Inoltre, metto in chiaro
qualcosa che molte persone sanno già: le cose più importanti avvengono al di
fuori dalla propria comfort zone.
Dopo
l’esercizio, l’individuo si sente pervaso da gioia, eccitazione, solidarietà di
gruppo e sorpresa. “Ce l’ho fatta!”
Di certo, la
chiave di tutto è il rischio. Non possiamo crescere fin quando non usciamo
fuori dalla nostra zona di comfort, che implica imparare a tollerare le
esperienze di rischio soggettive, anche quando si è oggettivamente al sicuro.
Il “coraggio” è un muscolo che va allenato con il rischio. Ogni piccolo
successo lo rafforza e allenta quelle dinamiche di auto-sabotaggio che
attiviamo su noi stessi.
Formatori e
insegnanti che vogliono massimizzare i risultati, si impegnano a sviluppare le
dinamiche positive all’interno del gruppo, così da incentivare gli individui a
correre il rischio. Ogni volta, il gruppo stesso diviene sempre più forte e
volenteroso di supportare chi rischia. Lo street speaking è
una specie di percorso a ostacoli per attivisti sociali, che si inserisce in
quella categoria di attività educative, chiamata “formazione esperienziale”,
o adventure-based learning.
Il rischio dell’imperialismo culturale
Quando, nel
1991, io e Barbara Smith, leader della comunità nera, iniziammo il Training for
Change, avevamo sviluppato una serie di strumenti importanti per attivare delle
dinamiche di gruppo positive, ma eravamo curiosi di scoprire se gli individui
che ne erano parte avrebbero mai oltrepassato il confine culturale che li
divideva. Io ero più libero di viaggiare rispetto a Barbara, quindi, insieme ad
altri formatori ho messo in pratica questi strumenti in numerosi workshop in
giro per il mondo.
Non è stata
una grande sorpresa scoprire che alcuni strumenti funzionavano meglio di altri
in alcuni contesti culturali, dai quali abbiamo deciso di raccogliere una
serie di nuove tecniche di apprendimento.
I giovani
d’oggi sanno già istintivamente quello che gli adulti stanno pian piano
capendo: in un momento di rapida trasformazione, la vittoria va ai movimenti
che hanno la curva di apprendimento più forte.
Il nostro
approccio divenne piuttosto controverso in Tailandia, dove gli attivisti sono
particolarmente orgogliosi del fatto che il loro paese non sia mai stato
colonizzato da nessun impero occidentali. Temevano che il gruppo Thai Buddista,
che stava importando i nostri corsi di formazione “all’americana”, si stesse
involontariamente lasciando coinvolgere in qualche forma di imperialismo
culturale.
Prima del
mio successivo workshop in Tailandia, lo sponsor mi disse che uno dei
partecipanti era un rinomato monaco Thai Buddista, rivoluzionario comunista ai
tempi dell’università. Il suo intento era quello di individuare tutte le
impercettibili assunzioni imperialiste alla base della nostra pedagogia.
A due terzi
del percorso di formazione della durata di 10 giorni, lo sponsor interruppe il
seminario e invitò il monaco a esporre a tutti la sua opinione. La sala calò
nel silenzio, tutti gli occhi erano puntati su quell’uomo anziano dalle vesti
color zafferano. Lui si guardò intorno, sorrise e disse, “Ho prestato molta
attenzione a tutte le attività esperienziali e alle relative assunzioni di
base. Riflettendoci su, credo che siano assolutamente coerenti con quello che
il Buddha avrebbe voluto per incentivare il nostro apprendimento.”
Cercare un nome per questo tipo di formazione
Molte
persone collegano il nostro lavoro alla educazione popolare teorizzata dal
radicale brasiliano Paolo Freire. Ma – almeno nella versione trapiantata nel
Nord del mondo – questo tipo di approccio non tiene conto della forza
potenziale di un gruppo e dei benefici sull’apprendimento individuale derivanti
da un suo uso consapevole. Dobbiamo trovare un nome diverso da “educazione
popolare”.
I formatori
che, nel frattempo, stavano adoperando le nostre tecniche, avevano riscontrato
un miglioramento di tutto il percorso di apprendimento, nonché un
raggiungimento dei risultati più completo e veloce. Quando usavano i nostri
metodi, quattro ore di workshop si riducevano a tre. Ed è stato allora che
abbiamo deciso di chiamare il nostro approccio “educazione diretta”.
Traduzione
di Benedetta Pisani per il Centro Studi Sereno Regis
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