Chi è John Berger? Uno scrittore, si dovrebbe rispondere, uno
scrittore poliedrico, più esattamente, dal momento che non è solo romanziere,
ma anche saggista, critico d’arte, poeta, drammaturgo, sceneggiatore
cinematografico, giornalista, commentatore politico, documentarista e persino
disegnatore. Tuttavia la risposta non è sufficiente perché c’è qualcosa d’altro
che connota la sua attività, qualcosa che ha strettamente a che fare con il suo
modo d’essere. In ogni campo e attività Berger utilizza non tanto una specifica
abilità tecnica – c’è anche questa –, ma, appunto, un modo d’essere, il
proprio, che è prima di tutto un modo di guardare. Come ha scritto in uno dei
capitoli del suo volume di saggi dedicati alla fotografia e all’arte, Sul
guardare, ci sono “momenti vissuti” in cui l’occhio non è un semplice
registratore di sensazioni visive, bensì uno scrutatore sensibile di problemi e
di questioni irrisolte sia per l’arte sia per la vita. “Avviene a volte – dice
Berger – che la visione di un singolo riesca a distanziarsi dalle forme sociali
della cultura esistente, compresa la forma sociale dell’arte. Quando ciò
avviene, le opere concepite in base a tale visione vivono in una solitudine che
non è solo personale, ma storica”. Berger sta qui parlando dell’opera di
Alberto Giacometti, tuttavia l’affermazione calza perfettamente anche per lui,
dato che la sua poliedricità non è solo un’irrequietezza nei confronti delle
forme e dei ruoli tradizionalmente circoscritti, per cui difficilmente un
romanziere è anche un saggista o un disegnatore o un critico d’arte, quanto
piuttosto un modo d’essere in continuo dissidio con la società in cui vive, e
dunque anche verso le forme d’arte da essa riconosciute. Detto altrimenti,
Berger è, come altri scrittori della sua generazione (Roland Barthes, per
esempio, ma anche Italo Calvino, Hans Magnus Enzensberger e Alberto Arbasino),
un critico della cultura contemporanea con cui ha ingaggiato un confronto
serrato, frontale ma non polemico, complesso ma anche sottile. Prendiamo Splendori
e miserie di Pablo Picasso, pubblicato in inglese nel 1965, uno dei suoi
primi libri. Quello che colpisce nel saggio è il modo con cui guarda il lavoro
dell’artista spagnolo, la sua intera personalità di uomo e di pittore. Non si
concentra come altri solo sull’opera o la legge attraverso la vita
dell’artista, ma mette a tema la personalità e l’opera come prodotto di questa.
La presenza di Berger in quello che scrive, cosa rara in questo tipo di autori,
non sembra transitare per la cruna d’ago di un Io individuale, ma per l’ampio
arco del Noi. Ecco, forse proprio questo è il talento peculiare di John Berger,
talento senza dubbio naturale: la sua cifra di scrittore. Quello che dà forza
al suo scrivere è infatti una forma d’attenzione che lo porta a interrogare di
continuo, anche quando racconta in un romanzo, ciò che accade sotto i suoi
occhi; e mentre la maggior parte dei critici d’arte fornisce spiegazioni, lui
pone invece domande – questa è la forma d’attenzione –, tanto da indurci a
credere che la sua ricerca non sia radicata tanto nella letteratura, o nelle
arti visive, quanto piuttosto “in più ampie esperienze umane, specialmente in
quelle in cui l’energia del corpo supera la normale fisiologia”, per usare le
parole con cui descrive l’opera di Picasso. L’energia è uno dei temi di fondo
della sua personalità artistica che si esprime nei gesti stessi del suo
disegnare e dipingere e che si coglie in ogni riga dei suoi testi: si sente la
forza della sua mano (la mano e anche la voce: due energie convergenti). Questione
di sguardi (1972), uno dei suoi libri più belli e giustamente citati,
è un perfetto esempio sia della capacità di Berger di guardare il mondo delle
immagini senza incagliarsi nei luoghi comuni dell’arte, sia di fare opera di
critica sociale, ovvero di mettere in discussione i presupposti visivi della
cultura contemporanea, senza con questo gettare il discredito sulle immagini,
senza demonizzarle. Berger ama le immagini e dialoga con loro in modo amoroso:
appassionato e seduttivo. Questione di sguardi nasce da una
fortunata trasmissione televisiva, dal medesimo titolo, Ways of Seeing,
andata in onda alla Bbc a cura di Berger stesso; di questa origine reca il
peculiare segno grafico: la scelta dei caratteri e l’impaginazione sono
fortemente visivi. Il libro è composto di testi e immagini; alcuni capitoli poi
sono composti solo di immagini; il testo, sia perché in neretto sia per il
corpo prescelto, sembra una didascalia che accompagna le immagini, le affianca,
le circonda, senza mai soffocarle. In questo modo il lettore legge
contemporaneamente immagini e parole, parole che diventano immagini, immagini
che contengono parole. E non si tratta solo d’immagini di quadri, opere
artistiche, ma anche di fotografie pubblicitarie, mescolando così motivi
sublimi e motivi umili. Qualcosa che ricorda il lavoro di Marshall McLuhan,
alla fine degli anni Cinquanta, ma senza la corrosiva intelligenza e
l’insolenza intellettuale, il sarcasmo e la provocazione del critico e
massmediologo canadese. Berger non è un iconoclasta, aspira piuttosto a una
sorta di classicità, ma scomposta. Meglio: una classicità critica. Questioni
di sguardi (come in un certo senso tutti i libri di Berger) è un libro
militante: a tratti veloce e sommario, come deve essere un libro del genere,
composto di intuizioni folgoranti e di continui cortocircuiti, ma senza mai
perdere in eleganza e sottigliezza anche quando è rapido e conciso: lo dimostra
appunto l'attenzione con cui conduce la sua lettura della pubblicità
contemporanea. La tesi principale del libro è che la pittura ad olio si è
sviluppata nel momento in cui gli uomini hanno dato vita a un sistema sociale
ed economico fondato sul possesso delle cose e che l'immagine pubblicitaria è
il suo corrispettivo odierno. Un tema già sollevato da McLuhan, in modo
diverso, nei primi capitoli di Understanding Media (1964).
Quella di Berger è una tesi politica: “La pittura ad olio fece alle immagini
ciò che il capitale aveva fatto alle relazioni sociali. Le ridusse
all’equivalenza degli oggetti. Tutto divenne intercambiabile, poiché tutto si
tramutò in merce”. Gli storici dell’arte ignorano questa fondamentale verità,
dice lo scrittore inglese, e mettono avanti i nomi di Rembrandt, Turner,
Vermeer, Frans Hals, mentre spesso si tratta proprio di eccezioni, di artisti
ignorati o quasi in vita, i cui quadri migliori ritraggono personaggi o
situazioni (poveri, malati, umili, ecc.) rigettati dal gusto dell’epoca. Berger
ha il senso della storia, la rispetta, ma insieme ama la veridicità del tempo.
La pubblicità contemporanea è a suo parere la degna continuatrice della pittura
a olio: “La pubblicità è la cultura della società del consumo. Essa propaga per
via d’immagini ciò che tale società pensa di se stessa. Le ragioni per cui
queste immagini usano il linguaggio della pittura a olio sono numerose”. Berger
sta qui conducendo un discorso sul realismo, su un particolare tipo di realismo
che si è realizzato con la fotografia a colori (i suoi saggi sulla fotografia
sono tra le poche cose significative su questo argomento, insieme ai libri di
Roland Barthes, Vilém Flusser, Susan Sontag e Rosalind Krauss); e il punto
focale del discorso è là dove affronta uno dei termini chiave degli anni
settanta e ottanta, la categoria del glamour: “Il glamour è
un’invenzione moderna. All’epoca della pittura a olio non esisteva”. Se infatti
osserviamo con attenzione il ritratto di Mrs. Siddons dipinto da Gainsborough,
scrive Berger, ci accorgiamo che la donna “non ha glamour, non è presentata
come invidiabile e, di conseguenza, felice. La si può considerare ricca, bella,
piena di talento, fortunata. Ma si tratta di qualità sue personali, che sono
riconosciute come tali. Ciò che lei è non dipende semplicemente dal desiderio
degli altri di essere come lei. Non è una semplice creatura dell’invidia altrui
come, per esempio, la Marilyn Monroe di Andy Warhol”. La società moderna,
democratica e capitalista, è fondata sul sentimento dell’invidia; è una società
che si è avviata verso la democrazia, ma, scrive Berger, si è fermata a metà
strada. Se è vero che “la ricerca della felicità individuale è stata
riconosciuta come un diritto universale”, a partire dalla Rivoluzione francese,
è anche vero che l’individuo moderno si sente impotente: “Egli vive nella
contraddizione tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere”. Sono l’invidia, il
glamour, il senso d’impotenza, la promessa eterna di futuro, la dimenticanza
continua del presente, afferma, a fornire alla pubblicità tutto il suo credito.
Sono trascorsi alcuni decenni da quando il critico e romanziere inglese
scriveva queste frasi, ma niente sembra mutato. Merito della sua capacità di
previsione o sintomo dell’immobilità del mondo in cui viviamo? *** Il discorso
sul realismo, cioè sui modi di rapportarsi alla realtà, di percepirla e
rappresentarla o di costruire l'orizzonte, o meglio: gli orizzonti, del suo
darsi a vedere, viene declinato dallo scrittore in molte altre forme, più ampie
e originali rispetto a quelle tradizionali. Alla fine degli anni settanta
Berger è in Turchia. Visita il museo di Besiktas e si ferma davanti a un
piccolo quadro intitolato Taglialegna nella foresta. L’ha dipinto
un artista turco, Seker Ahmet Pasa, morto all’inizio del Novecento. Lo
scrittore non riesce a spiegarsi il suo interesse, diventato ben presto
un’ossessione. S’informa su Seker Ahmet Pasa. Scopre che ha vissuto a Parigi,
che ha lavorato e dipinto seguendo Courbet e la scuola di Barbizon, che poi è
rientrato in patria divenendo uno dei maggiori pittori turchi, che è stato uno
dei primi a introdurre un’ottica europea nell’arte del proprio paese. Nel
quadro è raffigurato un povero taglialegna che torna dal lavoro con l’asino
carico; subito davanti a lui, gli alberi della foresta: due grandi fusti
leggermente inclinati, un altro immenso tronco in secondo piano; sulla destra
di chi guarda c’è l’inizio di una collina. Descrivendo l’opera in un breve
saggio, raccolto l'anno successivo in Sul guardare (1980),
Berger argomenta che ciò che l’ha colpito è un’incoerenza visiva, quasi un
errore accademico, che fa sì che quel piccolo dipinto consenta di vedere le
cose allo stesso tempo da dentro e da fuori: dal punto di vista del
taglialegna, e insieme dal nostro, quello di osservatori. Ciò che non gli torna
in Taglialegna nella foresta, scrive, è infatti l’orizzonte. Spiega
meglio: lo spettatore, o il viaggiatore, guarda verso l’orizzonte, mentre per
il contadino, che lavora chino a terra, “l’orizzonte è invisibile oppure è il
bordo di un cielo che tutto avvolge e da cui arrivano il buono e il cattivo
tempo”. Allo scrittore pare che nella pittura europea di paesaggio, salvo rare
eccezioni, nessuno sia riuscito a dare voce all’esperienza visiva del
contadino. Seker Ahmet e la foresta non è probabilmente uno
degli scritti più importanti di Sul guardare (uso questo
aggettivo “importante” con il suo significato etimologico di reggere,
sopportare, sostenere), ma è quello in cui viene posta la questione
fondamentale anche per capire il lavoro poliedrico di Berger, e non solo
quello: l’orizzonte come momento decisivo. Cosa intendo dire? Per capirlo
bisogna ricordare un momento della biografia dello scrittore inglese. Alla metà
degli anni settanta, proprio quando sta completando questo libro, John Berger
si trasferisce in un piccolo villaggio delle Alpi francesi che conta ottanta
anime, Quincy, che è stata – lo ha ripetuto più volte – la sua vera università;
da lì vengono, poi, anche molte delle storie che racconta. Quincy è anche il
luogo che l’ha spinto a ripensare in modo radicale ciò che aveva scritto sino a
quel momento. L’orizzonte da cui escono libri saggistici, acuti e insieme
lirici, come Sul guardare o Sacche di resistenza (2001),
libro successivo di vari anni, o il bellissimo libro di racconti Una
volta in Europa (1987), è il piccolo villaggio francese. Questo è
esattamente quello che Berger vede nel quadro del pittore turco: il suo stesso
orizzonte. Seker Ahmet, scrive, quando decise di passare dal linguaggio della
tradizione pittorica turca, fondata sulle miniature tradizionali e sullo spazio
spirituale, a quello della cultura occidentale, ha compiuto un passo
impegnativo e problematico. La sua decisione non era tecnica, bensì ontologica.
La prospettiva spaziale nella pittura di paesaggio dell’arte europea è
strettamente connessa alla questione del tempo. Il sentiero su cui s’incammina
il taglialegna è infatti quello del tempo unilineare. Esiste uno stretto
parallelismo tra il modo di rappresentare pittoricamente lo spazio e i modi di
raccontare le storie. Il romanzo moderno, ci ricorda Berger, è l’effetto della
perdita dell’orizzonte contadino, “è l’espressione di uno sradicamento”: le
forme narrative precedenti sono bidimensionali, non tridimensionali, “ma non
per questo meno reali”. Che cos’è dunque l’orizzonte? Per spiegarlo Berger
ricorre a un dialogo di Heidegger, L’abbandono: “il campo visivo è
qualcosa di aperto, ma la sua apertura non è dovuta al nostro guardare”; e
ancora: l’orizzonte pone il problema dell’“approssimarsi della lontananza”. Per
afferrare la questione cruciale dell’orizzonte bisogna aprire e leggere Sacche
di resistenza. Lì c’è uno scritto dedicato al Po, o meglio: al cinema di
Michelangelo Antonioni. Come si sa la Pianura padana è il luogo in Italia dove
l’orizzonte ha la sua massima estensione; per molti versi questa ampia pianura
alluvionale è l’esatto contrario del paesaggio italiano, segnato invece dalla
presenza di una valle chiusa, orientata verso il mare, custodita dalle colline:
spazio circoscritto e definito. Il paesaggio padano è l’opposto: aperto, non-concluso,
indefinito; forse per questo è anche uno dei paesaggi più misteriosi del mondo.
Scrive Berger che in Olanda, luogo di spazi aperti e pianure, il cielo è sempre
in tumulto. Nella Valle padana accade il contrario: grigio d’inverno, azzurrino
d’estate, fumoso in autunno, il cielo è sempre uniforme. Proprio per questa
ragione lì le cose appaiono; si tratta di uno spazio apparentemente senza
tempo, perfetto per il cinema di Antonioni. Il regista inquadra le scene come
“se il fulcro del suo interesse fosse sempre a fianco dell’evento
rappresentato e il protagonista mai al centro, perché il centro è un destino
incomprensibile dai contorni ancora troppo vaghi”. Potremmo dire che tutto lo
sforzo del lavoro di Berger si potrebbe compendiare in questo tentativo:
trovare un centro, ma al tempo stesso non assumerlo come definitivo, proprio
perché il destino, come ricordano i personaggi di Una volta in Europa,
è appunto qualcosa d’incomprensibile. La lotta con il destino è per Berger
quanto di più umano esista, sebbene si concluda sovente con una sconfitta, come
nel caso di Odile, la protagonista del suo più bel racconto; ma per Odile la
sconfitta è a sua volta un nuovo inizio. Nel 1963 Berger si è recato a Colmar a
vedere la pala di Grünewald. Lo racconta in Fra due Colmar. Si era allora alla
vigilia di un cambiamento epocale che solo poche persone avevano previsto o
presentito. Dieci anni dopo, nel 1973, poco dopo la sconfitta che è seguita a
quel momento, il Sessantotto, Berger è tornato a osservare la pala commissionata
al pittore dall’ordine degli Antoniti, che a Isenheim aveva un suo ospizio per
i malati del fuoco di Sant’Antonio, i sifilitici, i lebbrosi, i malati della
pelle. Il dipinto è una macchina terapeutica che procedeva dalla
identificazione con il terribile crocefisso ulcerato e rappreso fino alla
splendida resurrezione finale: un globo di luce iridescente che avvolge il
Salvatore. I malati ne traevano giovamento, o almeno consolazione. Mentre
Berger è lì che osserva la pala, accade qualcosa. Da dietro le nubi esce il
sole. Accade quello che Novalis ha condensato in una frase: “La percettibilità
è una forma di attenzione”. Lo scrittore capisce, grazie al mutamento di
orizzonte percettivo, che la pala è stata dipinta con “la luce fiammeggiante
delle tenebre”. Comprende che “la speranza attrae, irradia come un punto a cui
vogliamo essere vicini”, mentre “il dubbio non ha centro, è ubiquo”. Ancora
l’orizzonte e il suo mistero: in un periodo di fede rivoluzionaria, scrive,
egli ha visto un’antica disperazione; nel momento della sconfitta e della
sofferenza, ha scorto la medesima opera aprire “miracolosamente un esile varco
in mezzo alla disperazione”. Come ha detto Heidegger in una celebre intervista:
là dove massimo è il pericolo, massima è anche la possibilità di salvezza.
Berger ci sta dicendo proprio questo, e altro ancora. *** L'orizzonte dà a
vedere, ma nello spazio, e nel tempo, da esso aperto la realtà è tutta da
scoprire, e per scoprirla lo strumento privilegiato è l'attenzione. Uno dei
modi più efficaci di mettere in atto l'attenzione e quindi di scoprire la
realtà, per Berger che non a caso è anche pittore, è il disegno, come egli ci
spiega nel libro che nel 2005 ha dedicato appunto a questo tema: Sul
disegnare (2005). L’atto del disegnare, più ancora che il risultato
materiale. Un atto non solo visivo, bensì manuale. Meglio, mentale. Come dice
di Watteau e dei suoi disegni: “per un artista osservare non è solo questione
di usare gli occhi; è il risultato della sua onestà, della sua lotta con se stesso
per capire quello che vede”. La parola “onestà” non ha per Berger un
significato morale, bensì estetico. Onesto da honos: onore. Il
problema dell’arte è sempre un problema d’onore, di nobiltà d’animo, e questa
nobiltà non si conquista con una forma di rettitudine morale – si pensi a
Giacometti o a Bacon, artisti nobilissimi eppure, ciascuno a suo modo, artisti
dell’infamia –, bensì attraverso la lotta, che è prima di tutto una lotta con
se stessi, e poi con il mondo. L’artista lotta con quel mondo che è lui stesso.
La sua integrità è tutta lì, costanza nel conflitto. Tale costanza, pur nel
fluire, ma anche nelle crepe e nei sussulti del tempo, oltre che nella
diversità delle forme, degli strumenti e dei loro modi di funzionamento, è
anche ciò che dà unità all'opera di Berger e le assicura l’intensità del dire e
la coerenza e la compattezza del detto. Lo scrittore inglese è convinto di
averla trovata, più che altrove, proprio nel disegno, nell’antica arte del
“segnare intorno”: di-segno. Ci sono, sostiene, tre modi di funzionare dei
disegni – di funzionare, non di “essere”: quelli che studiano e interrogano il
visibile; quelli che annotano e comunicano idee; e quelli fatti a memoria. La
distinzione è interessante e sottile. Nel primo tipo di disegno, quello che un
tempo si chiamava “studio”, le linee sono le tracce stesse dello sguardo
dell’artista, il quale interroga la singolarità del reale, l’enigma di ciò che
ha davanti agli occhi, “per quanto ordinario e quotidiano possa essere”. Si
tratta insomma di una sorta di “migrazione ottica” dello sguardo dell’artista,
quello che egli ha scelto di guardare: roccia, albero, animale, donna. Se il
disegno riesce, dice Berger, “rimane lì per sempre”. Fa un esempio: lo studio
di Leonardo sull’addome e la gamba sinistra di un uomo nudo in piedi e di
profilo. Un disegno senza età, perché l’atto di guardare di Leonardo, come
quello di un altro anonimo disegnatore, mettiamo, di un secolo o due dopo, è
cambiato assai poco nel corso dei millenni. Era così per gli Egizi, è così per
Giacometti. “Il tempo è obliterato – scrive – da un eterno presente. Presente
indicativo”. La seconda categoria segue un movimento opposto. Si tratta di
portare sul foglio ciò che è già nell’occhio della mente. Sono disegni datati e
databili, non mettono in gioco il visibile, ma dipendono dal linguaggio visivo
di quell’epoca: Rinascimento, Manierismo, Romanticismo. Poussin e Rembrandt ne
hanno fatti di questo genere. Somigliano ai giardini privati: “quando c’è
abbastanza spazio, la visione rimane aperta e noi entriamo. Condizionale”. Il
terzo tipo di disegno è quello “fatto a memoria”. Appunti presi in fretta per
un altro uso, dopo. Un modo per raccogliere informazioni, per conservare
impressioni. Spesso funziona come esorcismo contro un ricordo che tormenta, per
togliere dalla mente un’immagine che assilla. Goya è un grande disegnatore di
questo genere. C’è un suo disegno che raffigura un prigioniero torturato
dall’Inquisizione: indelebile. “Il disegno – scrive Berger – si limita a
dichiarare: ho visto questo. Passato prossimo”. Una volta stabilita questa
partizione – una classificazione, ma anche una dichiarazione di poetica, un
modo di vedere il mondo – Berger si chiede cosa sia poi, alla fin fine, il
disegnare. E si risponde, da vero materialista: è la carta. Il segreto del
disegno è proprio la carta. Fa l’esempio di un paesaggio montano disegnato da
Pieter Bruegel: la carta che diventa immagine pur restando sempre carta. Un
animale non potrebbe mai riconoscere il disegno, l’uomo sì. Disegnare è un atto
umano. E sulla carta si palesa ciò che è proprio dell’uomo: progettare. Sulla
carta realtà e progetto sono inseparabili “poiché impiegano il futuro, simili
disegni prevedono. Per sempre”. Poche pagine più avanti, nel libro,
Berger parla di un suo disegno – da vero scrittore egli disegna – che ha fatto
al padre nella bara, appena morto. Disegnare qualcosa che si è manifestato nel
tempo, che è visibile, e non si manifesterà mai più, afferma. Sono pagine
struggenti, non tanto per il tema affettivo – il padre morto –, bensì per la
riflessione sul tempo, sulla concreta lotta con il tempo che conduce ogni
artista e ogni scrittore. Il visivo “è sempre il risultato di un incontro
momentaneo e irripetibile”. Cita una frase di Cézanne: “Un attimo nella vita
del mondo sta passando. Dipingilo com’è”. Mentre leggo queste frasi di Berger,
dette in modo così lirico, eppure secco, mi viene fatto di pensare: come
distinguere un vero artista da uno che non lo è? Un vero scrittore da uno che
riempie solo delle pagine? Dov’è il discrimine tra la letteratura che possiamo
chiamare “industriale” e la vera letteratura? Nella lotta con il tempo. La
lotta per dire contro il tempo, per salvare qualcosa del visibile, non per
sorprenderci, colpirci, stupirci, blandirci, sedurci, affascinarci? No, la
differenza sta solo nella nuda lotta col tempo. Per questo l’arte e la
letteratura sono il terreno dell’onestà, dell’onore, ci dice Berger. Per questo
il suo libro non ci parla solo del disegnare, ma anche dello scrivere. C’è un
suo breve racconto, con i disegni di Paul Davis, La tenda rossa di
Bologna, pubblicato da un piccolo editore italo-inglese, Drawbridge Books,
nel corso del 2007, dove Berger racconta la sua vocazione di scrittore
attraverso la figura di uno zio e intanto salva dal flusso del tempo un atto
del visibile: una visita a Bologna. Possiede una forma lirica, dolce e
delicata, come un disegno fatto a memoria. Ma è solo nella corrispondenza con
James Elkin in Sul disegnare che Berger chiarisce fino in
fondo la propria idea del disegno, e dell’arte. Elkin, che insegna disegno,
dice: hai ragione, il disegno cerca di abolire il principio di Sparizione, ma
non ci riesce. Fa l’esempio di Giacometti, nel restringersi delle sue teste nel
segno: sempre più piccole, quasi a scomparire. Berger replica: non sono
d’accordo, perché “senza distanza (spazio) non ci sarebbe nulla! Le teste di
Giacometti non sono sul punto di sparire, ma al contrario sono sempre lì! Per
questo non possiamo dimenticarle”, aggiunge. In My Beautiful,
riflessioni sulle fotografie di Marc Trivier dedicate alle sculture di
Giacometti, libro straordinario, Berger spiega questo pensiero in modo poetico.
Disegnare, risponde a Elkin, “è toccare la resistenza”. È il punto dell’intero
libro, e di Berger stesso, dove si congiungono poesia e politica: è il suo modo
di essere uno scrittore dedito all’onore e insieme alla bellezza, uno scrittore
di giustizia, in senso biblico. Resistere a cosa? Al tempo: “disegnare è
implicare quel che non ci sarà più quando in seguito guarderemo il disegno”. Di
più: “i disegni offrono ospitalità all’invisibile compagnia che è al nostro
fianco”. I disegni di Giacometti, come quelli di Rembrandt, “non piangono la
distanza, ma rispondono a una sola parola: QUI”. Il disegno non è dunque un
concetto, ma si riferisce alla struttura essenziale dello spirito umano, “senza
il quale non ci sarebbe nessun riconoscimento della distanza”. Un pensiero che
mi stordisce, e mi riverbera dentro la realtà, il mondo, tutto il mondo. ***
“Qui” è il titolo della seconda parte di E i nostri volti, amore mio,
leggeri come foto (1984), mentre quello della prima parte suona
"Una volta". In esse Berger parla rispettivamente dello spazio e del
tempo: del riconoscimento della distanza e della separazione. E lo fa, più
ancora che di consueto, senza operare transizioni nette tra disegno e
scrittura, tra parole e immagini, tra generi e stili, in modo più significativo
quanto più di ciascuno riconosce caratteri e forza. Nella copertina
dell’edizione originale non ci sono immagini. L’autore – ricorda Maria Nadotti
che l’ha tradotto in italiano – ha tracciato sul rettangolo di carta opaca
questa frase in color tortora, e poi ha firmato col proprio nome e cognome:
John Berger. Non è un titolo, ma piuttosto un autografo. Nella versione italiana
del volume, la prima edizione apparsa nel 2002 presso L’ancora del
Mediterraneo, Berger ha ripetuto il medesimo gesto calligrafico, nella nostra
lingua, questa volta: E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto;
non su un fondo uniforme, bensì sul lato destro di una fotografia. L’ha
scattata Antonio Biasucci e rappresenta un albero: un lungo tronco senza rami
né foglie sotto cui sta seduta, la vediamo appena, una coppia (così
sembrerebbe: lei vestita di bianco e lui che le passa il braccio intorno alla
vita). L’albero è esso stesso un segno calligrafico, un’improbabile linea color
seppia che partisce lo spazio della copertina. Il libro di Berger è davvero
inconsueto e originale. Composto di poesie e di prose che si mescolano, si
succedono, senza un ordine prestabilito. Quando lo scrittore vuole parlare di
alcune cose che gli stanno a cuore, passa dalla prosa alla poesia, senza
stacco, senza segnalarlo: dal saggio ai versi; ma accade anche il contrario:
dai versi all’argomentazione saggistica. Senza dubbio la poesia appare più
immediata della prosa, più diretta, ma anche meno comprensibile, più
misteriosa, più criptica. E i nostri volti, amore mio, leggeri come
foto è un libro che parla di molte cose; lo fa con un tono e un garbo
davvero rari. È un libro di pensieri, ma anche d’intensità emotive. È una serie
di lettere d’amore, ma anche un diario; un libro sulle concezioni del tempo, ma
anche sulla pittura (Caravaggio, Rembrandt) e insieme sulla sessualità; una
riflessione sull’atto del vedere, ma anche sul tema dell’emigrazione. Uno di
quei libri che o si amano follemente oppure si decide di non sfogliare neppure
(grave perdita). Non bisogna dimenticare che John Berger è anche uno scrittore
politico, ma non certo nel senso tradizionale del termine. Come fa notare Maria
Nadotti, “non c’è discorso più pubblico e politico, più radicalmente
comunitario, di quello sui sentimenti e sull’intimità”. E di questo scrive qui
Berger. L’interrogazione sul tempo domina i primi brevissimi capitoli, dedicati
indifferentemente alla poesia (“Il poeta pone il linguaggio oltre la portata
del tempo”), e alla pittura (“I dipinti sono statici”). Guardare più e più
volte un dipinto – per giorni o nel corso di anni – “è un’esperienza unica
perché, mentre tutto cambia, l’immagine resta uguale a se stessa”. Berger
distingue la pittura dalla fotografia attraverso il loro rapporto col tempo:
mentre esiste l’istante fotografico, come porzione prelevata dal flusso
temporale, l’istante pittorico non è mai esistito (i dipinti non fissano
l’istante). C’è in E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto un
desiderio di conciliarsi col tempo, con lo scorrere stesso del tempo, proprio
mentre in Occidente, all’apogeo del suo sistema economico e sociale (ricordiamo
che il libro è uscito in originale nel 1984), domina incontrastata la
Pratica-Istantanea: “L’età moderna della quantificazione inizia con l’algebra e
il calcolo infinitesimale. Ne deriva che non conta più ciò che si ha, ma ciò
che non si ha. Tutto si trasforma in perdita”. Berger collega il processo
d’invecchiamento alla sessualità. Se noi non invecchiassimo, non fossimo
destinati alla morte, la riproduzione stessa non avrebbe senso, e con essa la
sessualità medesima. Con la sessualità la specie scavalca la morte: “L’animale
sessuale – come il chicco di grano – è il condotto che dal passato immette nel
futuro”. La perdita, intesa anche come sradicamento, migrazione forzata o
scelta, è la vera condizione della contemporaneità. Il XX secolo, scrive il
saggio storyteller inglese, è stato, e ancora è, il secolo
dell’esilio. E anche della separazione. L’opposto dell’amore non è infatti
l’odio, ma la separazione: tutte le passioni vengono messe alla prova dalla
separazione. Che è un’esperienza essenzialmente spaziale: “la forza da cui ha avuto
origine lo spazio è stata con ogni probabilità un’alternanza di espulsione e
attrazione, estensione e passione. Ecco perché, in ogni lingua, l’amore parla
di stelle. Ed ecco perché ogni cosmologia ritorna sulla sessualità”. *** Uno
dei simboli principali della separazione è il muro, e davvero la nostra è
“l’epoca del muro”, pensa Berger mentre visita al Museo Maillot di Parigi la
mostra di Francis Bacon nel maggio del 2004. Per cinquant'anni il critico e
scrittore inglese ha mal giudicato il suo conterraneo, convinto che dipingesse
per sconcertare se stesso e gli altri. Una pittura compiaciuta, pensava.
All’improvviso, davanti ai suoi ritratti, ai corpi in agonia o smembrati,
Berger ha un'illuminazione: Van Gogh, che dipingeva avendo nella testa l'ardente
fede ottocentesca nella democrazia, in realtà ci rivela che i corpi umani sono
in rovina, impotenti davanti alla crudeltà; Bacon raccoglie quei brandelli e
“li usa come tamponi”. Da Bacon alla situazione attuale, quella che stiamo
vivendo, segnata dalla guerra in Iraq, dalla costruzione del Muro nei Territori
occupati, dagli attentati suicidi in Israele, ma anche viceversa: dal terrore
continuo alla lettura delle opere del pittore inglese. La conclusione di Berger
è fulminante: “Oggi servirsi del vocabolario tradizionale, usato dai potenti e
dai media, non fa che aumentare l'oscurità e la desolazione in cui siamo
immersi. Il che significa essenzialmente rimanere in silenzio. Significa
scegliere le voci a cui vogliamo unirci”. Berger, che ha superato gli ottant'anni,
è probabilmente, come si diceva in apertura, l'ultimo scrittore politico
europeo in circolazione, in ogni caso l'unico che sia rimasto testardamente
legato a una lettura realista e insieme poetica del mondo, l'unico che somigli
per passione e insistenza a Pier Paolo Pasolini, di cui continua lo spirito
profetico in un'età in cui gli intellettuali si sono trasformati in consulenti,
opinion maker, brillanti tornitori delle viti del presente. Berger è ancora uno
scrittore contro. Lo è senza passare attraverso l'uso del paradosso, genere in
cui uno scrittore come Enzensberger è invece maestro. E non è neppure uno
scrittore politico alla Grass, controcorrente, ma sempre lungo la strada
principale. Berger è un poeta come si comprende ancora una volta leggendo la
raccolta di interventi politici, Abbi cara ogni cosa, apparsi tra
il 2001 e il 2007. Lo è per come scrive, per il ritmo che hanno le sue frasi,
per la costruzione dei testi, piccoli collage di proprie e altrui parole, per
il continuo rimando tra l'attualità e l'arte. Berger si mette dentro i pezzi
che scrive, in senso fisico, getta pasolinianamente il proprio corpo nella
lotta, un corpo fatto di parole, sensazioni, momenti. Ecco, la parola giusta
per afferrare il lavoro di Berger è “istante” – un’altra delle parole che ci
portano dritti dritti al centro del suo lavoro. Istante: il momento in cui lo
scrittore cammina lungo una stradina pietrosa in una valle a Sud di Ramallah,
oppure visita la mostra di Bacon nella capitale francese, o si concentra a scrivere
al suo tavolo di lavoro nella casa del piccolo paese delle Alpi dove vive.
L'istante è l'eternità, qualcosa di assoluto, il punto di congiunzione tra i
vivi e i morti. Meglio: il modo attraverso cui i vivi sperimentano
l'atemporalità dei morti, entrano in contatto con loro. L'assoluto è
compartecipato così. L'istanza politica di Berger si situa qui, in una visione
del tempo che supera gli schemi ideologici e attinge a una forma di utopia,
quella marxista. Questa è la comune radice con Pasolini, scrittore utopico.
Spesso qualcuno torna a chiedersi: cosa avrebbe detto Pasolini? Cosa avrebbe
scritto della guerra irachena, della deflagrazione delle Torri gemelle, del
terrorismo islamico? Berger risponde a questi interrogativi come se fosse
Pasolini – eppure non lo è, per via della sua straordinaria bontà, sentimento
che invece non apparteneva all'eternamente ferito poeta friulano, dolce e
insieme violento. Lui, ebreo di ascendenze mitteleuropee, visita la Palestina e
descrive lo stato di subordinazione violenta in cui è tenuto quel paese dalle
truppe d'occupazione israeliane; londinese espatriato guarda con angoscia
l'attacco terroristico alla sua città, vede gli infiniti patimenti dei poveri
nel mondo e chiama gli oppressori per nome e cognome. Ci chiede di avere cara
ogni cosa, uomo, parola o pietra che sia, di dire da che parte stiamo, di
scegliere “tra il rispetto di sé e il caos di sé”. *** Berger fa della
letteratura il principale strumento per indagare e difendere i sentimenti più
intimi dell'uomo. L'altro aspetto fondamentale del suo lavoro è di essere
uno storyteller, ovvero un narratore di storie nell'epoca in cui
questo mestiere sembrerebbe definitivamente tramontato a vantaggio del
romanziere. Il narratore, secondo la celebre definizione di Walter Benjamin, è
una “persona di consiglio” per chi l'ascolta; il suo orientamento è pratico
(“consiglio, cucito nella stoffa della vita, è saggezza”, dice il filosofo e
scrittore tedesco); al contrario, scrivere un romanzo “significa esasperare
l'incommensurabile nella rappresentazione della vita umana”. La vita vissuta,
raccontata nei brevi affascinanti racconti-istantanee di Fotocopie (1996),è
la fonte principale della narrazione di Berger che è insieme un narratore e un
ascoltatore: un narratore perché sa ascoltare. Anche per questo nello scrittore
inglese, che ha pure centrato la propria attenzione sui temi visivi, è
decisiva, come già si è detto, l'insistenza sul tema del tempo. In un
film-documentario girato nella Pianura padana dallo scrittore Gianni Celati,
Case sparse, dedicato alle case abbandonate dai contadini, Berger è seduto in
riva al Po. Si appoggia a un tavolo e parla con alcuni fogli davanti. Riflette
ad alta voce sul rifiuto dell'uomo contemporaneo del tempo che passa, delle
rovine, di quella rovina vissuta che diventa, con il trascorrere degli anni, il
volto dell'uomo. Più avanti, nel corso del film, Berger è in piedi dentro un
edificio semicrollato. Indica fuori dalla finestra una piantagione di pioppi.
Gli alberi sono perfettamente allineati lungo linee parallele, così da creare
naturali prospettive in tante direzioni. Non una sola, bensì molte prospettive.
Berger parla della Storia, dell'inganno dell'ideologia della Storia: “A scuola
ci insegnano che c'è un unico sentiero, il grande sentiero della Storia, la
grande interpretazione storica del passato che sarebbe la via principale.
Balle! In realtà, quando ci si trova davvero di fronte al passato, ci sono
tanti sentieri da prendere, forse tanti quante sono le persone che guardano e
scelgono le loro strade”. In questa frase detta davanti alla macchina da presa
c'è l'intera idea del suo narrare, e del suo vivere. John Berger è un uomo, uno
scrittore, cui piace avviarsi non verso un'unica direzione, ma verso tante. Gli
piace l'idea dello scrivere come ascolto, ma anche come vagabondaggio: l'andare
nomade verso non un solo, ma molti destini, non solo individuali, ma anche
collettivi.
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