Il virus e la militarizzazione delle crisi - Raúl
Zibechi
Dobbiamo risalire al tempo del nazismo e dello stalinismo, quasi un secolo
addiètro, per trovare esempi di controllo della popolazione tanto esteso e
intenso come quelli che stanno avvenendo in Cina con la scusa del
coronavirus. Un gigantesco panopticon militare
e sanitario, che confina la popolazione costringendola a vivere rinchiusa e
sottoposta a permanente vigilanza.
Le immagini della vita di ogni giorno in ampie zone della Cina che ci arrivano, non
solo nella città di Wuhan e nella provincia di Hubei, dove vivono 60 milioni di
persone, danno l’impressione di un enorme campo di concentramento a
cielo aperto a causa dell’imposizione della quarantena per tutti gli
abitanti.
Città deserte dove transita soltanto il personale di sicurezza e sanitario. Si
misura la temperatura a ogni persona che entra in un supermercato, nei centri
commerciali e nei complessi residenziali. Se ci sono membri di una
famiglia in quarantena, soltanto uno di loro ha il diritto di uscire ogni due giorni per comprare i
viveri.
In alcune città, quelli che non usano le mascherine possono finire in
carcere. Si incoraggia l’utilizzo di guanti monouso e matite per premere i
bottoni dell’ascensore. Le città della Cina sembrano città fantasma,
fino al punto che a Wuhan quasi non si incontrano persone per la strada.
È necessario ribadire che la paura sta circolando a maggior velocità del
coronavirus e che, a differenza di quel che si fa credere, “il
principale assassino nella storia dell’umanità è stato ed è la denutrizione”,
come segnala una imperdibile intervista del portale Comune-info.
La consuetudine abituale nella storia è stata porre in quarantena persone
contagiate, mai si sono isolate in questo modo milioni di persone sane. Il medico e
accademico dell’Istituto di Salute Globale della University College
London, Vageesh Jain, si domanda: “Ha una
giustificazione una reazione tanto drastica? Cosa accade con i diritti delle
persone sane?”.
Secondo l’OMS, ogni persona contagiata dal coronavirus può contagiarne
altre due, mentre un malato di morbillo può contagiarne tra le 12 e le 18. Per questo Jain
assicura che oltre il 99.9% degli abitanti della provincia di Hubei non sono
contagiati e che “la gran maggioranza della popolazione intrappolata nella
regione non sta male ed è poco probabile che sia infettata”.
Il bollettino 142 del Laboratorio Europeo di Anticipazione Politica (LEAP)
fa questa riflessione: “La Cina ha scatenato un piano d’azione di emergenza
di dimensioni senza precedenti dopo soltanto 40 morti su una popolazione di un
miliardo e 200 mila persone, sapendo che l’influenza uccide in Francia 3 mila
persone ogni anno“. Nel 2019 l’influenza ha ucciso 40 mila persone negli
Stati Uniti. Il morbillo uccide nel mondo 100 mila persone
l’anno e l’influenza mezzo milione.
Il LEAP sostiene che siamo di fronte a un nuovo modello sociale di gestione
delle crisi, che può contare sul consenso dell’Occidente. L’Italia ha seguito
questo cammino nell’isolare dieci centri con 50 mila abitanti, quando c’erano ancora solo
poche decine di persone colpite dal virus.
La Cina esercita un sofisticato controllo della popolazione, dalla
video-vigilanza con 400 milioni di videocamere nelle strade fino al sistema di punti di “credito sociale” che
regola il comportamento dei cittadini. Adesso il controllo si
moltiplica, comprendendo la vigilanza territoriale con brigate di cittadini
“volontari” in ogni quartiere.
Vorrei fare qualche considerazione, non dal punto di vista sanitario
ma da quello che comporta la gestione di questa epidemia per i
movimenti anti-sistemici.
La prima è che, essendo la Cina la futura potenza egemone globale, le
pratiche del suo Stato verso la popolazione rivelano il tipo di società che le
élite vogliono costruire e propongono al mondo. Le forme di controllo che
esercita la Cina sono enormemente utili alle classi dominanti di tutto il pianeta
per tenere a bada los de abajo (quelli che stanno in
basso, ndt), in periodi di profonde e impetuose scosse economiche,
sociali e politiche, di crisi terminale del capitalismo.
La seconda è che le élite stanno usando l’epidemia come laboratorio
di ingegneria sociale, con l’obiettivo di chiudere la rete sulla popolazione
con una doppia maglia, a scala macro e micro, combinando un controllo minuzioso
a scala locale con un altro, generale ed esteso come la censura in Internet e
la video-vigilanza.
Siamo probabilmente di fronte a un saggio di prova di quel che si
applicherà nelle situazioni critiche, come i disastri naturali o gli tsunami
e i terremoti; ma soprattutto di fronte alle grandi esplosioni
sociali capaci di provocare crisi politiche devastanti per los
de arriba, (quelli che stanno in alto, ndt). Insomma, le élite
si preparano per eventuali sfide al proprio dominio.
La terza considerazione è che noi non sappiamo ancora come potremo
affrontare questi potenti meccanismi di controllo di grandi popolazioni,
meccanismi che si combinano con la militarizzazione della società di fronte
alle rivolte e alle sollevazioni, come accade, per esempio, in Ecuador.
_______________
Traduzione per Comune-info di marco calabria. Questo
articolo uscirà anche su La Jornada
Il Coronadigos - Marco Bersani
L’incredibile sproporzione tra il problema che si sta
affrontando -la scoperta e la diffusione del Coronavirus- e le misure
intraprese -lo stato d’eccezione applicato in alcune regioni e tendenzialmente
all’intero Paese- rivela qualcosa di molto profondo sulle dinamiche sociali e
di potere che stanno attraversando una società come quella italiana, sfinita da
tre decenni di cultura politica neoliberale, che, oltre a peggiorarne
pesantemente le condizioni di vita, ne ha polverizzato ogni legame sociale.
E, sebbene questa situazione presenti anche paradossi disvelanti -il virus
è arrivato via aereo con la cravatta dell’uomo d’affari, non via mare con gli
abiti sdruciti del migrante- e qualche volta persino divertenti -a quando il
primo barcone di industriali del nordest che cercherà di entrare in Romania e,
respinto, verrà soccorso dalla prima ong leghista con Salvini al timone?- ciò
su cui occorre porre l’attenzione sono almeno due aspetti inquietanti.
Il primo riguarda il potere e le vette di disciplinamento sociale
che sta sperimentando. Foucault diceva che le misure a suo tempo prese per
contrastare la lebbra e la peste costruivano due forme di potere differenti e
complementari con un unico scopo: quello di controllare la società.
E se le misure prese per contrastare la lebbra si basavano sul rigetto,
l’esclusione sociale e l’abbandono degli ammalati al loro destino, con
l’obiettivo di salvaguardare la società dagli stessi e di perseguire il sogno
della comunità pura, le misure prese per contrastare la peste
si basavano sul rigidissimo controllo e sulla ripartizione ossessiva degli
individui, che venivano differenziati, incasellati e normati, con l’obiettivo
di governare meticolosamente la società e di perseguire il sogno della comunità
disciplinata.
Scriveva Foucault al proposito “Questo spazio chiuso, tagliato con
esattezza, sorvegliato in ogni suo punto, in cui gli individui sono inseriti in
un posto fisso, in cui i minimi movimenti sono controllati e tutti gli
avvenimenti registrati, in cui un ininterrotto lavoro di scritturazione collega
il centro alla periferia, in cui il potere si esercita senza interruzioni,
secondo una figura gerarchica continua, in cui ogni individuo è costantemente
reperito, esaminato e distribuito fra i vivi, gli ammalati, i morti, tutto ciò
costituisce un modello compatto di dispositivo disciplinare”.
L’analogia con quanto sta accadendo in questi giorni è impressionante,
ma diventa inquietante se lo si paragona con la “minaccia” che incombe: non
siamo in presenza della lebbra, né della peste, bensì di un virus del
raffreddore, ovviamente da non sottovalutare in quanto nuovo e per il quale
nessuno ha di conseguenza sviluppato gli anticorpi, ma che per virulenza e
mortalità, ha una pericolosità estremamente limitata.
Sembra evidente come le misure intraprese per contrastarlo non rispondano
ad un’esigenza di salute pubblica, ma ad una lezione di pedagogia
disciplinare di massa. Da diversi punti di vista.
Il primo dei quali riguarda i soggetti: mentre è chiaro come la categoria
veramente a rischio sia quella degli anziani con patologie pregresse, tutte le
misure sono principalmente rivolte ai bambini, ai giovani e agli adulti.
Il secondo riguarda gli spazi: nelle zone prive di focolai sono
salvaguardati i luoghi della produttività di bambini e adulti, che devono
andare in classe e sul luogo di lavoro, ma non possono fare nient’altro,
essendo vietati tutti gli spazi della curiosità, dell’incontro,
dell’arricchimento culturale e spirituale, della socialità.
Il terzo riguarda i tempi: la chiusura alle 18 dei locali a Milano, a meno
di immaginare ascendenze vampiresche del Coronavirus, sembra un plateale invito
all’autoisolamento nel panico individuale, dopo aver comunque dato il proprio
contributo al Pil della nazione.
L’apogeo è stato raggiunto dalla Regione Marche che, pur in assenza di
qualsiasi focolaio, nonché di qualsiasi persona ammalata, ha chiuso tutte le
scuole e proibito tutte le attività di incontro, fino a farsi impugnare il
provvedimento dal governo, che ora dovrà spiegare al solerte governatore
come, affinché la pedagogia disciplinare funzioni, serve almeno una
parvenza di shock (che so, un malato), altrimenti il re viene visto
nudo da tutti.
Questo ci porta al secondo aspetto inquietante di tutta questa vicenda. E
riguarda la società e la sua passività. Com’è infatti
possibile che tutto questo avvenga senza alcun sussulto sociale, che non siano
le battute ironiche che viaggiano via social? Come mai, da un lato all’altro
della penisola, si fa incetta di amuchina indipendentemente dal rischio reale?
Perché abbiamo accettato di trasformare le maschere di carnevale, allegre,
variopinte e reciprocamente comunicanti, con mascherine tristi e monocolore con
le quali transitiamo su autobus e metropolitane, comunicando tensione ed
ostilità?
C’è qualcosa di molto profondo che sta emergendo in questi giorni, al punto
da aver quasi ammutolito personaggi come Salvini di fronte allo stupore di un
sogno, per quanto a sua insaputa, realizzato: un popolo che vive di paura
e che si fa disciplinare. Addirittura grato al potere di aver finalmente identificato
un nemico reale e di aver dato un nome ad un’angoscia da insicurezza che era
divenuta insopportabile.
Non si tratta di proporre eccentriche violazioni ai divieti imposti o
velleitarie chiamate all’esodo da questa situazione paradossale: si tratta di
iniziare a interrogarci tutte e tutti assieme se e per quanto tempo
continueremo a consegnare le nostre esistenze e la loro dignità a chi, una
volta utilizzando la trappola del debito per respingere ogni rivendicazione di
diritti e l’altra utilizzando un’epidemia per disciplinare l’intera società, ci
chiede di interiorizzare la solitudine competitiva come unico
orizzonte esistenziale.
da qui
Il
contagio autoritario - Emanuele
Giordana
L’Asia è
grande e tentare una sintesi della sua risposta al virus è quasi impossibile.
Si possono però studiare tendenze e persino dei buoni esempi. Se escludiamo il
pianeta Cina, si potrebbe tentare una divisione.
Paesi alla
frontiera con la Rpc, la sua «cintura» geografica meridionale: Cambogia, Laos,
Vietnam, Myanmar, vicini ma tra i meno colpiti al mondo. Paesi a grandi numeri,
dall’Indonesia alle popolatissime nazioni dell’Asia del Sud con relativamente
«pochi casi». Paesi ricchi, tecnologicamente avanzati ma non sempre socialmente
virtuosi (Corea del Sud, Malaysia, Singapore). Infine le aree della guerra più
o meno conclamata, dall’Afghanistan agli endemici conflitti birmani.
IL MISTERO
DELLA CINTURA. Se si guarda
una tabella salta all’occhio che in Asia solo cinque Paesi hanno decessi zero.
Escludendo Timor Est (24 casi 0 decessi) e Turkmenistan (0 casi 0 decessi), gli
altri sono Vietnam, Cambogia e Laos cui si può aggiungere il Myanmar (solo 6
decessi). Sono i Paesi della «cintura» Sud della Cina, alla periferia
dell’Impero dunque e i più vicini all’epicentro di Wuhan (anche l’Asia centrale
a Ovest è poco colpita ma è distante dall’epicentro).
Circa 200
milioni di abitanti in quattro nazioni che ospitano comunità cinesi e dove c’è
un vasto via vai di lavoratori cinesi e non da e per la Cina. Innanzi tutto han
chiuso subito le frontiere con la Rpc: scelta commercialmente dura ma
intelligente.
Poi hanno
isolato interi villaggi al primo caso (il Vietnam già da in febbraio) e
allestito quarantene in luoghi come i monasteri (Myanmar) sapendo di avere
strutture cliniche molto fragili. I positivi vengono subito isolati in
ospedale, identificati e resi noti (senza il nome) per età, sesso e residenza.
Si sa così dove non andare e chi è del posto identifica il malato e deve
autodenunciarsi.
SOSTENERE che sono regimi autoritari o
dittature mascherate (Phnom Penh è l’unica capitale che desta qualche sospetto
sui numeri) è riduttivo. Sembra semmai aver funzionato una logica culturale di
autodisciplina di villaggio dove la salute resta un bene collettivo da
preservare.
In Myanmar
in ogni quartiere è stato allestito un posto di blocco «civile» dove lavarsi le
mani. Se non hai la mascherina ti fanno un cenno col capo. Disciplina e autodisciplina
oltre alla pregressa esperienza della Sars. Più consigli e aiuti dalla Cina,
interessata a non guastare i rapporti coi primi vicini della Via della Seta.
«Nel caso
del Vietnam – spiega Pietro Masina, dell’Orientale di Napoli – è interessante
il dibattito che si è svolto nel Vietnam Studies Group, gruppo di accademici e
ricercatori, che – a parte qualche polemica sulla natura autoritaria del regime
– ha sostanzialmente confermato il fatto che il Paese non ha nascosto i dati.
Ne abbiamo avuto esperienza diretta seguendo una ricercatrice tornata in
Vietnam da Londra ammalata. Del resto, con 100 casi attivi, il Vietnam aveva
messo in quarantena fino a 90mila persone».
UN LOCKDOWN
DA 17MILA ISOLE. La
gestione del virus in Indonesia è stata invece ondivaga, con regole incerte e
litigi tra governo centrale e province e col governatore della capitale.
Un’inchiesta
della Reuters in aprile sosteneva che i morti fossero almeno
due volte tanto i dichiarati. «Il virus è stato preso alla leggera – dice lo
scrittore Goenawan Mohamad – ma dopo un inizio goffo, il presidente Jokowi ha
preso il comando e attualmente ci sono piani per affrontare il problema. Ma ci
sono anche 250 milioni di persone sparse su 17mila isole: è un Paese
decentralizzato, con governi locali eletti dal popolo e una burocrazia
inaffidabile. Il lockdown alla fine è poroso e lo Stato non è finanziariamente
abbastanza forte da sostenere i danni all’economia così che le persone stanno
diventando irrequiete. Finora, il governo ha evitato metodi draconiani anche
per via di un passato militare e autoritario, ma non credo che riceveremo buone
notizie in futuro. Nemmeno credo però che l’Indonesia si stia avvicinando al
Brasile».
Faisol Reza,
parlamentare ed ex attivista che fu sequestrato dall’esercito nei giorni della
caduta della dittatura di Suharto (1998) difende Jokowi: «Ha tre problemi: la
capacità finanziaria del governo, la mancanza di fiducia dei funzionari e gli
ostacoli legali. Jokowi è fiducioso su come si può affrontare il virus, ma lo è
meno sull’economia. Ha diviso l’onere del governo centrale coi governi
provinciali e regionali e attuato il distanziamento su larga scala ma con la
possibilità di tornare ai villaggi dalle rispettive famiglie. C’è un problema
con funzionari e ministri che non osano prendere decisioni a causa di
esperienze passate con strascichi legali e hanno chiesto garanzie per prendere
provvedimenti senza rischi. Gli ostacoli legali? La legge sull’autonomia
regionale che limita l’azione del governo centrale, una legge che Jokowi vuole
modificare». Ma questo è vero allora anche per l’India o il Pakistan, con
grandi numeri e difficoltà tra potere centrale e decentrato?
MOLTA GENTE
MOLTO VIRUS? Goenawan
sostiene di no: «Rispetto all’India, dove migliaia di lavoratori migranti hanno
dovuto subire il blocco, gli indonesiani sono in condizioni migliori. Non ci
son state famiglie sbattute sotto i ponti o negli scantinati. Il sostegno
sociale e la distribuzione di cibo per i nuovi disoccupati hanno dato sinora
risultati relativamente buoni».
In India,
com’è noto, il virus ha invece scatenato l’islamofobia oltre a far pagare un
caro prezzo ai migranti interni. Ma i numeri Rispetto agli abitanti, tutti i
grandi Paesi dell’Asia del Sud – così come l’Indonesia – registrano pochi casi
e pochi decessi in realtà sovrappopolate: l’India con quasi un miliardo e mezzo
di abitanti, il Pakistan con oltre 200 milioni, il Bangladesh con 160.
Sono stati
accusati di nascondere i dati. Vediamolo in Bangladesh: «La mia ipotesi – dice
lapidariamente David Lewis, docente della London School autore tra l’altro di
Bangladesh: Politics, Economy and Civil Society – è che i numeri in Bangladesh
siano drammaticamente sottovalutati a causa del sistema sanitario debole e di
pochissimi test».
Una tesi
condivisa dal suo collega bangladese Abul Hossain della Green University di
Dacca: «I pochi test ci mettano in una situazione buia e pensiamo che i dati
diffusi sui decessi siano la metà di quelli reali perché un gran numero di
persone morte per il virus non vengono conteggiato dalle statistiche. Infine
riteniamo che ci sia un numero enorme di asintomatici in un Paese dove, l’anno
scorso, il budget sanitario era solo lo 0,9% del Pil».
RICCHI E
SPIETATI. Nei
Paesi ricchi (Tokyo è appena uscita dall’emergenza) spiccano i casi di Corea,
Malaysia e Singapore, nonostante siano avanguardie tecnologiche con la patente
di democrazie, un benessere diffuso e buoni ospedali.
Si sono
distinti per dei vistosi buchi neri sociali. Quando Seul ha visto una ripresa
del contagio iniziato a maggio con un focolaio nei club Lgbtq, si è diffusa una
reazione razzista nei confronti del diverso, identificato come untore per le
sue pratiche sessuali fuori norma. Singapore e Malaysia hanno fatto
altrettanto, se non peggio, coi migranti.
La
città-stato li ha rinchiusi in grandi dormitori dove sono scoppiati focolai di
Covid-19. La Malaysia ha messo molti migranti in prigione e perseguito i
giornalisti che hanno raccontato la svolta autoritaria contro i più deboli: una
forza lavoro immigrata cui Kuala Lumpur, come Singapore, non può rinunciare ma
che ha cercato di nascondere sotto il tappeto.
VIRUS E
CONFLITTI. Se il
Covid-19 abbia aiutato il governo di Kabul a fare un accordo interno dopo mesi
di stallo e contestazioni del risultato elettorale e se la tregua ora stipulata
tra l’esecutivo di Ghani e i Talebani sia solo merito del virus resta da
dimostrare.
Certo sembra
aver aiutato i vari protagonisti a un po’ di sano pragmatismo: a nessuno piace,
già in crisi di consenso, perderne altro per colpa di una malattia. Ma la
richiesta di tregua dell’Onu a marzo, riecheggiata dal Papa, non ha funzionato:
né in India, né in Thailandia.
Solo in
parte nelle Filippine e nel Myanmar dove però il cessate il fuoco, decretato a
Yangoon il 10 maggio, ha escluso le aree… dove si combatte. Non sarebbe
sbagliato dire che il Covid ha spinto l’Asia verso una svolta autoritaria.
Sperando che non diventi virale.
da qui
Nessun commento:
Posta un commento