Nel giugno
2017, alla prova scritta di Italiano della Maturità (fatico ancora a chiamarlo
Esame di Stato), veniva proposta come traccia per l’analisi del testo una
poesia di Giorgio Caproni, Versicoli (quasi) ecologici, tratta
dalla raccolta postuma Res amissa (1991, a cura di Giorgio
Agamben):
Non uccidete
il mare,
la
libellula, il vento.
Non
soffocate il lamento
(il canto!)
del lamantino.
Il galagone,
il pino:
anche di
questo è fatto
l’uomo. E
chi per profitto vile
fulmina un
pesce, un fiume,
non fatelo
cavaliere
del lavoro.
L’amore
finisce dove
finisce l’erba
e l’acqua
muore. Dove
sparendo la
foresta
e l’aria
verde, chi resta
sospira nel sempre
più vasto
paese
guasto: “Come
potrebbe
tornare a essere bella,
scomparso
l’uomo, la terra”.
Come
riportavano i quotidiani del giorno dopo, i poveri maturandi erano perplessi e
preoccupati. “Caproni? E chi è? Chi l’ha mai fatto?”. Già.
Nell’ultimo anno delle nostre superiori, i poeti più “moderni” che si fanno sono
di regola Gozzano, Saba, Ungaretti, Montale. Tutti nati nell’Ottocento. Alla
scuola italiana uno come Caproni, che è del 1912, sembra ancora oggi troppo
“nuovo”, troppo “giovane”. Intendiamoci, nei manuali è presente (come sono
presenti Sereni, nato nel 1913, Fortini, 1917, o addirittura Zanzotto, 1921),
ma è difficile che gli insegnanti gli dedichino spazio; sia perché lo spazio è
poco, sia perché raramente nei loro studi universitari se ne sono dovuti
occupare, e dopo la laurea, per la maggior parte di loro, la poesia
“contemporanea” resta un’area “di nicchia”, riservata ai cultori e agli
specialisti. Il medio docente di lettere sa certamente chi sono Diego Maradona,
Raffaella Carrà o Fabrizio De André, ma è improbabile che conosca Giorgio
Caproni (per non parlare dei poeti delle generazioni successive). Fine della
recriminazione.
Il lato
positivo della notizia – come osservavano molti commentatori nei giorni
seguenti – era che finalmente, dopo anni di Quasimodo, Ungaretti, Montale,
Saba, il Ministero avesse deciso di mettere in primo piano un poeta rimasto in
ombra.
Come non
essere d’accordo? E tuttavia, chi ha letto Caproni sa che la poesia proposta
non lo rappresenta minimamente. Anzi, diciamolo: è fuorviante. L’autore stesso
qualifica questi suoi come versicoli: versi da poco, versi
marginali (pubblicati postumi, oltretutto).
Probabilmente,
la scelta dei funzionari del Ministero è caduta su quel testo perché più
immediato e accessibile di altri, e soprattutto (come si diceva una volta)
più edificante: un “messaggio” ecologista mosso da ottime
intenzioni, che non si spinge però più in là della conferma di valori
sacrosanti e risaputi. Una rassicurante predica in versi. Ma non è, la poesia
(e quella di Caproni in particolare), giusto il contrario di una predica?
*
Leggiamo un
testo dalla raccolta Il franco cacciatore, Telemessa (1976):
Gridava come
un ossesso:
“Cristo è
qui! È qui!
LUI! Qui fra noi! Adesso!
Anche se non si vede!
Anche se non si sente!”
La voce, era
repellente.
Spensi.
Feci per andare al cesso.
Ci s’era
rinchiuso LUI,
a piangere.
Una statua di gesso.
Certo,
proporre una pagina come questa alla Maturità avrebbe creato imbarazzo e
scandalo; ma c’è più Caproni (e, credo, più poesia) in questa Telemessa che
nell’ecologismo di riporto dei “versicoli” citati all’inizio. In Telemessa –
più che nel testo scelto dal MIUR – si incontrano anche i tratti formali
caratteristici dell’autore livornese: l’uso insistito della rima (ossesso:
adesso: cesso: gesso; sente: repellente), i versi brevi, gli emistichi
disposti “a scalino”, fluttuanti in ampi spazi bianchi, il ritmo spezzato, la
sintassi smagrita e aspra.
*
La stessa spaesante
spezzatura formale, la stessa mancanza di prediche e di certezze, la stessa
teatralità, troviamo in Sconcerto (da Il Conte di
Kevenhüller, 1984):
“Siamo” –
dissero – “i restauratori.
Ci avete
chiamati.
Mostrateci
gli edifici
in
causa.
Per quanto lontano
spingiamo
l’occhio, noi
di qua non
scorgiamo
che dirupi e
valloni.
Mostrateci
le costruzioni
vostre”.
Erano forti.
Alti.
Tutti più
alti del vero.
Ci guardammo
atterriti.
La Reggia,
il Tribunale, il Duomo…
Com’erano,
così paurosamente
– e in un
sol lampo – spariti?
(Non erano
mai esistiti?)
Già nei due
esempi riportati, forse, chi legge può avvertire il sapore di quel disincanto
allarmato, di quel dolente nichilismo che percorre tutta la poesia di Caproni,
in contrasto con una leggerezza e una cantabilità di superficie. Le sue sono
canzonette acri e straziate, dove la leggibilità “popolare” s’innesta con una
meditazione amara e mai risolta sul mondo, sulla vita dell’uomo, e –
soprattutto negli ultimi anni – sulla morte di Dio (o sul suo
“suicidio”).
“Oggi non
c’è dubbio (…) che Caproni sia tra i massimi e più originali poeti del
dopo-Montale”, scrive Pier Vincenzo Mengaldo nell’Introduzione al
Meridiano apparso nel 1998 per la cura di Luca Zuliani. “Ma a lungo la sua è
stata invece una storia subacquea, tanto da non consentirgli neppure l’ingresso
nei Lirici nuovi di Anceschi (1943), bibbia poetica
dell’epoca, quando già aveva fatto conoscere alcune raccolte più che notevoli.”
Il
riconoscimento della statura di Caproni, a lungo considerato un poeta “minore”,
ha inizio negli anni ’50; in un articolo sulla rivista Paragone (oggi
in Passione e ideologia) in occasione dell’uscita delle Stanze
della funicolare (1952), Pasolini parla tra l’altro di “qualcosa di
estremamente serio, un’originaria inettitudine a scherzare, a giocare, che lo
scherzo e il gioco gela dentro una specie di irretimento, amarissimo” e osserva
infine: “com’è (…) libero questo poeta da moralismi, da tesi; in questo senso
uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario”. Nulla a che fare,
come si vede, con l’immagine di autore “edificante” proposta ai maturandi. Forse
è destino dei poeti pagare con la banalizzazione il loro biglietto d’ingresso
nelle nostre aule; ma l’identificazione di Caproni con i Versicoli
(quasi) ecologici (come di Pascoli con – poniamo – X agosto)
rischia non solo di far perdere a generazioni di studenti il meglio di questo
autore, ma di allontanarne molti dalla lettura di versi in genere. Se la poesia
è più o meno Il ragazzo della Via Gluck, tanto vale ascoltare
le canzoni.
E di nuovo
ricado nelle recriminazioni. L’intento di queste righe, invece, era quello di
fornire, a chi non l’abbia letta, qualche sommaria indicazione sulla poesia di
Caproni, nella ricorrenza della sua scomparsa (22 gennaio 1990). Quali sono i
suoi temi centrali? In uno scritto del 1977, Giovanni Raboni ne individua tre:
la città, la madre, il viaggio.
Il primo
andrebbe declinato al plurale; due sono infatti le città che Caproni ha
cantato: Genova (dove è cresciuto e ha vissuto a lungo) e Livorno (dove è
nato). A Genova è dedicata quella che Mengaldo considera la sua prima grande
raccolta: Il passaggio d’Enea (1956), che contiene le Stanze
della funicolare da cui prendeva le mosse l’articolo di Pasolini
citato sopra. Per farci un’idea del modo in cui il poeta rappresenta la città,
leggiamo Interludio, che introduce le Stanze:
E intanto ho
conosciuto l’Erebo
– l’inverno
in una latteria.
Ho
conosciuto la mia
Prosèrpina,
che nella scialba
veste lavava
all’alba
i nebbiosi
bicchieri.
Ho
conosciuto neri
tavoli –
anime in fretta
posare la
bicicletta
allo
stipite, e entrare
a perdersi
fra i vapori.
E ho
conosciuto rossori
indicibili –
mani
di gelo
sulla segatura
rancida, e
senza figura
nel fumo la
ragazza
che aspetta
con la sua tazza
vuota la mia
paura.
Ho
conosciuto… ho conosciuto… Il verbo ricorrente ha all’inizio un oggetto alto, grave: l’Erebo, il
tenebroso oltretomba dei greci; ma subito l’aura mitologica si abbassa fino a
una latteria; Proserpina, regina degli Inferi, è una sguattera; le
anime arrivano in bici. Il quadro mitico-metafisico si concentra via via sui dettagli
più crudamente quotidiani: i neri/tavoli, i rossori/indicibili, la segatura/rancida. È
questo il più duro oggetto del conoscere. Genova si trasfigura
in Erebo; ma non c’è traccia di moralismi, di ideologismi (la città come
inferno dei diseredati, poniamo). La paura senza oggetto del
poeta va incontro non a una kòre, ma a una molto ordinaria ragazza (ordinaria,
ma spettralmente senza figura), a un’allegoria (Come
un’allegoria si intitolava la prima raccolta di Caproni) che a partire
dalla realtà più triviale rinvia – con la sua tazza/ vuota – a
una dimensione arcana e perturbante.
A Genova,
nello stesso libro, è dedicata una lunga poesia dalla forma davvero
inusuale, Litania, caratterizzata dall’ellissi del verbo e dal
susseguirsi – quasi in un antico rituale – di canto e antifona, in rima
baciata:
Genova mia
città intera.
Geranio, polveriera.
Genova di
ferro e aria.
Mia lavagna, arenaria.
Genova città
pulita.
Brezza e luce in salita.
Genova
verticale,
vertigine, aria, scale.
(…)
*
Il tema
della madre (e di nuovo quello della città: Livorno, questa volta) è al centro
di una delle raccolte più celebrate di Caproni, Il seme del
piangere (1958), e in particolare della sezione Versi livornesi,
dove il poeta rievoca Anna Picchi (Annina), la madre appena scomparsa, e ne fa
un ritratto giovanile, dai toni quasi edipici (il figlio è il “fidanzato” di
Annina ragazza), muovendosi tra alta finzione letteraria e autentica
commozione. Leggiamo l’invocazione all’anima (Preghiera) che apre il
poemetto:
Anima mia
leggera,
va’ a
Livorno, ti prego.
E con la tua
candela
timida, di
nottetempo,
fa’ un giro;
e se n’hai il tempo,
perlustra e
scruta e scrivi
se per caso
Anna Picchi
è ancor viva
tra i vivi.
Proprio
quest’oggi torno,
deluso, da
Livorno.
Ma tu, tanto
più netta
di me, la
camicetta
ricorderai,
e il rubino
di sangue,
sul serpentino
d’oro che
lei portava
sul petto,
dove s’appannava.
Anima mia,
sii brava
e va’ in
cerca di lei.
Tu sai cosa
darei
se la
incontrassi per strada.
*
Il terzo
tema indicato da Raboni, quello del viaggio, si ritrova in vari luoghi
dell’opera di Caproni, dalle già citate Stanze della funicolare al Congedo
del viaggiatore cerimonioso (1964), alla stranita esplorazione de L’ultimo
borgo (da Il franco cacciatore, 1982).
Il viaggio,
in questo poeta, non assume mai – come nella tradizione decadente – i caratteri
di un’avventura eccezionale, visionaria: è un’esperienza del tutto ordinaria,
compiuta da anonimi utenti di mezzi pubblici, che si tinge
però di una luce metafisica. I passeggeri o i camminatori di Caproni si muovono
nel mondo più banalmente reale, ma – come in L’ultimo borgo –
giungono ai suoi margini, alla frontiera oltre la quale
credono di scorgere i “luoghi non giurisdizionali”. Un viaggio è anche quello
dei diversi cacciatori che animano le pagine dei libri più recenti, dal
weberiano Freischütz al Conte di Kevenhüller, sulle tracce di
una Bestia che eternamente sfugge, e che è difficile persino identificare.
Come si vede
anche solo da questa troppo rapida rassegna, la poesia di Caproni è ben più
ricca e complessa di quanto potrebbero far credere certe semplificazioni da
sussidiario. Caproni, che ha fatto per tutta la vita il maestro elementare, non
rifuggiva certo dalla semplicità; ma la sua è (per citare un suo verso) una
semplicità fine e popolare, capace di inapparenti profondità e di
spaesamenti vertiginosi. Caproni ha studiato violino, lo suonava e amava la
musica; ma la “musicalità” dei suoi versi non scivola mai in una nebbiolina
sonora: è spigolosa, aspra, rotta da enjambements, inattese
interiezioni (“Le carrette del latte ahi mentre il sole / –sta per pungere i
cani”), pause, lacune. La sua poesia perviene – negli ultimi anni – a una sorta
di tormentata teologia negativa; ma le parole sono sempre limpide, chiare,
familiari. Le più comuni, eppure le più sue. Quando – leggendo un giornale o
parlando con la gente – la lingua comincia a fluttuarmi attorno come un vapore
opaco e grigiastro, mi basta aprire una pagina di Caproni per ritrovare in ogni
verso la cara luce delle parole italiane: vetro, mano, spavento,
battere, alba, binario...
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