“Il passato che non trapassa”, dovremmo dire. Il “Decreto semplificazioni”
produce, fin dal primo sguardo, una sgradevole sensazione di déja vu:
l’esperienza psichica che – cito la Treccani – “richiama alla mente cose già
viste, già vissute e sperimentate, specialmente con riferimento […] a
mode e tendenze prive di originalità, identiche ad altre precedentemente
viste”.
Si era detto che se una qualche utile lezione si sarebbe potuta trarre
dallo shock del coronavirus, questa sta nella necessità di cambiare le pessime
pratiche che ci hanno portato alla rovina. Di cogliere dove si è sbagliato, e
invertire la direzione di marcia.
Beh, guardando questo “piano” – falsopiano dovremmo dire –
proposto dal governo dovremmo concludere che abbiamo sofferto invano. Più che
una semplificazione delle cose è una semplificazione del pensiero quella che
emerge.
Un aspetto che appare tanto più evidente se al livello della
formalizzazione procedurale del decreto si incrocia quello dei contenuti
materiali cui esso si applica: delle “cose da fare” in modo semplificato e
a cui destinare le risorse pubbliche necessarie.
Insomma: delle Opere Pubbliche da finanziare e realizzare con la dovuta
necessità e urgenza. E’ su questo che si valuta una politica. Ed è su questo
che il Governo toppa.
Prendiamo ad esempio il documento #italiaveloce,
che costituisce il contributo del Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti alla “rivoluzione” in corso: 32 slides pubblicate il 6 luglio in
sincrono con le 11 presentate della Presidenza del Consiglio sul Decreto
Semplificazioni, che costituiscono per ora l’unica esemplificazione pratica
degli intenti governativi. E che danno corpo alla parte più consistente del pacchetto
di risorse pubbliche da mettere in campo nei prossimi mesi (200 miliardi di
Euro, 30 in più della cifra che si spera di ricevere col Recovery Plan).
Si tratta di un documento dal titolo ampolloso – “Piano delle
infrastrutture e dei trasporti per un’Italia ad Alta velocità. L’Italia
resiliente progetta il futuro: nuove strategie per trasporti, logistica e
infrastrutture” -, che si apre con un formale richiamo alla crisi Covid-19,
alla “deep uncertainty” (proprio così, in globalese stretto) che
imporrebbe di abbandonare le “vecchie” logiche per aprire una “nuova stagione”
di pianificazione strategica delle infrastrutture e dei trasporti.
Ma poi, senza soluzione di continuità ci riciccia una massiccia dose di
fondi di magazzino in lista d’attesa da anni, confluiti in buona parte nel
lungo, indifferenziato elenco delle “Opere prioritarie” tra le quali non è
ben chiaro in cosa consista la ragione della “priorità”. Non è solo lo
scandalo del TAV Torino Lione che apre spavaldamente – provocatoriamente
verrebbe da dire – la lista delle “Direttrici ferroviarie” nonostante le
infinite dichiarazioni di inutilità, dannosità, eccessiva esosità provenienti
da ogni dove, ultima la Cote dei Conti europea.
E’ tutto l’insieme che sa di stantio, come provenisse da una altro tempo e
da un altro spazio, come se nulla intanto fosse successo. Non si è dovuta
sforzare molto la ministra De Micheli: le è bastato fotocopiare gli
elenchi del “vecchio” decreto “Sbloccacantieri” prendendolo dagli archivi del
Ministero. Ci sono le stesse tratte, le stesse voci, finanche le
stesse espressioni che da anni stancamente ritornano: il Terzo Valico dei Giovi
tra Alessandria e Genova, la galleria del Brennero, il nodo Alta Velocità di
Firenze, le Pedemontane veneta e lombarda, l’autostrada Cispadana, la nuova
pista dell’aeroporto di Firenze (cara solo a Matteo Renzi).
E la stessa logica che mette le Grandi Opere in cima a tutto, mentre il
resto – quello che veramente cambierebbe tutto – finisce nei titoli di coda.
Legambiente, proprio all’inizio dell’anno, aveva indicato 170 opere
prioritarie per il Green New Deal italiano, tra le quali la
categoria più consistente riguardava il sistema dei trasporti, ma accanto ad
esso “la messa in sicurezza del territorio dal rischio idrogeologico e sismico,
le bonifiche, la depurazione, gli impianti a sostegno dell’economia circolare”.
Vi figuravano, ai primi posti la bonifica delle falde venete avvelenate
(Vicenza, Padova e Verona), “la messa in sicurezza dell’acquifero inquinato del
Gran Sasso”, la bonifica della Valle del Sacco nel Lazio, e degli “oltre 10
milioni di metri quadrati di coperture in eternit” in Calabria.
E poi la rete ferroviaria sarda (a scartamento ridotto e priva di
elettrificazione), il raddoppio dei binari tra Fiumefreddo (Ct) e Giampilieri
(Me), il porto di Gioia Tauro privo del collegamento ferroviario con la rete
nazionale, le strade provinciali di Enna in perenne dissesto, la diga sul
Metrano rimasta incompiuta “nonostante abbia inghiottito un mare di denaro
pubblico”, la rete fognaria catanese, i ponti lombardi sui fiumi Po e Ticino,
fragili e rugginosi…
Di tutto questo c’è quasi nulla, nell’ elenco seriale del Ministero, e il
poco che c’è va cercato col lanternino. Oppure è confinato genericamente nelle
ultime slides, come avviene per il Piano degli interventi nel
settore idrico, indicato genericamente, senza alcun dettaglio geografico o
funzionale, con un finanziamento ridicolo (590 milioni investiti, 988
programmati); e per la mobilità nelle aree urbane e metropolitane, un nodo
strategico per modificare gli stili di vita e la vivibilità rispetto al quale
le risorse disponibili appaiono francamente scandalose (meno di 3 miliardi e
mezzo programmati sul piano nazionale e 2,6 miliardi per le aree
metropolitane).
Ma è soprattutto sulla questione della riqualificazione energetica e
statica del patrimonio edilizio pubblico e privato che il piano ministeriale
naufraga. E’ un terreno su cui fin dal 2012 l’Unione Europea si è impegnata con
una direttiva e con la messa a disposizione di fondi strutturali, fondamentale
per affrontare adeguatamente la crisi climatica ed ecologica e nel contempo per
costituire un formidabile volano di sviluppo economico e occupazionale.
Un perfetto punto di incrocio tra esigenze di civiltà e utilità economica,
che potrebbe mettere in moto una rete fitta, territorialmente innervata, di
micro-interventi da parte di centinaia di migliaia di piccole e piccolissime
imprese artigiane, forse milioni, con vantaggi per tutti.
Ci si sarebbe aspettati che dopo lo shock da coronavirus e la grande gelata
dell’economia fosse quella la scommessa principale su cui puntare, per la
capacità immediata di mettere in movimento energie tecniche e monetarie e il
coinvolgimento diretto dei cittadini.
Invece niente. Per trovare un vago riferimento al tema occorre spigolare
tra le righe delle ultime slides, decifrare le espressioni nel
capitolo (genericissimo) dedicato alla “Rinascita urbana” e ipotizzare un
riferimento nella riga relativa al “Potenziamento” tra gli “Interventi per
nuovi modelli dell’abitare” nell’ambito di un capitolo a cui sono stati
destinati in tutto 854 milioni di euro – ovvero una miseria, all’interno di un
Piano da 200 miliardi!
E’, appunto, l’effetto fatto carne di quel vizio capitale della nostra
classe di governo, quale ne sia la provenienza originaria (a cui la ministra De
Micheli deve aver aggiunto del suo) che porta a mettere testardamente, contro
ogni razionalità ed evidenza empirica, le Grandi Opere al vertice della
piramide delle priorità, e tutto il resto a scendere man mano che la dimensione
degli interventi e soprattutto degli investimenti corrispondenti, si fa più
piccolo.
Un’idea tossica, a cui dobbiamo tanti dei guai che ci hanno afflitto in
questi ultimi decenni, dallo spreco di risorse all’incompiutezza dei progetti
alle devastazioni ambientali fino agli episodi di corruzione e di criminalità.
Eppure ormai anche i gatti sanno che la capacità di far fruttare le risorse
investite in lavori pubblici (quello che in gergo tecnico si chiama “effetto
moltiplicatore”) da tempo funziona in modo inversamente proporzionale alla
dimensione dell’investimento stesso. E che, appunto, l’”effetto
moltiplicatore” di una grande opera è minimo, per certi versi vicino allo zero,
rispetto a quello di opere di minori dimensioni ma a maggior distribuzione e
diffusione territoriale.
Non lo dico io che sono un notorio “gufo” – barbutun e
ideologicamente condizionato – ma fior di manuali di micro e macro-economia in
cui non si manca di rilevare come nel caso di opere impegnative come quelle
costituite da lunghi tunnel, tratte autostradali su terreni orograficamente
impegnativi con ponti e trafori, ferrovie ad alta velocità, il rapporto tra
capitale investito e lavoro occupato è nettamente sbilanciato sul primo
versante (prevalenza dei mezzi tecnologici sulla partecipazione umana) cosicché
la ricaduta occupazionale di ogni euro investito è minima e anche il suo valore
aggiunto. Al contrario per le attività labour intensive,
richiedenti concentrazioni minori di capitale.
Lo si può leggere anche su una fonte non certamente sospettabile di
ecologismo di sinistra come “Il Foglio”, in cui si afferma che “l’Italia
presenta alcuni dei più bassi effetti moltiplicatori degli investimenti
pubblici nell’area euro, prossimi allo zero e maggiori solo della Spagna,
passata alla storia prima della crisi per i propri aeroporti realizzati e mai
aperti”.
E la cosa è ripetuta anche da un economista non certo marxista come Andrea
Boitani (Sette luoghi comuni sull’economia, Einaudi 2015), il quale ci
spiega con molta chiarezza come in generale la logica della Grande Opera
presenti “un rischio di politica economica pro-ciclica e, dunque,
destabilizzante”, per il fatto che il settore “si presenta in generale
come tecnologicamente ‘maturo’, con limitate possibilità di ricadute
tecnologiche positive sugli altri settori dell’economia”, mentre
fenomeni di ‘picco’ e di esaurimento connaturati alla struttura stessa di
questo tipo di opere “sono difficili da gestire socialmente (di qui i cantieri
che non possono essere mai chiusi)”.
Inoltre – aggiunge Boitani – “il settore delle grandi opere coinvolge
poche produzioni per grandi quantità (quali ferro e cemento) ed è oggi molto
capital intensive (molto capitale per unità di prodotto), quindi con
ricadute occupazionali modeste per unità di spesa, contrariamente agli
“interventi di ripristino e riqualificazione del territorio” alle
“infrastrutture idriche e del tessuto urbano, ma anche alle manutenzioni delle
infrastrutture esistenti che, guarda caso, avevano avuto ampia parte nel grande
Piano Obama lanciato nel 2009 e realizzato con successo”.
Il fatto che questo non penetri nella zucca dei decisori pubblici, ma anche
in quella di un bel numero di imprenditori e di giornalisti la dice lunga da
una parte sul QI delle nostre classi dirigenti (per quelli che
proprio non ci arrivano) ma soprattutto sul fatto che la priorità che buona
parte di essi hanno in testa non è il bene comune, e nemmeno la logica di una
buona amministrazione, ma il vantaggio (questo purtroppo evidente) per chi ha
una qualche posizione di monopolio decisionale di un meccanismo che concentra
molto denaro in pochi punti focali.
E che quindi garantisce molto “potere di scambio” a chi gestisce le
risorse. Una tecnica in cui il PD è purtroppo diventato maestro (con Matteo Renzi in
cattedra ad honorem), il che ne fa, su questo terreno, in qualche misura
l’anima nera del Governo o comunque la componente frenante rispetto a una
domanda impellente e vitale di inversione di rotta, quale la crisi in cui siamo
precipitati e le radici malate che essa ha rivelato, imporrebbe.
E’ alla luce di queste considerazioni di carattere contenutistico che credo
si debbano valutare gli aspetti di carattere giuridico-formale che
costituiscono la trama complessiva del Decreto semplificazioni: le
(poche) buone idee che contiene – per esempio l’obiettivo di contrastare la
tendenza dei burocrati pubblici a negare o posticipare le autorizzazioni per
“paura” di risponderne per danno erariale, fonte di infinite lungaggini e anche
di potenziale corruzione -; e le (tante) idee problematiche di cui è
intessuto, a cominciare dall’allentamento del codice degli appalti e dalle
maglie larghe lasciate agli affidamenti diretti o senza bando di gara.
Questione spinosa, perché con le attuali tempistiche effettivamente la
moltiplicazione delle dilazioni e dei tempi morti diventava asfissiante. E
tuttavia da valutare anche alla luce dei rischi di opacità, abuso di potere,
favoritismo a danno della concorrenza e così via che un eccessivo allentamento
dei vincoli comporta.
Soprattutto da incrociare con la questione delle Grandi o Piccole opere di
cui si è discusso, perché se una più agile gestione dei meccanismi di
affidamento degli appalti per piccole opere ad ampia dispersione territoriale
appare tendenzialmente più innocua e nello stesso tempo utile, essa si fa
pericolosa per le grandi o grandissime, dove davvero esiste il rischio che i
soliti noti (a loro volta grandi o grandissimi) la facciano da padroni.
Senza contare che la maggior parte dei ritardi accumulati nel campo delle
opere pubbliche è determinata da problematiche emergenti dopo l’affidamento,
nell’accidentato percorso “in corso d’opera”, per effetto dei troppi
contenziosi aperti per richieste di varianti e di maggiori costi, per il
fallimento di imprese appaltatrici ex origine fragili o finanziariamente
malate, per una cattiva progettazione incapace di anticipare gli imprevisti, e
così via. Forse potrebbe anche essere accettabile un allentamento dei vincoli e
delle tempistiche “in ingresso”, a condizione della predisposizione di rigorosi
meccanismi di controllo in itinere, cosa di cui però nel decreto
non si parla.
C’è ancora tempo per una sostanziosa virata di bordo, in Parlamento, che
dica al Paese che quel che ci è accaduto in questi mesi che abbiamo alle spalle
ha comunque lasciato un segno. Che ci dica che la Ministra Paola De Micheli non
è tutto il governo, esattamente come un anno fa non avrebbe dovuto esserlo il
ministro Matteo Salvini. Un colpo d’ala, che non ci lasci nello stato d’animo
disperato di chi constata che qualunque cosa accada, comunque CAMBIARE NON SI
PUO’. Significherebbe aggiungere alla malattia biologica contro cui dobbiamo
ancora tener alta la guardia, una malattia morale dalla quale nessuna
mascherina potrebbe immunizzarci.
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