In questo smemorato e superficiale Paese, il ricordo –
la lezione – del G8 di Genova del 2001 non fa parte del discorso pubblico. Non
se ne parla, non se ne discute. Eppure, nella calda estate di 19 anni fa si
consumò un’esperienza politica dalle molte facce, che dice ancora molto,
moltissimo del nostro presente e del nostro futuro.
Nel luglio 2001 fu interrotta sul nascere
un’esperienza nuova, originale, promettente: un movimento di movimenti che
criticava con competenza e su scala globale il modello neoliberale. Era la
prima, importante critica alla globalizzazione economica dilagante. Pur di
stroncare quell’esperienza che cresceva fra le persone e attraversava le
frontiere, fu accantonato lo Stato di diritto. A Genova le forze di polizia
tornarono a sparare in piazza e un carabiniere uccise un ragazzo disarmato,
Carlo Giuliani; la tortura fu praticata su larga scala e per più giorni; le
garanzie costituzionali e l’habeas corpus furono sospesi. Fu
un’apparente vittoria dei poteri costituiti, ma in realtà una caporetto della
politica istituzionale, un drammatico punto di caduta delle democrazie
occidentali, che in Italia come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti non
ascoltarono le critiche e anzi le criminalizzarono, prima di annegarle nel
sangue. Stiamo ancora pagando quel tragico errore. Il collasso climatico in
corso, le crescenti diseguaglianze sociali, lo svuotamento delle democrazie e
da ultimo l’esplosione della pandemia da coronavirus – effetto diretto
dell’attacco agli ecosistemi e alla dignità della vita animale – dimostrano
quanto abbiamo bisogno di un radicale cambio di rotta. Di pensieri nuovi, di
modelli sociali diversi, fuori dall’ottuso perimetro disegnato dall’ideologia
neoliberale con le sue consunte parole d’ordine: crescita, mercato,
deregulation, meritocrazia, traducibili nel beffardo e amaro controslogan
lavora-consuma-crepa.
Stiamo davvero crepando. Crepano gli “scarti” della
storia, i profughi di guerra e i rifugiati ambientali, crepano gli esclusi dal
banchetto allestito dai finanzieri e dai tecnocrati del neoliberismo tuttora
dominante, crepano anche gli sfortunati – perfino nel primo mondo – colti dal
contagio e poco o mal curati da sistemi sanitari svuotati e privatizzati. In
realtà sta crepando un modello di società, e tutti o quasi tutti lo sappiamo,
ma è in atto un tentativo di rianimazione. I poteri forti, cioè i poteri reali,
non intendono cedere alcunché: vogliono che tutto continui come sempre e che
ogni crisi sia superata. Anche al prezzo di contraddire i propri dogmi:
salvando le banche private con fiumi di denaro pubblico nel 2008, eliminando
vincoli di bilancio e ogni altro impaccio al tempo della pandemia, pur di
ricominciare come prima più di prima, quindi più consumi, più viaggi, più crescita,
più disuguaglianze, più scarti della storia e al diavolo il clima, i virus, la
cura della vita sul pianeta. Destra e (ex) sinistra sul punto sono concordi.
Il dibattito politico, se così vogliamo chiamarlo, è
tutto interno al sistema neoliberale, concentrato su questioni contingenti,
indifferente alle emergenze globali del nostro tempo. La pandemia si è fatta
beffe di un modello che si credeva immutabile, ha reso evidente il disastro
ecologico e sociale implicito nell’economia della crescita illimitata e
incontrollata e ha quindi minato molte certezze, ma il tempo della riflessione
e della critica è durato poco più di un lampo. Chiusa la “fase uno”, superato
lo choc del confinamento domestico, il campo è di nuovo occupato dal “pensiero
unico” e dall’affannosa ricerca di nuove (in realtà vecchissime) promesse di
“sviluppo”: ancora autostrade, ancora aeroporti, ancora edilizia privata,
ancora TAV, di nuovo – addirittura – il ponte sullo Stretto di Messina. Il
rifiuto della lezione impartita dalla pandemia non potrebbe essere più
radicale. L’adesione al dogma scolpito da Margaret Thatcher – TINA, there
is no alternative, non ci sono alternative – resta intangibile, nei circoli
della politica e del potere finanziario, come nel piccolo (e sempre più surreale)
mondo degli economisti.
Non sorprende, allora, che non si ricordi il G8 di
Genova. Perché in quel tempo, a cavallo del millennio, il modello neoliberale
fu messo finalmente a nudo e milioni di persone, attraverso i continenti,
scesero in piazza per dire che un altro mondo era possibile. Cominciarono anche
a praticarlo, a sperimentarlo, quel mondo, e a proporre soluzioni concrete,
perché non erano – non eravamo – degli ingenui sognatori, e tanto meno degli
sciocchi teppisti, come si tentò di far intendere. A Genova nel 2001 per giorni
nei seminari e negli incontri pubblici si parlò della crisi del debito pubblico
e dei possibili rimedi, di una tassa sulle speculazioni finanziarie, dello
strapotere di una troika al tempo sconosciuta (Banca mondiale – Fondo monetario
internazionale – Organizzazione mondiale per il commercio), di sovranità
alimentare e agricoltura contadina, di diritto d’espatrio e di migrazioni, di
guerre incombenti, dell’acqua come bene comune e di esclusione dei brevetti dai
farmaci essenziali per affrontare le malattie epidemiche. La politica
istituzionale, gli economisti accademici, buona parte del mondo intellettuale
integrato nel sistema mediatico ufficiale scelsero di non ascoltare, di non
intervenire, di non partecipare a un dibattito che avrebbe potuto cambiare il
corso della storia. Per la sinistra europea novecentesca è stato un suicidio.
E tuttavia quel patrimonio di esperienze e di idee è
ancora a disposizione. La catastrofe ecologica non è un’astrazione e la ricerca
di un nuovo modello di società sarà il tema dominante dei prossimi anni, almeno
per quella fetta di società che non si rassegna al disastro annunciato e
all’obbligo di acquiescenza prescritto dall’ideologia neoliberale. La storia
non è finita e il mondo non si è fermato nel 2001: molte esperienze sono
cresciute e si sono trasformate, nuovi movimenti sono nati e si stanno
sviluppando. È importante, oggi più che mai, ricordare tutto, anche come è
andata a finire quasi vent’anni fa: con le democrazie che mettono da parte costituzioni
e libertà civili. Il resto, cioè tutto, è lotta politica da condurre sul piano
delle idee e facendo tesoro di quanto imparato in questi anni: la forza delle
reti sociali, la creatività dei movimenti, la generosità delle persone. La
memoria, diceva uno slogan in voga negli anni seguenti il G8 genovese, è un
ingranaggio collettivo. Oggi possiamo aggiungere: e una risorsa preziosa.
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