Con il nuovo
decreto “Rilancio”, al fine di contrastare gli effetti recessivi del
parziale lockdown produttivo, è stato introdotto il “reddito
di emergenza”, un nuovo tipo di reddito che si somma alle già molte tipologie
di reddito esistenti.
Recentemente,
in alcune città italiane il tema del reddito di base incondizionato è stato al
centro di mobilitazioni e presidi. Come già scritto in precedenza, sul tema del
reddito sta montando una certa confusione grazie al moltiplicarsi delle
terminologie usate. Per questo, senza alcuna pretesa di esaustività, crediamo
che sia necessario fare un minimo di chiarezza e procedere ad un’analisi
definitoria di tali molteplici tipologie.
Come prima
nota introduttiva, divideremo il tema di un diritto al reddito in due
macro-famiglie. Da un lato, il reddito come remunerazione, così
come sostenuto dalla scuola neo-operaista (alla luce dell’analisi dei nuovi
meccanismi di valorizzazione che vedono la vita alla base dei processi di
accumulazione), detto anche reddito primario; dall’altro, il reddito
come ammortizzatore e protezione sociale, per coloro che non possono
(perché non hanno i requisiti o per la limitatezza delle risorse) attingere
agli usuali strumenti di sicurezza sociale (sussidi di disoccupazione e forme
affini).
Il reddito
di base incondizionato come reddito primario entra nel processo di
distribuzione della ricchezza, al pari del salario e affini (remunerazione del
lavoro), profitto (remunerazione dell’attività imprenditoriale, rendita
(remunerazione della proprietà, qualunque essa sia). Da questo punto di vista,
essendo il reddito di base remunerazione di quel tempo di vita produttivo che
non viene riconosciuto come tale (tempo di formazione apprendimento, tempo di
relazione, tempo di cura, tempo di svago, tempo di gioco, tempo di ozio per sé
e le/gli altre/i), risulta complementare e non sostitutivo del salario come remunerazione
del tempo certificato di lavoro. Reddito e salario tendono quindi a convergere
in un’unica rivendicazione sociale.
Il reddito
come ammortizzatore e protezione sociale, invece, entra nella re-distribuzione
del reddito, una volta che la ricchezza prodotta è stata distribuita tra i
fattori produttivi che hanno contribuita a crearla. È un intervento di politica
economica istituzionale e non esito del conflitto sociale distributivo.
La
differenza è fondamentale per far comprendere che la richiesta di un reddito
incondizionato sia una rivendicazione sociale e sindacale che intacca
direttamente il processo di organizzazione della produzione e del lavoro.
Tale prima
distinzione, tuttavia, non è esaustiva. Riprendendo quanto già sottolineato dal
Bin-Italia, occorre aggiungerne un’altra che si interseca con la precedente. Da
una parte, il reddito minimo garantito, così come conosciuto
soprattutto grazie alle esperienze di numerosi paesi europei, e dall’altra
il reddito di base universale ed incondizionato, che oggi si
va sperimentando in molti paesi nel mondo.
Come scrive
Sandro Gobetti[2],
“Il reddito
minimo garantito è un’erogazione economica in denaro, attribuita da parte di
un’autorità pubblica a tutti i cittadini, o residenti in un paese, che versano
in uno stato di bisogno (individuale e/o familiare) o che sono a rischio
povertà. Il reddito minimo viene erogato a fronte di una prova che attesti la
difficoltà economica e la necessità di ricevere tale sostegno (means test)”.
Questa misura è spesso subordinata alla disponibilità a cercare lavoro, ad
accettare impieghi o a seguire percorsi di formazione da parte del
beneficiario. Tale erogazione non ha di regola una scadenza prefissata, viene
erogata «fino al miglioramento della condizione economica”.
La finalità
è quella di garantire una quota economica minima come base di un’esistenza
dignitosa. Rientrano a livello concettuale nella famiglia del reddito minimo
garantito declinazioni quali il reddito minimo di inserimento,
il reddito di ultima istanza, il reddito di dignità,
il reddito sociale. il reddito di emergenza, eccetera.
Il reddito
di base (basic income nella definizione del dibattito
internazionale) è invece un reddito attribuito da un’autorità pubblica a tutte
le persone, indistintamente, senza alcun condizionamento ad accettare un
lavoro, senza alcuna specificità categoriale, senza la richiesta di un
requisito reddituale o patrimoniale. In sostanza si tratta di un reddito
destinato a tutti gli esseri umani in quanto diritto fondamentale, diritto
umano e di esistenza, e viene erogato per tutta la vita. Per questo viene
definito: reddito di base incondizionato e universale. Rientrano a
livello concettuale nella famiglia del basic income declinazioni
quali il reddito di esistenza, il reddito di
autodeterminazione, il reddito di cittadinanza, eccetera.
Tuttavia,
all’interno della famiglia del basic income occorre fare
un’altra distinzione, quella tra reddito di base incondizionato e
universale (definito poc’anzi) e reddito di base
incondizionato ma non universale. Per quest’ultimo, l’incondizionalità
riguarda solo l’impegno nella ricerca del lavoro e nelle modalità di spesa del
reddito percepito. In altre parole, l’unica condizione che viene mantenuta è
quella dei means test, ovvero l’esistenza di un disagio economico,
che deve essere definito in termini relativi e non assoluti (normalmente la
soglia di povertà relativa, pari al 60% del reddito mediano esistente, che varia
da anno in anno).
Con
riferimento alla prima distinzione (reddito come strumento di remunerazione
primaria – reddito primario – di una vita messa al lavoro, complementare al
salario come remunerazione di un’attività lavorativa certificata come tale),
l’incondizionalità è data per definizione, mentre non lo è in modo automatico
se il reddito viene percepito come strumento di assistenza sociale.
Di
conseguenza possiamo procedere a una classificazione delle diverse famiglie di
reddito con l’ausilio della seguente tabella, basata sulle due dicotomie:
condizionato/incondizionato/universale e remunerazione /protezione sociale
Remunerazione
|
Protezione sociale
|
|
Condizionato
|
Reddito minimo di inserimento, reddito di ultima
istanza, reddito di dignità, reddito di emergenza, ….
|
|
Incondizionato
(con i mean test)
|
Reddito di base incondizionato non universale
|
|
Incondizionato
e universale
|
Reddito di esistenza, reddito di autodeterminazione,
reddito di cittadinanza, …
|
Tale tabella
ci permette di fare alcuni chiarimenti:
- Il reddito che ci interessa è
quello che remunera ed è incondizionato. Ne consegue che siamo di fronte a
due possibili alternative: un reddito incondizionato e universale oppure
un reddito incondizionato con i means test.
- La Legge n. 26/2019, del 28
marzo 2019, “recante disposizioni urgenti in materia di reddito di
cittadinanza e di pensioni”, presenta un titolo inappropriato. Non si
tratta infatti di “reddito di cittadinanza” ma di un reddito minimo
fortemente condizionato e, per di più, sottofinanziato rispetto, almeno,
all’obiettivo, più volte dichiarato, di andare incontro alle esigenze dei
poveri assoluti.
Il reddito
di base incondizionato (universale o con i means test) deve
comunque ottemperare altri criteri, per essere considerato tale. Ne enumeriamo
tre:
- Criterio dell’individualità: il
reddito minimo deve essere erogato a livello individuale e non familiare a
tutte le persone fisiche. Si potrà poi discutere se anche i minori di anni
18 potranno averne diritto o no.
- Criterio della residenza: il
reddito minimo deve essere erogato a tutte/i coloro che, risiedendo in un
dato territorio, vivono, gioiscono, soffrono e partecipano alla produzione
e alla cooperazione sociale a prescindere dalla loro condizione civile, di
genere, di etnia, di credo religioso, ecc.
- Criterio del finanziamento e
della trasparenza: le modalità di finanziamento del reddito di base devono
essere sempre enunciate sulla base di studi di sostenibilità economica,
specificando dove le risorse vengono reperite in base alla stima del suo
costo necessario. Tali risorse devono cadere sulla fiscalità generale e
non su altri cespiti di provenienza (come, ad esempio, contributi sociali,
alienazione di patrimonio pubblico, proventi da privatizzazioni, ecc.).
La famiglia
di reddito che ci interessa è quella del reddito come remunerazione e
incondizionato. Al riguardo, come sottolineato, siamo di fronte a due possibili
alternative, a seconda se prevale il criterio dell’universalità su quello
dell’incondizionalità con i means test.
Questi due
criteri si possono presentare fra loro in contraddizione e in una fase iniziale
di sperimentazione il criterio dell’incondizionalità può essere considerato più
importante di quello dell’universalità. Perché in contraddizione?
Con
riferimento all’Italia, possiamo immaginare due scenari alternativi, partendo
dal presupposto che il finanziamento della misura ricada in ogni caso sulla
fiscalità generale, ovvero come quota della ricchezza sociale prodotta (che per
comodità, pur coscienti dell’inadeguatezza di tale indice, è espressa dal Pil).
Il primo
scenario prevede un reddito universale individuale, incondizionato, pari a
10.000 euro l’anno, un livello di pochissimo superiore alla soglia di povertà
relativa. Il costo complessivo per una platea di 48 milioni circa di abitanti
maggiorenni è di 480 miliardi di euro all’anno. pari al 25% circa del Pil. Il
bilancio dello Stato (compreso salari e stipendi dei dipendenti pubblici)
ammonta a circa 570 miliardi. In effetti, i soldi per dare 10.000 all’anno a
tutti ci sarebbero, se la spesa pubblica dello Stato si riducesse di almeno
l’80% con privatizzazione dei servizi e un incremento delle entrate fiscali
grazie alla maggiore progressività delle aliquote. In questo primo scenario la
sostenibilità economica di un reddito universale e incondizionato implica lo
smantellamento del sistema di welfare esistente e la scomparsa dello Stato come
agente economico.
Un secondo
scenario possibile prevede, invece, di quantificare in prima istanza il massimo
delle risorse disponibili senza causare un effetto sostituzione con il welfare
pubblico. Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che tali risorse possano
derivare da un uso alternativo della politica monetaria di Quantitative Easing
(QE). Una possibilità che al momento non è data ma che in un futuro prossimo,
chissà…
Attualmente
il QE è pari a 25 miliardi al mese, di cui all’Italia va circa in media il 15%,
pari a 4 miliardi, per un totale di 48 miliardi l’anno. Immaginiamo che
una quota del 40% di tale cifra possa finanziare un fondo per il finanziamento
della misura di reddito di base universale, a cui è possibile aggiungere una
cifra annua di 8-10 miliardi sulla base delle leggi di stabilità. In
conclusione, la cifra disponibile potrebbe aggirarsi a poco meno di 30 miliardi
l’anno, pari a 625 euro l’anno pro capite, poco più di 52 euro al mese.
La proposta
di universalità del reddito di base ci pone dunque di fronte a un dilemma, un
trade-off. Da un lato garantire un livello di reddito (10.000 euro l’anno) tale
da minimizzare il ricatto del bisogno e poter esercitare realmente il diritto
alla scelta del lavoro e quindi all’autodeterminazione è possibile ma in cambio
dell’azzeramento del welfare pubblico. Dall’altro, se non si vuole il totale
smantellamento del ruolo dello Stato in economia, ci si deve accontentare di un
livello di reddito di base irrisorio, non in grado in ogni caso di far
modificare il proprio destino.
Tra queste
due alternative, riteniamo che una terza proposta possa farsi strada e fa
riferimento alla definizione di un criterio di accesso. Il reddito di base
rimane incondizionato dal punto di vista degli obblighi e delle contropartite
ma è vincolato solo dal livello di reddito percepito nel presente. Ciò
significa introdurre un criterio di gradualità, che inizialmente limita la
platea dei possibili beneficiari solo a coloro che si collocano al di sotto di
una certa soglia di reddito (comunque non inferiore alla soglia di povertà
relativa). Tale soglia deve esser fissata in termini relativi, così da crescere
nel tempo e ampliare la platea dei beneficiari.
Secondo le
stime preliminari provvisorie dell’Istat, in Italia nel 2019 vivono in
condizione di povertà assoluta il 6,5% delle famiglie e il 7,8% degli individui
(contro, rispettivamente, il 7,8% e l’8,4% del 2018) per un totale di quasi 5
milioni di persone.
I poveri
relativi sono circa il 12,8% della popolazione, circa 8 milioni di persone. La
stima dei costi necessari per portare tutti i poveri relativi al di sopra
dell’attuale soglia relativa è compresa in una forbice tra i 19 miliardi
e i 30 miliardi, a seconda se si considera la casa all’interno del calcolo del
reddito Isee. Ogni anno vengono trasferite alle famiglie circa 9 miliardi di
euro, sotto forma di sussidi per l’inoccupazione (Aspi, Naspi, mobilità,
indennità di disoccupazione, varie forme di cassa integrazione, ecc), al netto
dei trasferimenti previdenziali. Se la misura di reddito minimo di base
incondizionato va a sostituire l’80% di tali trasferimenti[3],
come esito di una ristrutturazione e semplificazione del sistema degli
ammortizzatori sociali oggi tra i più iniqui e distorti a livello europeo, a
favore di un’unica misura, ne consegue che il costo netto si aggira in una
forbice tra 10 e 21 miliardi di euro. Si tratta di una cifra impegnativa ma
abbordabile, anche tenendo conto degli effetti indiretti di una simile misura,
in grado di favorire processi di autofinanziamento.
Facciamo,
infatti, riferimento all’aumento del moltiplicatore del reddito grazie
all’aumento della propensione marginale media al consumo (in seguito al
trasferimento di reddito verso famiglie e individui che consumano quasi
interamente il proprio reddito[4])
e all’incremento della domanda aggregata. In presenza di un’imposizione fiscale
progressiva, ne conseguirebbe un aumento delle entrate fiscali superiore alla
crescita del PIL con un positivo effetto anche sulla riduzione del rapporto
debito/Pil.
In questa
versione di un reddito incondizionato ma con i means test, viene
sacrificato quindi il requisito dell’universalità immediata dell’accesso alla
misura di reddito di base, mantenendo però inalterato il principio di non
chiedere in cambio nessun tipo di contropartita e obbligo comportamentale
(disponibilità al lavoro o alla formazione, in primo luogo) o di consumo e
consentendo, comunque, un livello di reddito tale da garantire una maggior
libertà di scelta e di rifiuto.
Post-scriptum:
la tragicommedia italiana
Nelle ultime
settimane, si sono verificati alcuni fatti e prese di posizione che vale la
pena ricordare. Il 1 giugno scorso, la Corte dei Conti è intervenuta in modo
fortemente critico sulla legge 26/2019 che ha istituito il reddito di
cittadinanza nel “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica”, sino a paventare il suo
annullamento per il 2021, chiedendo che non venga inserita nella Legge di
Bilancio 2021. Nel mirino, vi sono soprattutto le politiche attive del lavoro.
La critica maggiore della Corte dei Conti riguarda, infatti, la fase due del
reddito di cittadinanza, quella della ricerca di un lavoro per i percettori del
sussidio. Secondo le analisi della Corte dei Conti (su dati Anpal, Agenzia
nazionale politiche attive del lavoro), solo il 23,5% della forza lavoro nel
2019 ha cercato un’occupazione tramite i centri per l’impiego. Una percentuale
che si è addirittura ridotta rispetto al 24,2% del 2017 e al 23,3% del 2018,
nonostante l’assunzione di 3000 navigator da parte dell’Anpal, guidata dal
professore del Mississippi Mimmo Parisi. Nella ricerca del lavoro continuano ad
avere un ruolo predominante, in Italia, i canali informali. In particolare, solo
poco più del 2 per cento ha trovato lavoro, tra il terzo trimestre 2018 e il
terzo trimestre 2019, tramite i centri per l’impiego. Poi c’è l’accesso ridotto
per gli immigrati: la quota di beneficiari stranieri extracomunitari è meno del
6%, nonostante il 31% di questi siano secondo l’Istat in situazione di povertà
assoluta. «Il vincolo dei dieci anni di residenza, di cui almeno gli ultimi due
in via continuativa, potrebbe aver limitato il numero delle domande presentate
dalle famiglie straniere», spiegano i giudici della Corte.
Il 3 giugno,
il Forum Disuguaglianza Diversità coordinato da Fabrizio Barca (area sinistra
Pd) pubblica sul proprio sito un articolo in cui mette in dubbio
l’efficacia del Reddito di Emergenza (Rem) nel raggiungere effettivamente le
famiglie più povere. Eppure, poco meno di due mesi prima, il 30 marzo, il Forum
Disuguaglianze Diversità e Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile
(ASviS), insieme a Cristiano Gori (docente dell’Università Cattolica di Milano)
, avevano presentato la proposta del Reddito di Emergenza (Rem), dichiarandosi
contrario a qualunque intervento di carattere più universale, ma limitandosi a
perorare un intervento di sussidio al reddito di ultima istanza. Secondo tale
proposta
“il REM
avrebbe dovuto sostituire il Reddito di Cittadinanza, per i nuovi richiedenti,
per ampliare la sua platea per un periodo temporaneo ed eccezionale.
Nell’impianto del Decreto Rilancio le due misure convivono e il REM è destinato
a chi non gode già del Reddito di Cittadinanza o di altre prestazioni. … Per
quanto riguarda la presentazione della domanda, per chi possiede un ISEE la
domanda appare molto semplice. Per chi non lo possiede le cose appaiono più
complicate. Si tratta di quelle persone oggi fuori dalla rete del welfare
pubblico. Tuttavia, essendo l’ISEE fissato a 15.000 euro (una soglia elevata se
considerata la platea per cui il REM è stato costruito), non costituirà il
criterio per decidere chi debba ottenere il REM. Nella proposta
ForumDD-ASviS-Gori non era previsto l’ISEE tra i criteri di accesso, mentre
l’esecutivo ha deciso di tenerlo motivando che la presenza dell’ISEE era
necessaria per la presa in carico delle domande da parte dell’INPS”.
Il rischio è
dunque che, come avviene per il Reddito di Cittadinanza, anche il Rem non riesca
a raggiungere coloro a cui dovrebbe essere destinato. Soprattutto coloro che
svolgono lavoro nero, vivono situazione di elevata povertà, i senza tetto, ecc.
difficilmente potranno accedervi.
Non è forse
più saggio, invece di favorire la proliferazione di varie misure reddituali,
concentrarsi solo un’unica misura, a partire dall’attuale esistente reddito di
cittadinanza, eliminando i vincoli di accesso e le varie condizionalità
comportamentali (i cui effetti, come abbiamo visto, sono irrisori), in modo che
diventi effettivamente uno strumento di sostentamento adeguato e di
autodeterminazione?
Pare di
essere di fronte a una serie di suicidi politici. Il movimento 5S sta di fatto
affossando la sua creatura, la legge sul reddito di cittadinanza, invece di
cogliere l’emergenza sociale ed economica in corso come occasione per un suo
rilancio ed estensione. Il Pd, stretto tra aperture al reddito e tentazioni
lavoriste, prima, tramite alcune sue componenti, propone l’instaurazione del
Reddito di Emergenza (accodandosi così ai 5S), poi, una volta introdotto,
critica le modalità di applicazione, mettendo in evidenza la sua vera natura:
essere favorevole ad un sussidio al reddito solo come misura estrema di ultima
istanza contro la povertà ma non per l’autorealizzazione della persona: il
povero deve sopravvivere ma continuare a rimanere, comunque, povero.
Con il
fondato rischio di farsi superare a sinistra da Civiltà Cattolica, la rivista
dei gesuiti, che il giorno 6 giugno ha pubblicato sul suo sito un articolo di Gaël Giraud a favore di un reddito
universale!
* * * * *
Note:
[1] Nello scrivere questo testo ho potuto usufruire di chiacchierate e
suggerimenti da parte di Sandro Gobetti, Cristina Morini e Rachele Serino
[2] Faccio riferimento ad alcune note scritte all’interno del progetto di
ricerca Bin-Italia: “The Citizens’ Income Law in Italy, the European minimum
income experiences and the basic income international debate 2019-2020”,
finanziato dalla Fondazione Inet (Institute of New Economic Thinking), Usa.
[3] Tenendo conto, che alcune indennità di inoccupazione possono
raggiungere livelli superiori alla soglia di povertà relativa
[4] Il moltiplicatore del reddito è definito dal rapporto [1/(1-c)], dove
“c” è la propensione marginale al consumo, ovvero l’incremento del consumo C
all’aumentare del reddito Y (ΔC/ΔY). Se aumenta il reddito delle persone più
povere, l’aumento dei consumi sarà più che proporzionale di quanto non avvenga
in caso di aumento del reddito delle fasce più ricche, con l’effetto che un
euro di investimento o di spesa pubblica farà incrementare il Pil in misura
maggiore.
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