sabato 4 luglio 2020

Rumore di tuono - Ray Bradbury





La scritta sul muro sembrò baluginare, come sotto una pellicola d’acqua calda in movimento. Eckels si sentì battere le palpebre sulla fissità degli occhi, e in quella momentanea oscurità la scritta arse:
SAFARI NEL TEMPO, INC.
SAFARI IN QUALUNQUE ANNO DEL PASSATO.
VOI SCEGLIETE L’ANIMALE.
NOI VI PORTIAMO LÀ.
VOI SPARATE.
Un muco caldo si raggrumò nella gola di Eckels, che inghiottì per man-darlo giù. I muscoli attorno alla sua bocca formarono un sorriso, mentre tendeva lentamente la mano nell’aria, e in quella mano sventolava un assegno di diecimila dollari verso l’uomo seduto alla scrivania.
«Questo safari mi dà la garanzia di tornare vivo?» chiese.
«Noi non garantiamo niente» rispose l’impiegato. «Tranne i dinosauri.» Si voltò. «Questo è il signor Travis, la sua Guida Safari nel Passato. Le dirà lui quando deve sparare. Se il signor Travis dice non spari, lei non spari. Se disubbidisce alle istruzioni, dovrà sborsare una penale di altri diecimila dollari, oltre a subire un’eventuale sanzione penale governativa, al suo ritorno.»
Eckels guardò dall’altra parte del vasto edificio, verso una massa e un ammasso, un serpentario e un ronzio di cavi e scatole d’acciaio, verso un’aurora che brillava ora arancione, ora argento, ora azzurra. Si udiva un suono come di un gigantesco falò che bruciasse per tutto il Tempo, per tut-ti gli anni e per tutti i calendari ingialliti, per tutte le ore ammonticchiate in un’alta pira e date alle fiamme.
Un tocco della mano, e quell’incendio si sarebbe bellamente capovolto, all’istante. Eckels ricordava alla lettera le parole dell’annuncio pubblicitario. Dalle ossa e dalle ceneri, dal carbone e dal pulviscolo, potevano balzar fuori i vecchi anni, gli anni verdi, simili a salamandre d’oro; le rose potevano profumare l’aria, i capelli bianchi tornare nero-irlandese, le rughe scomparire; tutto, ogni cosa poteva scorrere all’indietro, tornare al seme, sfuggire alla morte, sfrecciare verso gli inizi; il sole poteva sorgere nel cielo a occidente e tramontare nel luminoso cielo a oriente, e la luna calare dal lato opposto al solito; tutto e ogni cosa potevano incastrarsi uno nell’al-tro come in una scatola cinese, come conigli nei cappelli, tutto e ogni cosa potevano tornare alla morte neonata, al seme della morte, alla morte verde, al tempo prima dell’inizio. Un tocco della mano poteva far questo, appena un tocco leggero della mano.
«Accidenti e maledizione» disse Eckels, con la luce della Macchina che si rifletteva sul suo viso magro. «Una vera Macchina del Tempo.» Scosse la testa. «Dà da pensare. Se ieri le elezioni fossero andate male, ora potrei essere in fuga per sottrarmi ai loro risultati. Grazie al cielo ha vinto Keith. Sarà un ottimo presidente degli Stati Uniti.»
«Sì» disse l’uomo dietro la scrivania. «Siamo fortunati. Se avesse avuto la meglio Deutscher, avremmo la peggior specie di dittatura. Mai esistito un uomo antitutto, tanto militarista. Anti-Cristo, anti-uomo, anti-intellettuale. Ci ha telefonato un sacco di gente, scherzando ma mica troppo. Dicevano che se Deutscher diventava presidente loro volevano tornare a vivere nel 1492. Naturalmente, il nostro mestiere non è organizzare Fughe, ma Safari. Comunque, il presidente è Keith. Lei deve occuparsi solo di…»
«Sparare contro il mio dinosauro» finì Eckels per lui.
«Un Tyrannosaurus Rex. La Lucertola Tonante. Il peggior mostro della storia. Firmi questo scarico di responsabilità. Qualunque cosa le succeda, noi non c’entriamo. Quei dinosauri sono affamati.»
Eckels arrossì, arrabbiato. «Sta tentando di impaurirmi!»
«Francamente, sì. Non vogliamo mandare uno che si spaventa al primo sparo. L’anno scorso sono rimasti uccisi cinque capo-Safari e una dozzina di cacciatori. Siamo qui per darle le più grandi emozioni che un vero cacciatore possa desiderare. La porteremo indietro di sessanta milioni d’anni perché possa dare la caccia alla più grossa preda di tutti i Tempi. Il suo as-segno è ancora qui. Lo stracci.»
Il signor Eckels guardò a lungo l’assegno. Le dita gli si contraevano.
«Buona fortuna» disse l’uomo seduto alla scrivania. «Signor Travis, è tutto suo.»
Si mossero silenziosamente attraverso la stanza, con i loro fucili, verso la Macchina, verso il metallo argentato e la luce rombante.
Prima un giorno e poi una notte e poi un giorno e poi una notte, e poi vi fu giorno-notte-giorno-notte-giorno. Una settimana, un mese, un anno, una decade. 2055 d.C, 2019 d.C, 1999! 1957! Via! La macchina rombò.
Si misero i caschi a ossigeno e controllarono gli interfoni.
Eckels ballonzolava sul sedile imbottito, la faccia pallida, la mascella contratta. Sentì un tremito nelle braccia, abbassò lo sguardo e scoprì di a-vere le mani strette attorno al nuovo fucile. Nella Macchina c’erano altri quattro uomini. Travis, il capo del Safari, il suo aiutante, Lesperance, e altri due cacciatori, Billings e Kramer. Si guardavano fra loro, e gli anni
sfrecciavano attorno.
«Questi fucili possono abbattere un dinosauro?» sentì dire Eckels dalla propria bocca.
«Se si colpiscono nel punto giusto» rispose Travis attraverso la radio del casco. «Alcuni dinosauri hanno due cervelli, uno nella testa, l’altro in fon-do alla colonna vertebrale. Staremo lontani da loro. Sarebbe sfidare la fortuna. Deve piazzare i primi due colpi negli occhi, se ce la fa, accecarli, e poi mirare al cervello.»
La Macchina ululò. Il Tempo era come un film proiettato all’indietro. I soli volavano, e dieci milioni di lune volavano dietro ai soli. «Mio Dio» disse Eckels. «Tutti i cacciatori di tutti i tempi ci invidierebbero, oggi. Questo fa sembrare l’Africa uguale all’Illinois.»
La Macchina rallentò, il suo ululato si smorzò in un mormorio. La Mac-china si fermò.
Il sole si bloccò nel cielo.
La nebbia che aveva avvolto la Macchina si dissolse, e si trovarono in un vecchio tempo, un tempo vecchissimo, i due capo-Safari e i tre cacciatori con i loro fucili di metallo azzurrognolo sulle ginocchia.
«Cristo non è ancora nato» disse Travis. «E Mosè non è andato sul Monte per parlare con Dio. Le Piramidi sono ancora nella terra, in attesa di es-sere tagliate e costruite. Ricordatelo. Alessandro, Cesare, Napoleone, Hitler… non esiste nessuno di loro.»
Gli uomini annuirono.
«Quella…» indicò il signor Travis «… è la foresta esistita sessanta milio-ni e duemilacinquantacinque anni prima del presidente Keith.»
Puntò il dito verso una pista metallica che spariva nella boscaglia verde, sopra una palude fumante, fra felci e palme giganti.
«E quella» spiegò «è la Pista, costruita dalla Safari nel Tempo per nostro uso. Non sfiora nemmeno un filo d’erba, o un fiore, o un albero. È di me-tallo antigravità. Il suo scopo è impedirvi di toccare in qualche modo questo mondo del passato. Restate sulla Pista. Non scendete mai. Ripeto. Non scendete mai. Per nessuna ragione! Se cadete, pagherete una penale. E non sparate contro nessun animale senza la nostra autorizzazione.»
«Perché?» chiese Eckels.
Sedevano nell’antica foresta. Grida di uccelli lontani volavano sul vento, insieme all’odore di catrame e di un vecchio mare salmastro, erba umida e fiori color sangue.
«Non vogliamo cambiare il Futuro. Noi non apparteniamo a questo Passato. Al governo non piace che noi siamo qui. Dobbiamo pagare grosse somme per mantenere la nostra licenza. La Macchina del Tempo è un affare che richiede cautela. Senza saperlo, potremmo uccidere un animale mol-to importante, un uccellino, un gallo selvatico, perfino un fiore, distruggendo così un nesso importante con una specie in crescita.»
«Non mi è chiaro» disse Eckels.
«E va bene» continuò Travis «diciamo che calpestiamo accidentalmente un topo, uccidendolo. Questo significa che tutte le famiglie future di questo particolare topo sono distrutte. Giusto?»
«Giusto.»
«E tutte le famiglie delle famiglie delle famiglie di quel topo! Con la pianta del piede, potete uccidere prima uno, poi una decina, poi un miglia-io, poi un milione e un miliardo di possibili topi!»
«I quali sono morti. E con questo?»
«E con questo?» Travis sbuffò piano. «Be’, che mi dite di tutte le volpi che hanno bisogno di quei topi per sopravvivere? Per mancanza di dieci topi, muore una volpe. Per mancanza di dieci volpi, muore un leone. Per mancanza di un leone, intere specie di insetti, avvoltoi, infiniti miliardi di forme viventi vengono gettate nel caos e nella distruzione. Alla fine, si arriva a questo: cinquantanove milioni di anni dopo, un uomo delle caverne, uno della dozzina esistente in tutto il mondo, va a caccia di orsi selvaggi o di tigri per nutrirsi. Ma lei, amico, ha schiacciato col piede tutte le tigri di quella regione. Schiacciando col piede un solo topo. E così l’uomo delle caverne muore di fame. E l’uomo delle caverne, la prego di notare, non è un qualunque uomo eliminabile, no! È un’intera nazione futura. Dai suoi lombi sarebbero potuti nascere dieci figli. Dai lombi di quei figli, cento al-tri figli, e così fino a una civiltà. Distruggere quell’unico uomo significa di-struggere una razza, un popolo, un’intera storia di vita. È paragonabile all’omicidio di qualche nipote di Adamo. La pianta del suo piede su un so-lo topo potrebbe provocare un terremoto, i cui effetti scuoterebbero la nostra Terra e i nostri destini attraverso il Tempo, fin dalle fondamenta. Con la morte di quell’unico uomo delle caverne, un altro miliardo di uomini non ancora nati sarebbero uccisi in germe. Forse Roma non sorgerebbe più sui suoi sette colli. Forse l’Europa resterebbe in eterno una foresta buia, e solo l’Asia crescerebbe sana e popolosa. Schiacci un topo col piede e schiaccerà le Piramidi. Schiacci un topo col piede, e lascerà la sua orma, simile al Grand Canyon, attraverso l’Eternità. La regina Elisabetta potrebbe non nascere mai, Washington potrebbe non attraversare il Delaware, gli
Stati Uniti potrebbero non esistere. Quindi, stia attento. Resti sulla Pista. Non ne esca mai!»
«Capisco» disse Eckels. «Allora non dobbiamo neanche toccare l’erba?»
«Appunto. Schiacciare certe piante potrebbe assommarsi all’infinito. Un piccolo errore ora potrebbe moltiplicarsi, in sessanta milioni di anni, in modo spropositato. La nostra teoria potrebbe anche essere sbagliata, certo. Forse il Tempo non può essere cambiato da noi. O forse può essere cambiato solo in piccoli modi sfuggenti. Un topo morto qui che provoca un in-setto squilibrato là, una sproporzione di popolazione più tardi, un cattivo raccolto ancora più in là, una depressione, una morte per fame di massa, un mutamento nel temperamento sociale in paesi lontanissimi. Qualcosa di molto più sottile, come questo. Basta un respiro appena accennato, un capello, un polline nell’aria, un cambiamento così lieve, così lieve che se non si guarda attentamente non ci se ne accorge neanche. Chissà? Chi può dire di saperlo con sicurezza? Noi non lo sappiamo. Ma finché non sappiamo con sicurezza se il nostro manipolare il Tempo può provocare un grande sommovimento o un piccolo fruscio nella Storia, dobbiamo essere maledettamente cauti. Questa Macchina, questa Pista, i vostri abiti e i vostri corpi sono stati sterilizzati, come sapete, prima del viaggio. Portiamo questi caschi a ossigeno per non introdurre i nostri batteri nell’atmosfera anti-ca.»
«Come facciamo a sapere contro quali animali sparare?»
«Sono contrassegnati con vernice rossa» disse Travis.
«Oggi, prima di partire, abbiamo mandato qui Lesperance con la Mac-china. È venuto in questa zona e ha seguito certi animali.»
«Studiandoli?»
«Appunto» intervenne Lesperance. «Li ho studiati attraverso la loro intera esistenza, controllando quanto a lungo vivevano. Non molto a lungo. Quante volte si accoppiavano. Non molte. La vita è breve. Quando ne trovavo uno che doveva morire perché stava per cadergli addosso un albero, o uno che affogava in una fossa, annotavo l’ora esatta, il minuto, il secondo. E sparavo una bomba di vernice, che gli lasciava sul fianco una macchia rossa. Non possiamo non vederla. E poi ho correlato il nostro arrivo nel Passato, in modo da incontrare il Mostro non più di due minuti prima che debba comunque morire. Così, uccideremo solo animali senza futuro, che non si accoppieranno più. Vede quanto siamo prudenti?»
«Ma se è tornato indietro nel Tempo stamattina» disse Eckels, ansioso «deve aver incontrato anche noi, il nostro Safari! E come le è sembrato? È
andata bene? Ne siamo usciti tutti… vivi?»
Travis e Lesperance si scambiarono un’occhiata.
«Questo sarebbe un paradosso» rispose quest’ultimo. «Il Tempo non permette questo tipo di pasticcio… un uomo che incontra se stesso. Quando minaccia di verificarsi una cosa del genere, il Tempo si tira da parte. Come un aereo che incontra un vuoto d’aria. Non ha sentito che la Macchina ha fatto un balzo, prima che ci fermassimo? È accaduto perché eravamo noi che incontravamo noi stessi sulla strada per il Futuro. Non abbiamo visto niente. Non è possibile dire se questa spedizione sarà un successo, se uccideremo il Mostro, o se tutti noi… il che vuol dire lei, signor Eckels… ne usciremo vivi.»
Eckels abbozzò un sorriso spento.
«Basta, ora» esclamò Travis. «Tutti in piedi!»
Erano pronti a lasciare la Macchina.
La foresta era alta e la foresta era larga e la foresta era il mondo intero, per sempre e sempre. Rumori come di musica e rumori come di ali in volo riempivano l’aria, e questi erano gli pterodattili che sfrecciavano con grigie ali cavernose, pipistrelli giganteschi che parevano usciti da un delirio e da una febbre notturna. Eckels, in bilico sulla stretta Pista, puntò il fucile, per scherzo.
«Fermo!» ordinò Travis. «Non lo punti neanche per gioco! Se dovesse partire un colpo…»
Eckels arrossì. «Dov’è il nostro Tyrannosaurus?»
Lesperance guardò l’orologio. «Più avanti. Fra sessanta secondi gli taglieremo la strada. Attento alla macchia di vernice rossa, maledizione. E non spari finché non le do il via. Resti sulla Pista. Resti sulla Pista!»
Avanzarono nel vento del mattino.
«Strano» mormorò Eckels. «Davanti a noi, sessanta milioni di anni da-vanti a noi, le elezioni sono terminate. Keith è stato eletto presidente. Tutti festeggiano. E noi eccoci qui, milioni d’anni prima, e loro neanche esisto-no. E le cose per le quali ci siamo preoccupati per mesi, per un’intera vita, non sono ancora né nate né ideate.»
«Togliere la sicura, tutti!» ordinò Travis. «Prima spara lei, Eckels. Secondo, Billings. Terzo, Kramer.»
«Sono andato a caccia di tigri, di orsi, di bufali, di elefanti, ma Gesù, questo…» disse Eckels. «Tremo come un bambino.»
Si fermarono tutti.
Travis alzò la mano. «Davanti a noi» sussurrò. «Nella foschia. Eccolo.
Ecco Sua Maestà.»
La foresta era piena di pigolii, di fruscii, di mormorii e di sospiri.
All’improvviso smise tutto, come se qualcuno avesse chiuso una porta.
Silenzio.
Un rombo di tuono.
Dalla foschia, a un centinaio di metri di distanza, sbucò il Tyrannosaurus Rex.
«Gesù Cristo» sussurrò Eckels.
«Stttt!»
Avanzava su grandi gambe unte, elastiche, veloci. Torreggiava di una decina di metri sopra gli alberi, grande dio del male, con i delicati artigli da orologiaio ritratti contro l’oleoso petto da rettile. Ogni gamba era un pistone, mezzo quintale di ossa bianche chiuse negli spessi cavi dei muscoli, ricoperte di lucida pelle maculata, simile all’armatura di un terribile guerriero. Ogni coscia era una tonnellata di carne, avorio e rete d’acciaio. E dal-la grande gabbia toracica, dalla parte superiore del corpo, penzolavano in avanti quelle due braccia delicate, braccia con mani che potevano raccogliere ed esaminare gli uomini come giocattoli, mentre il collo serpentino si avvolgeva in spire. E la testa, una tonnellata di pietra scolpita, si alzava con facilità verso il cielo. La bocca era aperta e metteva in mostra una bar-riera di denti simili a spade. Gli occhi roteavano e parevano uova all’ostri-ca, vuoti di tutto tranne che di fame. La bocca si chiuse in una smorfia di morte. La bestia corse, le ossa pelviche che abbattevano lateralmente gli alberi e i cespugli, i piedi ad artiglio che graffiavano la terra umida, la-sciando orme profonde più di dieci centimetri ovunque la bestia appoggiasse il peso. Correva con un lieve passo da balletto, troppo controllato, troppo equilibrato per le sue dieci tonnellate. Entrò guardingo in una radura illuminata dal sole, con le mani elegantemente rettili che tastavano l’a-ria.
«Mio Dio!» Eckels torse la bocca. «Se allunga le braccia, può acchiappare la luna!»
«Stttt!» sibilò Travis, infuriato. «Non ci ha ancora visti.»
«Non può essere ucciso.» Eckels pronunciò il verdetto con pacatezza, come se non ci potessero essere discussioni. Aveva soppesato la situazione, e questo era il suo giudizio ponderato. Il fucile che stringeva sembrava una rivoltella ad aria compressa. «Siamo stati stupidi a venire. Questo è impossibile.»
«Zitto!» sibilò Travis.
«Incubo.»
«Si giri» ordinò Travis «e raggiunga in silenzio la Macchina. Le restituiremo metà del pagamento.»
«Non pensavo che fosse così grosso» disse Eckels. «Ho sbagliato i calcoli. E ora voglio uscirne.»
«Ci guarda!»
«Sul petto ha la vernice rossa!»
La Lucertola Tonante si alzò. La sua carne corazzata scintillò come migliaia di monete nuove. Le monete, incrostate di melma, fumavano. Nella melma, si divincolavano minuscoli insetti, tanto che tutto il corpo pareva divincolarsi e ondulare, anche quando il Mostro restava immobile. Esalò un respiro. Odore di carne fresca si diffuse nella foresta.
«Voglio andarmene» disse Eckels. «Non è mai stato così, prima d’ora. Ero sempre sicuro di uscirne vivo. Avevo buone guide, buoni safari, e la sicurezza. Questa volta, ho sbagliato i calcoli. Ho incontrato un nemico più forte di me, e lo ammetto. È troppo grande perché io possa affrontarlo.»
«Non corra» consigliò Lesperance. «Si volti e vada a nascondersi nella Macchina.»
«Sì.» Eckels sembrava paralizzato. Si guardò i piedi, come per convincerli a muoversi. Poi cacciò un’esclamazione d’impotenza.
«Eckels!»
Eckels fece qualche passo, battendo le palpebre, trascinando i piedi.
«Non da quella parte!»
Al primo movimento, il Mostro si scagliò in avanti con un urlo terribile. In quattro secondi coprì cento metri. I fucili si alzarono di scatto e sputarono fuoco. Dalla bocca dell’animale uscì una tempesta che li avvolse in tan-fo di melma e vecchio sangue. Il Mostro ruggì, e i denti scintillarono al so-le.
Senza guardarsi indietro, Eckels camminò alla cieca fino alla fine della Pista, il fucile abbandonato sulle braccia; scese dalla Pista e, senza accorgersene, s’incamminò nella foresta. I suoi piedi affondavano nel muschio fresco. Portato avanti dalle gambe, si sentiva solo e lontano dagli avveni-menti alle sue spalle.
I fucili schioccarono di nuovo. Il loro rumore si perse nelle urla e nel tuono della lucertola. La grande leva della coda del rettile si alzò, frustò dai due lati. Gli alberi esplosero in nubi di foglie e di rami. Il Mostro piegò le mani da gioielliere, le abbassò per giocherellare con gli uomini, per piegarli in due, per schiacciarli come ciliegie, ficcarseli fra i denti e giù per la gola urlante. I suoi occhi di pietra scesero ad altezza d’uomo. I cacciatori si specchiarono in quegli occhi. Spararono contro le palpebre metalliche e le nere iridi lucenti.
Come un idolo di pietra, come una valanga montana, il Tyrannosaurus cadde. Tuonando, afferrò gli alberi, li trascinò con sé. Strappò la Pista di metallo. Gli uomini si gettarono all’indietro. Il corpo schiantò a terra, dieci tonnellate di carne fredda e di pietra. I fucili spararono. Il Mostro agitò la coda corazzata, torse la bocca da rettile, e giacque immobile. Una fontana di sangue gli eruppe dalla gola. Da qualche parte, nelle sue interiora, scoppiò un sacco di liquido. Fiotti disgustosi investirono i cacciatori, che rimasero immobili, rossi e lucenti.
Il tuono si spense.
La foresta si fece silenziosa. Dopo la valanga, una verde pace. Dopo l’incubo, il mattino.
Billings e Kramer si sedettero a terra e vomitarono. Travis e Lesperance rimasero in piedi, con i fucili fumanti, a imprecare ininterrottamente.
Nella Macchina del Tempo, Eckels rabbrividiva, sdraiato faccia a terra. Aveva ritrovato la strada per la Pista, era salito sulla Macchina.
Arrivò Travis, che guardò Eckels, prese della garza da una scatola di metallo e tornò dagli altri, che se ne stavano seduti sulla Pista.
«Pulitevi.»
Asciugarono il sangue dai caschi. Anche loro cominciarono a imprecare. Il Mostro giaceva simile a una collina di solida carne. Da dentro, arrivavano sospiri e mormorii, mentre morivano le parti più interne, gli organi si guastavano, i liquidi scorrevano per l’ultima volta dalle vene allo stomaco, alla milza, con tutto che sospendeva l’attività, chiudeva per sempre. Era come stare vicino a una locomotiva distrutta o a un’escavatrice al momento della fine dell’orario di lavoro, con tutte le valvole che venivano scaricate dal vapore e le leve chiuse strettamente. Le ossa scricchiolarono; il peso enorme della carne fuori equilibrio spezzò sotto di sé le braccia delicate. La carne si acquietò, vibrando.
Un altro scricchiolio. In alto, un ramo gigantesco si spezzò dal suo massiccio ancoraggio e cadde. Piombò sull’animale morto con un senso di definitività.
«Ecco» disse Lesperance, guardando l’orologio. «Appena in tempo. Quello è l’albero gigante che originariamente era destinato a cadere e a uccidere questa bestia.» Osservò i due cacciatori. «Volete la fotografia con il trofeo?»
«Come?»
«Non possiamo portare i trofei nel Futuro. La carcassa deve restare qui, dove sarebbe morta originariamente, in modo che gli insetti, gli uccelli e i batteri possano nutrirsene, com’era destino che fosse. Tutto in equilibrio. La carcassa rimane. Ma possiamo scattare una fotografia con voi vicino.»
I due uomini si sforzarono di pensare, ma poi ci rinunciarono, scuotendo la testa.
Si lasciarono guidare lungo la Pista metallica. Si abbandonarono stancamente sui cuscini della Macchina. Si voltarono a guardare il Mostro ab-battuto, quel cumulo stagnante dove strani uccelli-rettile e insetti dorati si davano già da fare attorno all’armatura fumante.
Un rumore nel pavimento della Macchina del Tempo li fece irrigidire. Eckels era seduto là, e tremava.
«Mi dispiace» disse alla fine.
«Si alzi!» gridò Travis.
Eckels si alzò.
«Esca sulla Pista, da solo» disse Travis. Aveva puntato il fucile. «Lei non torna con la Macchina. La lasciamo qui!»
Lesperance afferrò il braccio di Travis. «Aspetta…»
«Tu resta fuori da questa storia!» Travis si liberò della mano di Lesperance con uno strattone. «Questo figlio di puttana per poco non ci ha ammazzati. Ma non è tanto questo. Accidenti, no. Sono le sue scarpe! Guardale! Ha camminato fuori dalla Pista. Santo Dio, questo ci rovina! Lo sa Iddio quanto ci rimetteremo! Decine di migliaia di dollari di assicurazione! Abbiamo garantito che nessuno avrebbe mai lasciato la Pista. Lui l’ha la-sciata. Oh, maledetto idiota! Dovrò far rapporto al governo. Potrebbero ri-tirarci la nostra licenza di viaggio. Sa Iddio che cos’ha fatto al Tempo, alla Storia!»
«Calmati, ha calpestato solo un po’ di terriccio.»
«Come facciamo a saperlo?» gridò Travis. «Non sappiamo niente! È tut-to un maledetto mistero! Esca, Eckels!»
Eckels armeggiò con la camicia. «Pago qualunque cifra. Centomila dollari!»
Travis guardò il libretto degli assegni di Eckels e sputò. «Esca. Il Mostro è vicino alla Pista. Gli cacci in bocca le braccia fino ai gomiti. Poi potrà tornare da noi.»
«Ma è irragionevole!»
«Il Mostro è morto, razza di bastardo vigliacco! I proiettili! Non possiamo lasciare i proiettili. Non appartengono al Passato. Potrebbero cambiare qualcosa. Ecco, prenda il mio coltello. Li tiri fuori!»
La foresta era di nuovo viva, piena dei vecchi fremiti e delle grida degli uccelli. Eckels si voltò lentamente a guardare quell’ammasso primordiale, quella collina d’incubo e di terrore. Dopo molto, camminando come un sonnambulo, avanzò sulla Pista.
Cinque minuti dopo tornò, tremando, con le braccia bagnate e rosse fino al gomito. Tese le mani. Ognuna aveva un certo numero di proiettili. Poi cadde. Rimase dov’era caduto, immobile.
«Non dovevi costringerlo a questo» disse Lesperance.
«No? È troppo presto per dirlo.» Travis toccò il corpo immobile. «Vivrà. La prossima volta, non vorrà partecipare a una caccia come questa. Okay.» Agitò il pollice verso Lesperance, con aria stanca. «Accendi i motori. Torniamo a casa.»
1492. 1776. 1812.
Si pulirono le mani e la faccia. Si cambiarono le camicie incrostate di sporco e i calzoni. Eckels era di nuovo in movimento, ma non parlava. Travis lo fissò per dieci minuti buoni.
«Non mi guardi!» strillò Eckels. «Non ho fatto niente!»
«Chi può dirlo?»
«Sono sceso dalla Pista, tutto qui, mi sono appiccicato un po’ di fango alle scarpe… che cosa vuole che faccia, che mi metta in ginocchio e preghi?»
«Potremmo averne bisogno. L’avverto, Eckels, potrei ancora ucciderla. Ho il fucile pronto.»
«Sono innocente. Non ho fatto niente!»
1999. 2000. 2055.
La Macchina si fermò.
«Esca» disse Travis.
La stanza era là dove l’avevano lasciata. Ma non identica a come l’ave-vano lasciata. Lo stesso uomo era seduto alla scrivania. Ma non un identico uomo seduto a un’identica scrivania.
Travis si guardò attorno, in fretta. «Tutto a posto, qui?» chiese.
«A posto, sì. Bentornati!»
Travis non si rilassò. Sembrava scrutare gli stessi atomi dell’aria, e il modo in cui il sole si riversava dentro dall’unico finestrone.
«Okay, Eckels, esca. E non torni più.»
Eckels non riusciva a muoversi.
«Mi ha sentito?» disse Travis. «Che cosa fissa?»
Eckels annusava l’aria, e nell’aria c’era una cosa, un accenno chimico co-sì sottile, così leggero, che solo un lieve grido dei suoi sensi subliminali lo avvertiva della sua esistenza. I colori, bianco, grigio, azzurro, arancione, sulla parete, sui mobili, nel cielo oltre la finestra, erano… erano… E c’era una sensazione. La sua carne si contraeva. Le sue mani si contraevano. Rimase a bere quella stranezza attraverso i pori del corpo. Da qualche par-te, qualcuno doveva aver fatto gridare uno di quei fischietti che solo i cani potevano sentire. Il suo corpo, in risposta, gridava silenzio. Oltre quella stanza, oltre quelle pareti, oltre quell’uomo che non era l’identico uomo seduto alla sua scrivania che non era l’identica scrivania… si stendeva un intero mondo di strade e di gente. Che tipo di mondo fosse, ora, era impossibile dirlo. Eckels li sentiva muoversi là, oltre le pareti quasi, come pezzi di scacchi soffiati da un vento secco…
Ma la cosa più immediata era la scritta sul muro dell’ufficio, la stessa scritta che aveva letto quella mattina, quando era entrato…
SAFARI EN EL TEMPO, INC.
SAFARI EN QUALCONQUE ANNO DEL PASSATO.
VOI SCHELIETE EL ANIMALE.
NOI VOS PORTIAMO LÀ.
VOS SPARIATE.
Eckels si sentì cadere su una sedia. Frugò convulsamente nello spesso fango che gli incrostava gli stivali. Tirò su un blocco di fango, tremando. «No, non può essere! Non una cosa così piccola! No!» gridò.
Incastrata nel fango, emettendo un luccichio verde, dorato e nero, c’era una farfalla, molto bella, e molto morta.
«Non una cosa così piccola! Non una farfalla!» gridò Eckels.
La farfalla cadde sul pavimento, una cosa squisita, una piccola cosa che poteva sconvolgere gli equilibri e distruggere una fila di piccoli esseri e poi di grandi esseri e poi di giganteschi esseri, attraverso gli anni e il Tempo. La mente di Eckels vorticava. Non poteva aver cambiato le cose. Uccidere una farfalla non poteva essere così importante! No?
Aveva la faccia fredda. La bocca gli tremava, quando chiese: «Chi… chi ha vinto le elezioni presidenziali, ieri?».
L’uomo alla scrivania rise. «Sta scherzando? Lo sa benissimo. Deutscher, naturalmente! Chi altro? Non quel maledetto smidollato di Keith. Ora abbiamo un uomo d’acciaio, un uomo con del fegato, perdio!» L’uomo si interruppe. «Che c’è?»
Eckels emise un gemito. Cadde in ginocchio. Prese la farfalla dorata con le dita che gli tremavano. «Non potremmo» supplicò il mondo, se stesso, l’impiegato, la Macchina «non potremmo riportarla indietro, non potremmo farla rivivere? Non potremmo ricominciare da capo? Non potremmo…»
Non si mosse. Gli occhi chiusi, aspettò, tremando. Sentì Travis respirare forte nella stanza. Sentì Travis spostare il fucile, alzare la sicura, puntare l’arma.
Poi, un rumore di tuono.

Titolo originale
A Sound of Thunder
L’originale in inglese è pubblicato qui

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