Appunti presi in preparazione di una conferenza. Riguardano le
classificazioni delle razze umane operate da alcuni (anche grandi) pensatori
del passato, classificazioni che ritroviamo alla base del razzismo moderno. Per
l’ideatore della nomenclatura binomiale, Carlo Linneo, erano quattro; per il
suo rivale Georges-Louis Leclerc conte di Buffon, sei; per Immanuel Kant ancora
quattro… Edmond Burke, ce lo ricorda Marco Aime nel suo recente saggio sul razzismo pubblicato con Einaudi, era
arrivato a contarne sessantatrè.
Immaginavo gli studiosi alle loro scrivanie, impegnati in questo effimero sforzo tassonomico sulla base dei resoconti stesi da missionari e viaggiatori, senza avere mai probabilmente visto da vicino nemmeno uno degli appartenenti alle razze altre di cui tentavano la classificazione. Erano tempi assai diversi da quelli attuali, tempi in cui i filosofi si diffondevano in lunghi e complessi ragionamenti intorno all’esperienza, ma l’esperienza aveva in generale perimetri ristretti.
Oggi tutto è cambiato. Internet, certo, ma non solo. La ricerca scientifica ha definitivamente svelato l’inconsistenza del concetto di razza (e dunque l’arbitrarietà di qualsiasi suo impiego argomentativo) e c’è un movimento incessante di esseri umani che riguarda il pianeta: non avere esperienza dell’altro è pessocché impossibile; proiettare i propri fantasmi su territori e persone sconosciute non è più un’operazione epistemologicamente lecita.
Lo slogan Black Lives Matter è diventato in pochi giorni popolare. Non si tratta però solo di uno slogan. C’è un movimento che comincia prima dell’indecente uccisione di George Floyd, e affronta questioni importanti e ubique. Se non esistono le razze, infatti, il razzismo non ha cessato di uccidere, ferire. Declinato in modo distinti a seconda della porzione di terra in cui ci si trova, miete vittime e impedisce alle differenze di incontrarsi, mescolarsi, fiorire.
Non solo gli Stati Uniti. Tutta la terra è inquieta e attraversata da muri fisici e virtuali, barriere fatte di cemento, filo spinato e cavilli tassonomici.
In Italia, dopo essere “servito” alla causa risorgimentale e quindi a quella coloniale interna ed esterna, il nodo del razzismo è intrecciato oggi soprattutto con quello delle migrazioni: con lo status incerto dei profughi ambientali, con la distinzione ipocrita e presunta tra migranti economici e richiedenti asilo, con una legge sulla cittadinanza desueta, con lo scandalo del caporalato e con quello dei respingimenti. In Italia George Floyd non muore soffocato dal ginocchio di un poliziotto. Annega però nel mare di mezzo o viene colpito da una fucilata mentre cerca lamiere per costruirsi una baracca in mezzo ai campi. Spesso è nero e originario dell’Africa, ma può avere anche la carnagione olivastra o rosea e venire dall’India, dalla Siria o dalla Bulgaria. Talvolta è italianissimo di nascita e passaporto ma si porta dietro una connotazione etnica “scomoda”: rom in primo luogo, ma anche ebreo o arbëreshë. In questo paese, fino all’altro ieri, bastava essere meridionali o insulari per essere estromessi dal consesso umano. Responsabilità anche delle pubblicazioni di studiosi come Cesare Lombroso e Alfredo Niceforo, tuttora presenti nella toponomastica di varie città.
Immaginavo gli studiosi alle loro scrivanie, impegnati in questo effimero sforzo tassonomico sulla base dei resoconti stesi da missionari e viaggiatori, senza avere mai probabilmente visto da vicino nemmeno uno degli appartenenti alle razze altre di cui tentavano la classificazione. Erano tempi assai diversi da quelli attuali, tempi in cui i filosofi si diffondevano in lunghi e complessi ragionamenti intorno all’esperienza, ma l’esperienza aveva in generale perimetri ristretti.
Oggi tutto è cambiato. Internet, certo, ma non solo. La ricerca scientifica ha definitivamente svelato l’inconsistenza del concetto di razza (e dunque l’arbitrarietà di qualsiasi suo impiego argomentativo) e c’è un movimento incessante di esseri umani che riguarda il pianeta: non avere esperienza dell’altro è pessocché impossibile; proiettare i propri fantasmi su territori e persone sconosciute non è più un’operazione epistemologicamente lecita.
Lo slogan Black Lives Matter è diventato in pochi giorni popolare. Non si tratta però solo di uno slogan. C’è un movimento che comincia prima dell’indecente uccisione di George Floyd, e affronta questioni importanti e ubique. Se non esistono le razze, infatti, il razzismo non ha cessato di uccidere, ferire. Declinato in modo distinti a seconda della porzione di terra in cui ci si trova, miete vittime e impedisce alle differenze di incontrarsi, mescolarsi, fiorire.
Non solo gli Stati Uniti. Tutta la terra è inquieta e attraversata da muri fisici e virtuali, barriere fatte di cemento, filo spinato e cavilli tassonomici.
In Italia, dopo essere “servito” alla causa risorgimentale e quindi a quella coloniale interna ed esterna, il nodo del razzismo è intrecciato oggi soprattutto con quello delle migrazioni: con lo status incerto dei profughi ambientali, con la distinzione ipocrita e presunta tra migranti economici e richiedenti asilo, con una legge sulla cittadinanza desueta, con lo scandalo del caporalato e con quello dei respingimenti. In Italia George Floyd non muore soffocato dal ginocchio di un poliziotto. Annega però nel mare di mezzo o viene colpito da una fucilata mentre cerca lamiere per costruirsi una baracca in mezzo ai campi. Spesso è nero e originario dell’Africa, ma può avere anche la carnagione olivastra o rosea e venire dall’India, dalla Siria o dalla Bulgaria. Talvolta è italianissimo di nascita e passaporto ma si porta dietro una connotazione etnica “scomoda”: rom in primo luogo, ma anche ebreo o arbëreshë. In questo paese, fino all’altro ieri, bastava essere meridionali o insulari per essere estromessi dal consesso umano. Responsabilità anche delle pubblicazioni di studiosi come Cesare Lombroso e Alfredo Niceforo, tuttora presenti nella toponomastica di varie città.
In un momento in cui si è tornati a parlare di razzismo e di statue da
buttare giù e strade da rinominare, mi sono ritrovata a pensare a
un’esposizione di qualche anno fa, una splendida collettiva che
raccoglieva nomi grandi dell’arte contemporanea, in molti casi anche di origine
africana, e che oggi avrebbe davvero senso tornare a rivedere.
La Terra inquieta, proposta nel 2017 a Milano dalla
Fondazione Trussardi, prendeva spunto dal movimento migratorio che sta
percorrendo il pianeta in tutte le direzioni e dai tentativi goffi, violenti,
paradossali di arginarlo o reprimerlo. Attraverso immagini di reportage,
materiali storici, oggetti di cultura materiale e ovviamente opere concettuali
e spesso multimediali, la mostra aveva un’intenzione che andava
oltre la testimonianza. Aspirava a mostrare le connessioni;
voleva portare il pubblico a una presa di coscienza, alla comprensione
dell’immanenza delle rappresentazioni artistiche proposte e a un’assunzione di
responsabilità; affermava che migrant lives matter, perché all
lives matter.
Chi scrive è andata a visitarla varie volte e ha passato in particolare molte ore davanti a Vertigo Sea, l’installazione video a tre schermi realizzata da John Akomfrah che Okwui Enwezor aveva già meritoriamente portato alla Biennale di Venezia nel 2015. Vertigo Sea, nei suoi 48 minuti di durata, avvolge lo spettatore in un flusso incessante e vertiginoso di visioni, dominato dall’oceano; sembra toccare, come in una rapsodia, la Storia, le storie e le geografie del pianeta, l’irripetibilità ma anche l’insignificanza di ogni istante. A fare da sfondo alle rotte coloniali e al commercio transatlantico degli schiavi, paesaggi marini di una sconvolgente bellezza. Le immagini della natura si alternano a scene cruente di caccia alle balene e agli orsi polari e a brevissime clip in cui si vedono figure scure incatenate e stipate al fondo di una nave. La grandezza sublime dell’Atlantico, l’orrore dei vascelli negrieri e della violenza. Si tratta in assoluto di una delle opere più dense di significato, poesia, denuncia, bellezza e dolore che abbia mai visto.
Chi scrive è andata a visitarla varie volte e ha passato in particolare molte ore davanti a Vertigo Sea, l’installazione video a tre schermi realizzata da John Akomfrah che Okwui Enwezor aveva già meritoriamente portato alla Biennale di Venezia nel 2015. Vertigo Sea, nei suoi 48 minuti di durata, avvolge lo spettatore in un flusso incessante e vertiginoso di visioni, dominato dall’oceano; sembra toccare, come in una rapsodia, la Storia, le storie e le geografie del pianeta, l’irripetibilità ma anche l’insignificanza di ogni istante. A fare da sfondo alle rotte coloniali e al commercio transatlantico degli schiavi, paesaggi marini di una sconvolgente bellezza. Le immagini della natura si alternano a scene cruente di caccia alle balene e agli orsi polari e a brevissime clip in cui si vedono figure scure incatenate e stipate al fondo di una nave. La grandezza sublime dell’Atlantico, l’orrore dei vascelli negrieri e della violenza. Si tratta in assoluto di una delle opere più dense di significato, poesia, denuncia, bellezza e dolore che abbia mai visto.
Ma ho amato in realtà l’intera mostra: la Farfalla Monarca impressa da
Andrea Bowers su cartoni assemblati e tenuti insieme dalla scritta Migration
is Beautiful, davanti a cui mia figlia ha voluto a tutti i costi essere
fotografata (ho inviato lo scatto all’artista, che ha molto apprezzato); la
successione di oggetti ritrovati in mare e messi insieme dal Comitato 3 Ottobre,
oggetti appartenuti uomini, donne, bambini scomparsi nel gurgite
vasto; il progetto multimediale The Mapping Journey, messo
a punto da Bouchra Khalili e la meravigliosa New World Map di
El Anatsui, che si stende davanti al visitatore come un mantello d’oro
sfaccettato…
L’ho amata per la sua essenzialità. Senza ammiccamenti, senza divagazioni verso temi alla moda, senza coinvolgimenti di star. Attraverso un lavoro rigoroso di ricognizione, Massimiliano Gioni, il curatore, ha dispiegato i suoi solidi argomenti artistici e politici, ricordandoci che la storia umana è fatta di migrazioni e contaminazioni. Sì, la Terra è inquieta, irrequieta e anche piena di dolore, ma dall’inquietudine e dalla sofferenza, a certe condizioni (prima tra tutte la consapevolezza storica, sfrondata dalle tifoserie) possono nascere movimenti virtuosi. I frutti puri, come mostrato da James Clifford, impazziscono; i muri eretti per escludere, al pari delle categorie concettuali usate per negare il dialogo e non per aprirlo, possono e devono essere rimossi. Prima ancora che nelle piazze reali e virtuali, la rimozione andrebbe compiuta però in foro interno, nella soggettività individuale. Il famoso cambiamento che vorremmo vedere nel mondo inizia davvero nel punto più vicino a noi.
L’ho amata per la sua essenzialità. Senza ammiccamenti, senza divagazioni verso temi alla moda, senza coinvolgimenti di star. Attraverso un lavoro rigoroso di ricognizione, Massimiliano Gioni, il curatore, ha dispiegato i suoi solidi argomenti artistici e politici, ricordandoci che la storia umana è fatta di migrazioni e contaminazioni. Sì, la Terra è inquieta, irrequieta e anche piena di dolore, ma dall’inquietudine e dalla sofferenza, a certe condizioni (prima tra tutte la consapevolezza storica, sfrondata dalle tifoserie) possono nascere movimenti virtuosi. I frutti puri, come mostrato da James Clifford, impazziscono; i muri eretti per escludere, al pari delle categorie concettuali usate per negare il dialogo e non per aprirlo, possono e devono essere rimossi. Prima ancora che nelle piazze reali e virtuali, la rimozione andrebbe compiuta però in foro interno, nella soggettività individuale. Il famoso cambiamento che vorremmo vedere nel mondo inizia davvero nel punto più vicino a noi.
*Questo testo è stato
realizzato dall’autrice per la newsletter Telescope, focalizzata su
arte e riflessioni contemporanee. Su “Telescope” è stata pubblicata domenica 5
luglio una versione più sintetica con il titolo
“Migrant lives matter perché all lives matter”.
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