giovedì 16 luglio 2020

Il desiderio di essere capiti - Gianni Celati



La malattia fa spesso venire una gran voglia di essere capiti. I malati all'ospedale non fanno che chiedere ai dottori di capirli. Vogliono essere capiti dalla scienza e rimessi a posto come macchine. Tutti noi malati coltiviamo questo ideale meccanico di comprensione, che ci dà qualche speranza. E gli altri naturalmente mostrano di capire la «cosa» che ci rende malati. C’è sempre un gran traffico di dicerie tra parenti e dottori, per capire la «cosa» che rende malato un malato. E i dottori la spiegano con le loro parole meccaniche, ma nessun parente e nessun malato sa di preciso di cosa parlino i dottori. Tuttavia ci scambiamo tutti occhiate e discorsi per dirci «Hanno capito».
La stessa situazione si trova in quelle attività che sono chiamate creative. Anche queste sono una malattia che fa venire una gran voglia di essere capiti. Si vorrebbe che gli altri capiscano la «cosa» della nostra creazione. Si vorrebbe che dicessero: «Sì, è questo, significa questo, è bello per questo». Che soddisfazione, che stordimento e che follia, sentire di essere capiti! Come negli ospedali ci sono i dottori i che spiegano la «cosa» della malattia, così in questo settore ci sono i critici che spiegano la  «cosa» della creazione. E anche qui c'é un gran traffico di dicerie, per capire quale sia la «cosa» che rende una creazione interessante. E anche qui nessuno sa precisamente di cosa parlino i critici, sebbene tutti ci scambiamo occhiate e a discorsi per dire: «Hanno capito».
Una volta c’erano due amici che andavano sempre d’accordo. Facevano lunghe discussioni e avevano sempre l’aria di capirsi benissimo. Caratteristico era il fatto che, mentre le loro compagne (o spose o fidanzate che dir si voglia) si guardavano sempre in cagnesco «senza la minima ombra di comprensione reciproca, i due amici sembravano sempre capaci di superare le differenze con discorsi ragionevoli e persuasivi. Perché si capivano benissimo».
I due si capivano così bene perché parlavano quasi sempre con le parole degli ultimi libri che avevano letto. E se le loro vedute qualche volta non combaciavano, era solo perché uno dei due aveva letto un certo libro e l’altro no. Allora l’altro doveva recuperare, e quando aveva letto lo stesso libro i due si capivano di nuovo benissimo.
Ma col tempo i due amici si sono visti sempre meno. Uno di loro è andato ad abitare in un altro paese, e il sincronismo delle loro letture si è rotto. Così le parole dei libri hanno smesso di funzionare come una vernice omogeneizzante che passava sopra tutte le differenze. Prima c’era una coincidenza meccanica nelle loro opinioni politiche, letterarie, filosofiche, scientifiche. Indossavano quelle opinioni come una livrea, e usavano quelle parole come fanno i dottori con i malati. Anche i dottori parlano sempre con le parole dei libri che hanno letto e si capiscono così, ma nessun malato ha mai capito di cosa parlino i dottori.
C’è sempre di mezzo questo desiderio di essere capiti, di abolire le distanze e le differenze. Tra i due amici adesso le differenze c’erano, e molto evidenti, se non altro perché abitavano in paesi diversi e avevano avuto vicissitudini molto diverse. In queste condizioni è sempre difficile trovare parole che superino la distanza da cui parliamo, e i due amici hanno cominciato a sentire che c’era una gran scarsità di parole tra di loro, ogni volta che si rivedevano.
L’uno e l’altro, ognuno per conto suo, temeva che non avrebbero più potuto essere amici. Perché non si capivano più e non avevano più parole per capirsi. Ormai avevano superato l’età in cui basta essere intelligenti e spiritosi, affabili compagnoni con le stesse idee, per credere di capirsi. Né le buone intenzioni, né la buona volontà, potevano più aiutarli.
La conseguenza era che adesso l’uno temeva i giudizi dell’altro. Temeva cioè che l’altro io giudicasse male, o lo giudicasse comunque, perché aveva preso una strada diversa dalla sua. E così nel sospetto reciproco, che nasceva in risposta al supposto giudizio dell’altro, per cui ora i due amici si giudicavano molto male, siccome ognuno dei due pensava di essere giudicato male dall'altro, i due amici si sono finalmente persi di vista per sempre.
Qual è il miglior dialogo tra gli uomini? Nella malattia sospetto che il miglior dialogo possa essere quello in cui qualcuno dice: «Ah, ho capito benissimo, sono d’accordo, sono d’accordo!». Nella malattia mi sembra che questo non sia neanche un dialogo, non abbia nulla del dialogo. Perché ha eliminato ciò che rende possibile un dialogo, ha eliminato la distanza da cui ciascuno di noi parla.
In questo ospedale dove sono, un ospedale inglese in una località di campagna, c’è una robusta infermiera di colore che viene dalla Giamaica. Io non capisco mai cosa lei dice, lei non capisce quello che dico io. Nel mio caso, è perché non sento certe frequenze nella sua voce, a cui il mio orecchio non è stato educato. Nel suo caso, è perché il mio modo di parlarle risulta troppo artificiale al suo orecchio, e prima di udire quello che dico lei sente lo straniero che non capirà mai. Allora ci guardiamo e ci sorridiamo, e il nostro dialogo è fatto con le tonalità della grande distanza da cui ci parliamo. E un po’ come lanciarsi delle voci attraverso una pianura vuota. Perché siamo fatti così, siamo quello che siamo.
Quell'infermiera trova buffo che io stia a leggere libri tutto il giorno. Mi ha chiesto cosa leggo, e le ho detto: «Sono libri di filosofia». Al che lei s ‘è messa a ridere come se avessi raccontato una formidabile barzelletta. Forse la parola «filosofia» ha un suono buffo al suo orecchio, o forse era buffo il mio modo di pronunciarla.
In questi giorni leggo la meravigliosa filosofia di Giordano Bruno, e a momenti ho la vaga sensazione di capire qualcosa. A scuola questa filosofia era riassunta da due sole parole («natura naturans»). Ci veniva insegnata così e noi fingevamo di capire quelle parole, cioè di capire la filosofia di Giordano Bruno. Pronunciando quelle due paroline, la commedia della comprensione poteva andare avanti senza intoppi.
Nella malattia rimugino su queste cose e trovo delle piccole risposte. Là fuori c'é un parco con betulle e aceri platanoidi, poi una strada di campagna che porta ad un pub in riva a un laghetto. Mi arrivano delle voci e sento che là fuori tutti si intendono. Non dico che si intendano bene o male, ma si intendono con i toni di voce, perché negli spazi aperti ci si intende così. A una distanza superiore ai sette-otto metri non si riesce a parlare con le parole meccaniche delle opinioni. Si sente subito che sono meccaniche, come quelle che a scuola ci servivano per studiare i filosofi, come quelle dei due amici che si capivano benissimo.
Appena c'é un po’ di spazio di mezzo diventa ridicola l’idea di persuadersi a vicenda, e il desiderio di essere capiti, e la speranza di essere capiti benissimo. Tutte queste cose danno per scontata l’abolizione della distanza da cui parliamo. Perché dovremmo considerarle più importanti dei toni di voce che ci lasciano nella nostra distanza?
Quando Giordano Bruno è venuto in Inghilterra, ed è andato a Oxford a spiegare le sue teorie, nessuno dei sapienti inglesi l’ha preso per un serio filosofo. Va bene che lui era polemico e voleva stuzzicarli. Ma loro proprio non hanno capito neanche lontanamente di cosa parlasse, e anzi la «cosa» di cui parlava per loro non esisteva neanche. Lui parlava dello spazio, del cosmo, della relatività del tutto, e quelli lo trovavano solo rozzo e ridicolo perché pronunciava il latino con accento napoletano.

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