Quello che segue è l’ultimo articolo di Ivan Illich (1926-2002), scritto a
quattro mani con Silja Samerski. La mattina stessa della sua morte lo aveva
rivisto, aggiungendovi alcune note. Nel corso delle settimane precedenti si
erano incontrati regolarmente per pensare insieme quale fosse il modo migliore
di descrivere la distruzione dell'esperienza concreta e sensuale del presente
attraverso l'ossessione per il rischio statistico.
Circa una trentina di anni fa, il National Institute of Mental
Health pubblicava uno studio attestante che un gran numero di
consultazioni mediche si concludevano con la prescrizione di un derivato
dal valium o di un altro tranquillante. All'epoca, questo
articolo provocò un acceso dibattito sui danni iatrogeni di una simile
anestesia di massa. Oggi, non è solo la salute dei pazienti a rischiare
d’essere danneggiata da terapie avventuristiche, è il loro stesso avvenire ad
essere minacciato dalle previsioni statistiche. Sia in caso di prevenzione dal
cancro, che di esame prenatale o di test postoperatori a seguito di un tumore
allo stomaco, il paziente corre un «rischio» attestato dal punto di vista
medico che, come una spada di Damocle, rimarrà sospeso sul suo presente come un
pronostico. Questa nuova epidemia di insicurezza, causata dalla confusione fra
un profilo di rischi ed una diagnosi medica, è finora sfuggita ad ogni
dibattito critico.
Sul buon uso di numeri e statistiche
Il nuovo libro di Gerd Gigerenzer, Quando i numeri ingannano:
imparare a vivere con l'incertezza, ha come tema l'influenza delle
probabilità statistiche e i malintesi che generano. Comincia chiarendo l'errore
costituito dallo scambiare i risultati dei test per delle certezze.
Procedimenti come la mammografia, il rilevamento di anticorpi anti-HIV nel
sangue o i test genetici sulla propensione all'obesità producono sicuramente
una massa di dati, ma non permettono di dedurre cosa ne è di
quella specifica persona. Tutto ciò che fanno è allargare il ventaglio di
possibilità angoscianti e seppellire ciò che è sotto gli
strati di ciò che potrebbe essere.
Partendo da un profluvio di dati, gli esperti in statistica calcolano le
probabilità che dapprincipio vengono interpretate come rischi dai fondi assicurativi
e dagli epidemiologi prima d’essere interiorizzate dai pazienti come se fossero
verdetti. Durante la consultazione medica, un «rischio attestato di cancro al
seno» o una «probabilità di longevità ridotta» per chi pretende di sottrarsi a
un trattamento radiologico sono interpretati come minacce personali, mentre non
è che l'espressione numerica della frequenza di determinati eventi all'interno
di grandi complessi. Il paziente, che non si rende conto che i «rischi» che il
medico gli imputa sono solo le probabilità di insorgenza di determinate
caratteristiche in schiere fittizie di pazienti, considera le dichiarazioni del
medico come se fossero rivolte in modo particolare alla sua stessa carne.
Gigerenzer vorrebbe porre fine a queste ingenuità una volta per tutte.
Secondo lui, se il cittadino moderno non vuole più farsi fregare, deve capire
che il mondo non ha più una realtà tangibile. Gigerenzer ritiene sia giunto il
tempo in cui l'homo educandus non deve più solo familiarizzare con
i rudimenti del calcolo delle probabilità, ma anche assimilarne le regole. In
quanto direttore dell'Istituto Max Planck per lo sviluppo umano di
Berlino, con il suo libro pretende di smaliziare sia gli esperti che i profani
iniziandoli agli arcani del calcolo dei rischi. Le conoscenze statistiche
acquisite alla sua lettura dovrebbero avere un doppio effetto: anzitutto
dovrebbero costituire una salvaguardia dalle acrobazie statistiche ingannevoli,
oltre a voler convincere il lettore che una valorizzazione critica del calcolo
delle probabilità è la quintessenza del pensiero illuminato. Non si limita a
dissipare l'illusione secondo cui un test HIV sarebbe una diagnosi o
un'impronta genetica, una prova di colpevolezza, ma intende espellere dalle
menti dei suoi allievi ogni sentimento di certezza intuitiva. Ritenendo che
l'evoluzione umana sia stata superata dai progressi della tecnica, lo psicologo
stima che non vi sia più motivo di affidarsi ai sensi carnali. La stessa
fiducia nella realtà è, a suo avviso, un’illusione. Chiunque insista, dopo
questa lezione, a basare i propri giudizi sulle proprie intime certezze invece
di soppesare possibilità e rischi non è soltanto in ritardo, ma si espone al
pericolo. È in nome di questi nuovi Lumi che Gigerenzer annuncia ai suoi
lettori che solo il cittadino che ha abiurato la propria intuizione e la
propria esperienza possa aspirare al titolo di cittadino adulto.
Calcolo e senso comune
Si tratta dello stesso Gigerenzer che, alla fine degli anni 80, studiava
come a partire dalla metà del XX secolo gli psicologi fossero giunti
progressivamente a considerare il cervello una macchina calcolatrice. Nei suoi
studi sulla storia dell'intelletto umano ritenuto un intuitivo statistico,
descriveva come i suoi colleghi pretendessero di verificare l'ipotesi che i
loro porcellini d'India erano in grado di valutare concretamente le
probabilità. Non essendo il teorema di Bayes programmato nel cervello e non
corrispondendo le stime umane ai risultati dei calcoli statistici, gli
psicologi che pretendevano di esplorare le capacità del giudizio umano gli
imputavano parzialità e impotenza.
«Gli psicologi del ventesimo secolo avevano un tale rispetto per la teoria
matematica delle probabilità e la statistica da insistere [...] a voler
riformare il buon senso umano al fine di renderlo conforme alla matematica».
Ma oggi, secondo Gigerenzer, il senso comune è un'entità superata. Nel
gioco a dondolo di un mondo tecnogeno, chiunque voglia rimanere in sella non ha
altra possibilità che interiorizzare le sue leggi:
«Il mio proposito è quello di divulgare le regole di un pensiero chiaro e
facile da comprendere al fine di aiutare chiunque ad
orientarsi fra le innumerevoli incertezze del nostro mondo moderno, dominato
dalla tecnica».
La maggior parte degli esempi con cui pretende di illustrare la necessità
di un'educazione al pensiero probabilistico per la condotta della vita
quotidiana sono tratti dalla medicina e dalla giurisprudenza, e la loro morale
è sempre la stessa: molte sventure potrebbero essere evitate se gli esperti e i
profani fossero meglio istruiti in fatto di statistica. Il test del DNA conduce
parecchi imputati dietro le sbarre senza che i giudici tengano conto del fatto
che anche una corrispondenza effettiva tra i profili genetici esaminati può
essere una coincidenza statistica. Dopo un test HIV positivo, David è tentato
di suicidarsi fin quando non viene a sapere che un tale risultato non è una
diagnosi e che in una popolazione normale, su due test positivi, uno è falso.
È senza dubbio grottesco come quegli stessi esperti — medici, avvocati,
consulenti in materia di Aids — che mettono i risultati dei test sotto gli
occhi dei loro clienti prima di intimidirli con batterie di esami di
laboratorio e di probabilità, non abbiano la minima idea della portata limitata
dei giudizi fondati sulla statistica. Gli esempi di «diagnosi» patogene
menzionati da Gigerenzer sono impressionanti: uomini in piena salute che si
sottopongono al test per la diagnosi precoce del cancro alla prostata perché
credono di sfuggire così alla prospettiva di morte per cancro, e gli effetti di
questo screening e dei trattamenti connessi sono spesso
l'impotenza e l'incontinenza. O, meno fortunate di David, persone che si
suicidano dopo che un test sull'HIV ha fatto loro credere di avere l'Aids. Più
o meno ogni anno, circa centomila donne tedesche si sottopongono all'ablazione
del seno a seguito di una mammografia errata. I casi di interventi
ingiustificati vanno dall'esame di tessuti vitali alle peggiori mutilazioni.
Come avvertimento sulle conseguenze pericolose e perfino fatali
dell'illusione che la vita possa essere assicurata ed i servizi medici
garantiti, il libro di Gigerenzer adempie magnificamente al suo scopo. Se
alcuni passaggi critici sono sconvolgenti, è per il loro candore, come ad esempio
quelli in cui Gigerenzer parla del «valore predittivo positivo» di tale esame
di laboratorio. Dopo aver appreso che su dieci donne disperate per una
«mammografia positiva» una sola soffre di cancro al seno, o che in una
popolazione normale appena la metà dei test HIV positivi attesta un'infezione
effettiva, il lettore si lascerà ancora intimidire da quel «valore di
predizione»? La differenza tracciata da Gigerenzer tra il rischio «relativo» e
quello «assoluto» ci sembra particolarmente illuminante. Le campagne
pubblicitarie a favore della mammografia continuano a predicare che gli esami
regolari riducono del 25% la mortalità per cancro al seno. Ciò significa che in
dieci anni, nel gruppo controllato con mammografie, tre donne su mille saranno
morte per cancro al seno, mentre ce ne saranno quattro nel gruppo senza
mammografie. È facile dedurne che lo screening abbia ridotto
di un quarto il rischio relativo. Il rischio assoluto,
in compenso, è stato ridotto solo da quattro a tre casi su mille, vale a dire
dello 0,1%. Ciò significa che 999 donne su mille saranno state orientate
inutilmente verso la mammografia e che i risultati falsamente positivi avranno
inoltre scatenato un'epidemia di insicurezza fra decine di loro.
La statistica e la medicina predittiva
Gigerenzer ha ben compreso che l'impresa medica è l'esempio perfetto
dell'irrazionalità di una società dominata dalla fede nella fattibilità
tecnica. Il suo sguardo sobrio sui «fatti concreti» è adatto a disilludere
permanentemente i suoi lettori. L'«illusione mammografica» gli serve da
dimostrazione-tipo della contro-produttività della cosiddetta diagnosi precoce.
Quando sottolinea inoltre la relazione tra la paura oggi dilagante del cancro
al seno e le fuorvianti statistiche che la alimentano, il tutto appare davvero
come un gigantesco gioco di prestigio. Il suo libro contiene potenzialmente le
condizioni ideali per una discussione radicale sulle conseguenze patogene della
trasformazione tecnica della società e sul suo servilismo nei confronti dei test.
La questione di cui discutere è: com’è diventato possibile che oggi dei
cittadini in piena salute siano diventati dipendenti dal verdetto di esperti e
di apparati tecnici pur di ottenere l'«assicurazione» che probabilmente non
hanno niente?
Ma Gigerenzer non si spinge oltre. Lungi da chiedersi come un modo di
diagnosi patogena possa diventare un bisogno, il ricercatore in sviluppo umano
preferisce mettere sul mercato la panacea della sua pedagogia statistica. Come
la sua precedente discussione sulla creduloneria popolare di fronte alla
medicina, il suo «ABC dello scetticismo» resta superficiale. Si limita a
fornire al lettore i rudimenti della valutazione delle «possibilità» e dei
«rischi». Quanto al presupposto cognitivo di tali concetti, lo lascia accuratamente
nell'ombra, quale forma di pensiero di corte in cui il cittadino concreto
subisce una mutazione che lo riduce alla condizione di membro senza volto di
una popolazione. Ecco perché l'espressione rischio personale è
un ossimoro, una contraddizione in termini. Il fatto che lo psicologo che si
occupa da anni della divulgazione di concetti statistici non dia alcuno spazio
a questo paradosso costituisce la principale debolezza del suo libro.
Le probabilità traducono in cifre la frequenza di un evento in una corte
immaginaria, e questo Gigerenzer lo spiega bene. Tuttavia, non trova parole per
stigmatizzare il significato limitato di tali probabilità e la loro strana
trasformazione in «rischi» minacciosi non appena varcano la soglia della
clinica o dell'ambulatorio. Gigerenzer ha perso l'occasione di attirare
l'attenzione su un malinteso epidemiologico, cioè sulla supposizione infondata
che un «rischio» clinicamente attestato sia la quantificazione di una minaccia
che graverebbe su un particolare paziente. Nasconde così sotto il tappeto uno
dei maggiori pericoli associati alla vacuità di concetti statistici nel
pubblico: oggi, ogni conversazione con un medico, un genetista o un consulente
in materia di Aids provoca quasi inevitabilmente paura, perché i calcoli delle
probabilità vi si confondono con previsioni o, peggio, con diagnosi.
Per definizione, le probabilità non si riferiscono mai a una persona concreta, ma ad
un casus costruito; mai a un «io» o un «tu» che potrebbero
essere presenti in una conversazione in corso, ma sempre a un «caso» membro di
una popolazione statistica. Quando per giunta Gigerenzer mette sullo stesso
piatto le probabilità statistiche e i «pericoli» vissuti, cade nella medesima
trappola che si era proposto di segnalare: fregia lui stesso la cifra astratta
di una frequenza con un’apparente concretezza e la carica in questo modo di
significati falsamente comuni, trasformando così un concetto statistico in una
pseudo-realtà di cui si presume i pazienti debbano fare esperienza. Gigerenzer
riproduce così, a un livello superiore, proprio ciò che pretende di criticare.
Invece di chiarire in profondità il pensiero del rischio, lo strofina come un
unguento per farlo penetrare sotto la pelle dei suoi lettori.
In Quando i numeri ingannano, il «cittadino adulto» viene
rattrappito alla dimensione di un «consumatore informato». L'idea che ciò che
dovrebbe essere oggetto di un sano scetticismo sia presupposto di un significato
concreto di un «rischio attestato di cancro al seno», o di un risultato
astratto da laboratorio come «HIV positivo» o «trisomia 21 [sindrome di Down]»,
non lo sfiora nemmeno. Quando documenta la contro-produttività del sistema
medico moderno, non vede che la radice del male è l'ossessione sociale per la
salute, ma l’attribuisce all'atavismo della conditio humana,
proprio quella che l'ossessione medica pretende di eliminare dal suo cammino.
In quanto praticante di scienze cognitive, pensa di essere arrivato al seguente
risultato: secondo lui, l'homo sapiens non è sufficientemente
adattato al mondo che lui stesso ha creato, lo dimostra il fatto che, invece di
fare affidamento sul calcolo dei rischi, l'uomo si affida ancora ai propri
sensi. In qualità di esperto di educazione, è qui che vorrebbe dare il suo
contributo: dipendesse da lui, già domani in Germania tutti i programmi
d’istruzione includerebbero un piano in tre livelli di alfabetizzazione alla
statistica.
Gigerenzer considera «adulto» solo il cittadino che ha imparato ad
informarsi costantemente sui suoi rischi e a valutarli correttamente. Se il
calcolo delle probabilità venisse proclamato sulla piazza del Municipio, pensa
Gigerenzer, il minimo consumatore normale diventerebbe capace di cavarsela in
un mondo in cui tutto viene calcolato. La probabilità di un incidente in
autostrada, il valore di previsione positiva di una mammografia, i rischi
sanitari di una bevuta con gli amici del quartiere dovrebbero essere oggetto di
una educazione che trasformi chi non vede i numeri in uomini e donne della
ragione. Per il cittadino adulto di Gigerenzer, il buon senso deve essere
dichiarato fuori uso. Avendo decretato che le certezze sensoriali sono
illusioni evolutive, non c'è nient'altro su cui basarsi se non una collezione
di valori il cui significato dev’essere testato statisticamente. Quando
Gigerenzer farà l’appello dei cittadini adulti, potrà rispondere «presente»
solo chi avrà sottomesso il suo cuore e la sua mente al calcolo dei rischi.
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