Cochabamba, Bolivia. Il virus dilaga, la gente muore respinta sulle porte
degli ospedali al collasso, le bare restano abbandonate nelle strade anche per
una settimana. È storia di questi giorni, anche se qui ricorda un passato che
sembra remoto. Il sistema dei media divora i fatti, li digerisce e li rimuove.
Perfino qui, figuriamoci in Bolivia, un paese che non esiste, come ebbe a dire
brillantemente la regina Vittoria. Noi non la pensiamo così. Quando a un
uomo che ha lottato per tutta la vita si rompe la voce, vuol dire che sta
succedendo qualcosa di grave. Conviene ascoltare con il cuore e restare in
silenzio, scrive Raúl Zibechi in un “pezzo” difficile, e lascia parlare quasi
sempre Oscar. Sentire la malattia sulla tua stessa carne, ti fa vedere il mondo
da un’altra prospettiva. Qualcosa di non molto diverso, dev’essere accaduto
allo stesso Zibechi, e lo stesso capita a noi, a differenza della regina
infuriata, da questa stessa parte dell’oceano. Oscar Olivera è un fratello “di
sangue”, per Raúl e per noi, da quasi vent’anni. Da quando, cioè, la sua
gente, a Cochabamba, s’è rifiutata di
pagare anche l’acqua che pioveva dal cielo, come pretendevano la Bechtel, il
governo e la Banca Mondiale. La multinazionale è stata costretta a lasciare la
città e l’acqua è tornata senza padroni. È stata la prima grande rivolta
(vincente) contro il liberismo di questo millennio. Da allora, ogni volta che
abbiamo incontrato Oscar, in Bolivia e spesso in Italia, lo abbiamo
sentito parte della nostra storia. La parte migliore, perché le sue idee, ma
soprattutto il rifiuto assolutamente naturale di sentirsi un grande leader, un
vincitore di prestigiosi premi internazionali, restano una testimonianza
impareggiabile di allergia al potere e alle gerarchie del comando, una
dimensione etica del far politica ormai quasi estinta. Il rigore assoluto con
cui Oscar ha scelto di non fare il ministro o il capo di una forza politica per
confondersi, per rendersi quasi invisibile tra la gente – si trattasse di
scavare una cisterna comunitaria o di coltivare verdure con i bambini delle
scuole – è un grande insegnamento per chiunque nel mondo sia ancora così pazzo
da impegnarsi nel cimento di provare a cambiare il mondo. Qui abbiamo vissuto
quel che Oscar racconta, una sorta di Bergamo boliviana. Ci sono però, va detto,
almeno un paio di differenze sostanziali: la prima è che, malgrado le decine di
miliardi tagliati, il sistema sanitario pubblico italiano non è paragonabile a
quello della Bolivia. La seconda, più tremenda, è che nella città che ha vinto
la “guerra dell’acqua” oggi, mentre l’epidemia dilaga, l’acqua non c’è. Un paradosso feroce,
che indica come perfino le vittorie più celebrate (così come le rivoluzioni)
non siano eterne, possono solo essere difese lottando, con alterne fortune,
nella vita quotidiana. Abbiamo scritto a Oscar, naturalmente. Lo dice lui: la
sola cosa che ci resta è la solidarietà tra i compagni. Ci ha risposto
così: Venceremos (…), y nos daremos un abrazo prolongado de cariño y
esperanza! Su queste nostre paginette web, l’abbiamo scritto spesso:
la speranza è la vita che si difende. Grazie, Oscar, per avercelo ricordato
anche stavolta
Oscar Olivera, il più noto protagonista della storica guerra dell’acqua di Cochabamba, ex operaio in una
fabbrica di scarpe e dirigente sindacale, ha il coronavirus. Quando ha avuto un
malore ha provato ad andare in ospedale ma è stato invitato a rivolgersi
altrove perché l’ospedale pubblico non era più in grado di prendersi cura di
nessuno. Dopo sei ore, nell’altro centro ospedaliero, ha avuto il risultato
delle analisi: positivo al Covid. Non hanno potuto ricoverarlo perché neanche
lì c’erano letti disponibili. Adesso Oscar è a casa sua, in un
quartiere di Cochabamba, con la famiglia. Al telefono (Zibechi
scrive da Montevideo, ndr) ci dice che sta bene, non ha sintomi, ma
si sente molto afflitto dalla situazione che c’è nella città.
Ci sono famiglie che devono tenere in casa fino a sette giorni i propri
morti perché nessuno passa a raccoglierli e nessuno li seppellisce, racconta. Non funzionano i
servizi elementari della salute, né quelli di emergenza né quelli dell’igiene
urbana. In alcuni casi, i familiari lasciano le bare per la strada,
perché anche i cimiteri sono al collasso. Impotenza, rabbia e solitudine sono
le sensazioni che dominano in buona parte dei 600 mila abitanti della città.
“La sola cosa che ci rimane è la
solidarietà dei compagni“, dice Oscar, la voce rotta dal dolore. “Ho
chiamato alcuni di loro per dire che ho il virus ma sto bene e alcuni mi hanno
detto lo avevano già avuto ma non l’avevano detto per non deprimere le loro
famiglie e gli amici. Raccontarci quel che succede è un bene, invece, ci fa risollevare
l’animo…”.
Quando a un uomo che ha lottato per tutta la vita si rompe la voce, vuol
dire che sta succedendo qualcosa di grave. Conviene ascoltare con il cuore e
restare in silenzio.
“… come la disgrazia può unirci, come ci fa recuperare i sentimenti… Ieri
un parente mi ha detto che già da due settimane era inferma tutta la famiglia
ma non avevano detto nulla per non preoccuparci”.
“A Cochabamba è orribile. I malati vanno di ospedale in ospedale,
ne girano quattro o cinque e poi muoiono sulla porta. Morti che non possono
essere seppelliti perché i cimiteri non hanno più posto. Non si sa perché
muoiono, non ci sono certificati. Ci sono solo i morti nelle strade…”
I cittadini che abitano nei pressi del deposito municipale della spazzatura
hanno bloccato l’entrata per protestare contro la mancanza d’acqua, così anche
la spazzatura si accumula in città“.
Oscar prova a contestualizzare il dramma. “Los de arriba (quelli
che stanno in alto, ndt) mostrano molta incapacità, sanno fare solo
il saccheggio e i ricatti. La classe politica è interessata al suo potere,
l’ultima cosa di cui si preoccupa è la gente. Tanto nel governo quanto
nell’opposizione c’è una strumentalizzazione della disgrazia e dell’impotenza
della popolazione abbandonata alla sua sorte. La politica de
los de arriba è un circo putrefatto“.
Al contrario, racconta ancora, i medici e gli addetti alla sanità
stanno lavorando in maniera autonoma, in squadre, per assistere la popolazione
e perfino per costruire ventilatori. “Sono sforzi sovrumani perché
non hanno capacità economiche né istituzionali perchè quei tentativi possano
andare avanti. L’istituzionalità di merda dello Stato non fa niente“.
La pandemia, dice Oscar, ha messo in mostra anche l’enorme solidarietà di
persone che hanno rinunciato alla comodità dei loro lavori per arrivare nei
luoghi dove c’è più bisogno di aiuto. “Qui, per assistere le persone,
sono morti molti medici e infermieri, perché i governi hanno lasciato la sanità
in una condizione terribile“.
In questi quattro mesi, il governo ha destinato appena 70 dollari, solo per
una volta, per aiutare le famiglie. La situazione è drammatica e non c’è modo
di andare nei mercati né a vendere né a comprare. “Ogni settore si è fatto
carico di quel che poteva, con mense comunitarie, con medicine naturali, con
gli spazi di solidarietà che sono sorti”.
Sentire la malattia sulla tua stessa carne, ti fa vedere il mondo da
un’altra prospettiva. “Sabato, quando sono andato all’ospedale, mi hanno
dirottato a uno dei migliori centri della città, un ospedale privato. Però
perfino lì la situazione era tremenda, la gente gridava fuori dalle porte
perché stava morendo. C’erano persone che arrivavano con altre patologie, o in
seguito a incidenti, ma non riuscivano ad essere accolte. Dentro, invece,
c’erano sale chiuse, piene zeppe di gente contagiata”.
Alcuni medici e diverse infermiere, per poter continuare a lavorare, hanno
scelto di affittare stanze per non tornare a casa e rischiare di spargere il
contagio tra i familiari. Altri sono stati espulsi dai quartieri per la
brutale insensibilità dei vicini. “La sola cosa che ci resta è la solidarietà
dei compagni”, ripete Oscar Olivera, guerriero dell’acqua, contagiato
dal coronavirus, deciso a lottare per la vita, come ha fatto sempre e come
sempre farà….perché torni il tempo degli abbracci.
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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