Il TAV spiegato bene: 10,6 miliardi per un’opera inutile mentre chiudono gli ambulatori di Exilles e Gravere
A partire da domani chiudono gli ambulatori di Exilles e Gravere. L’annuncio è stato fatto pochi giorni fa dalla ASL Torino 3.
Gli abitanti dei due paesi adiacenti al maxi cantiere del TAV dovranno scendere fino a Susa per le cure mediche, con enormi disagi per gli anziani come già denunciato dai quotidiani locali. Insomma, mentre letteralmente a pochi metri si spendono oltre 10 miliardi per un’opera inutile e anti-ecologica, le autorità chiudono l’unico presidio medico della zona. Una notizia che fa ancora più rabbia sapendo che la decisone va a indebolire ulteriormente la medicina territoriale esattamente in un momento in cui l’emergenza coronavirus ha mostrato che la logica dell’accentramento e del taglio dei costi ha fatto danni incalcolabili al servizio sanitario nazionale.
Ecco il famoso sviluppo ad alta velocità che sta arrivando in Val Susa. Un’ennesima riduzione dei servizi nel pieno della logica mafiosa usata dallo stato italiano per imporre il TAV in Val di Susa. Prima si effettuano tagli che distruggono la qualità della vita in un territorio, poi arrivano magnanime le compensazioni, elargite alle comunità locali in cambio dell’accettazione della grande opera.
La risposta
della lobby alla Corte dei conti, ruspe in Clarea ma i notav resistono sugli
alberi
Notte di resistenza in Val Clarea. Il monitoraggio popolare del cantiere
nei giorni scorsi aveva segnalato movimenti di mezzi da lavoro all’interno del
perimetro che facevano presagire una ripresa dei lavori. Il coordinamento dei
comitati notav ha quindi inaugurato sabato un presidio permanente nella zona dei mulini storici, edifici che
dovrebbero essere distrutti dall’avanzare del cantiere come tutta la zona
boschiva circostante. Mentre un piccolo corteo improvvisato partiva da
Giaglione verso il cantiere per ribadire che nessuno si sarebbe fatto cogliere
impreparato, in tutta risposta il
governo ha iniziato a spostare centinaia di poliziotti e militari in Val Susa
preparandosi ad attaccare il presidio. L’arrivo di decine di mezzi
è stato segnalato da sentinelle notav tra Rosta e Avigliana nella serata di
ieri.
Come previsto, questa notte,
tali e quali ai ladri, i lobbyisti del tunnel hanno tentato di rimettere in
moto la macchina del TAV. Alcune ruspe hanno iniziato a provare a
sbancare le rive del torrente Clarea per posare una passerella e mettere jersey
con filo spinato a difesa del cantiere della vergogna. La polizia in assetto antisommossa ha
circondato il presidio ai mulini ma ha dovuto ripiegare. Tutta la
notte i notav hanno resistito con
fantasia e determinazione, alcuni gruppetti si sono incatenati ai
cancelli e altri sono arrampicati sugli alberi sfruttando la conoscenza del
territorio accumulata in questi anni di presenza attiva e ricognizioni. Nel frattempo la polizia bloccava l’accesso
dal lato di Giaglione a solidali e giornalisti, provando ad isolare i notav
barricati. Con un’ordinanza emanata d’urgenza il Ministero
dell’interno, per bocca del prefetto, ha chiesto di chiudere tutta via
dell’Avanà, tutta via Roma e le zone circostanti incluse tutte le zone
boschive/di campo di Giaglione e Chiomonte.
Questa brusca accelerata rappresenta l’ennesima mossa scomposta di TELT & soci.
Presi dal panico per la sonora bocciatura del raddoppio della Torino-Lione da parte della Corte
dei conti europea, provano
goffamente a riprendere in fretta e furia i lavori. Per spostare un po di terra in riva al fiume, per
l’ennesima volta, le autorità italiane hanno mobilitato centinaia di poliziotti
e carabinieri, con un costo folle, in un momento particolarissimo per tutto il
paese che richiederebbe di investire risorse ingenti per ben altre priorità.
Per ora i notav sono per ancora alla zona dei
mulini, ci dicono di comunicare a tutti che sono tranquilli e il morale è alto
ma servirà la partecipazione di tutti nei prossimi giorni, a partire da oggi
lunedi 22 giugno APPUNTAMENTO ALLE ORE 18 al CAMPO SPORTIVO DI GIAGLIONE per
dare il cambio ai presidianti della Clarea. Per la lobby sitav il messaggio è forte
e chiaro, questo è solo un’anticipazione di cosa vorrà dire per questi signori
cantierizzare in un territorio ostile.
AI NOSTRI POSTI CI TROVERETE! FORZA NOTAV!
I buchi neri
nel nostro futuro - Marco Revelli
Ogni volta
che qualcuno butta l’occhio sulla TAV Torino-Lione ne scopre l’assurdità e
l’insostenibilità. Intendo qualcuno che non abbia gli occhi foderati da una
colata di cemento armato ideologico spessa 57 chilometri o che non sia
condizionato da un conflitto d’interessi grande come l’orrido grattacielo di
Fuffas a Torino. L’ultima volta in ordine di tempo è toccato alla Corte dei
Conti europea, che ha messo sotto osservazione otto IFT (nell’orribile pratica degli
acronimi significa “Infrastrutture-faro nel campo dei trasporti), tra cui
appunto la Lyon-Turin. Otto mega-progetti finanziati dall’Unione europea in
quanto parte del TEN-T (il Network Trans-Europeo di Trasporto regolato dal
protocollo del 2013). L’obbiettivo dichiarato era quello di accertare: 1) se le
opere potranno realisticamente essere terminate entro il termine previsto del
2030; 2) se la pianificazione risulti “di buona qualità, valida e trasparente”;
3) se l’attuazione sia efficiente e la supervisione sugli investimenti
cofinanziati dall’UE da parte della Commissione “sia adeguata”. E la
conclusione è stata che, per buona parte dei casi considerati, NESSUNA DI
QUESTE CONDIZIONI appare rispettata. In primo luogo per quanto riguarda il TAV
Torino-Lione, per il quale le “criticità” rilevate e riprodotte nel Rapporto
appaiono macroscopiche.
Intanto per i tempi: nessuna speranza che nel 2030 si veda qualcosa passare in quel tunnel infinito. La Corte considera molto “probabile” che l’infrastruttura principale “non sarà pronta entro il 2030, come al momento previsto”, ma soprattutto pressoché certo che non saranno ultimate le necessarie opere di raccordo, indispensabili per considerare ultimata l’opera, soprattutto sul versante francese dal momento che “la strategia attualmente in vigore in Francia fissa il 2023 come termine ultimo per il completamento della pianificazione delle linee di accesso nazionali”. Il 2035 sembra apparire un terminus ad quem meno impossibile anche se anch’esso del tutto incerto.
Poi per i volumi di traffico, da cui dipende in primo luogo la redditività (e l’utilità) dell’opera. Anche qui la Corte ribadisce quanto non si stancano di ripetere i critici del TAV, ovvero che le proiezioni di traffico dei fautori dell’opera sono fuori dalla realtà. Per raggiungere i 24 milioni di tonnellate annue trasportate occorrerebbe deviare su rotaia più della metà degli attuali 44 milioni di tonnellate trasportate su gomma, percentuale irraggiungibile ovviamente, tanto più in assenza di una lunga serie di “condizioni complementari: eliminazione delle strozzature, costruzione di collegamenti mancanti a livello di corridoio, promozione delle condizioni del traffico multimodale per garantire traffico ferroviario interoperabile e senza soluzione di continuità”, ecc…) che farebbero ulteriormente lievitare i già elevatissimi costi: 9,5 miliardi di Euro, quasi raddoppiati rispetto al precedente “preventivo”, la cifra più elevata tra gli 8 mega-progetti europei presi in considerazione.
Infine la ricaduta ambientale, questione delicata perché è su questo tasto che battono madamine, confindustriali SI-TAV e partito degli affari, dopo che gli altri argomenti (per esempio i flussi di traffico) gli sono stati smontati dai dati: sulla “progressista” riduzione delle emissioni di CO2 ottenuta dal trasferimento dal traffico su gomma alla rotaia. Finalmente la Corte dichiara formalmente fondate le osservazioni dei NO-TAV che da sempre sostengono che le emissioni inquinanti e degradanti del clima prodotte dai lavori di costruzione dell’opera aggreverebbero, per un lungo periodo, anziché alleviare, l’impatto ambientale. Luca Mercalli ha condotto su questo una battaglia scientifica e culturale esemplare. Bene, la Corte dei Conti europea mette ben in chiaro che il momento a partire dal quale occorre calcolare i benefici ambientali è quello dell’entrata in funzione dell’opera e non certo quello dell’inizio dei lavori come truffaldinamente e assurdamente calcolavano i SI-TAV. E poi ci dice che per assorbire l’enorme volume di emissioni dannose prodotte dai lavori (a cominciare dalle centinaia di camion e mezzi di trasporto per gestire lo smarino in circolazione ogni giorno, per una quindicina di anni, in valle) e pareggiare il conto – cioè per iniziare a ottenere vantaggi ambientali dalla ferrovia – occorreranno almeno 25 anni, che calcolati dal 2035 ci portano al 2060, a condizione che i livelli di traffico siano quelli (come si è visto spropositati) previsti dai costruttori. Se raggiungessero, com’è più che ragionevole prevedere, “solo la metà del livello previsto, occorreranno 50 anni dall’entrata in servizio dell’infrastruttura prima che le emissioni di CO2 prodotte dalla sua costruzione siano compensate”. Si andrebbe cioè alle soglie del prossimo secolo!
La Corte ha anche osservato – in conclusione – che “la Commissione non ha valutato in modo indipendente le specifiche di costruzione basandosi sui potenziali flussi di traffico passeggeri e merci prima di concedere fondi Ue”.
Intanto per i tempi: nessuna speranza che nel 2030 si veda qualcosa passare in quel tunnel infinito. La Corte considera molto “probabile” che l’infrastruttura principale “non sarà pronta entro il 2030, come al momento previsto”, ma soprattutto pressoché certo che non saranno ultimate le necessarie opere di raccordo, indispensabili per considerare ultimata l’opera, soprattutto sul versante francese dal momento che “la strategia attualmente in vigore in Francia fissa il 2023 come termine ultimo per il completamento della pianificazione delle linee di accesso nazionali”. Il 2035 sembra apparire un terminus ad quem meno impossibile anche se anch’esso del tutto incerto.
Poi per i volumi di traffico, da cui dipende in primo luogo la redditività (e l’utilità) dell’opera. Anche qui la Corte ribadisce quanto non si stancano di ripetere i critici del TAV, ovvero che le proiezioni di traffico dei fautori dell’opera sono fuori dalla realtà. Per raggiungere i 24 milioni di tonnellate annue trasportate occorrerebbe deviare su rotaia più della metà degli attuali 44 milioni di tonnellate trasportate su gomma, percentuale irraggiungibile ovviamente, tanto più in assenza di una lunga serie di “condizioni complementari: eliminazione delle strozzature, costruzione di collegamenti mancanti a livello di corridoio, promozione delle condizioni del traffico multimodale per garantire traffico ferroviario interoperabile e senza soluzione di continuità”, ecc…) che farebbero ulteriormente lievitare i già elevatissimi costi: 9,5 miliardi di Euro, quasi raddoppiati rispetto al precedente “preventivo”, la cifra più elevata tra gli 8 mega-progetti europei presi in considerazione.
Infine la ricaduta ambientale, questione delicata perché è su questo tasto che battono madamine, confindustriali SI-TAV e partito degli affari, dopo che gli altri argomenti (per esempio i flussi di traffico) gli sono stati smontati dai dati: sulla “progressista” riduzione delle emissioni di CO2 ottenuta dal trasferimento dal traffico su gomma alla rotaia. Finalmente la Corte dichiara formalmente fondate le osservazioni dei NO-TAV che da sempre sostengono che le emissioni inquinanti e degradanti del clima prodotte dai lavori di costruzione dell’opera aggreverebbero, per un lungo periodo, anziché alleviare, l’impatto ambientale. Luca Mercalli ha condotto su questo una battaglia scientifica e culturale esemplare. Bene, la Corte dei Conti europea mette ben in chiaro che il momento a partire dal quale occorre calcolare i benefici ambientali è quello dell’entrata in funzione dell’opera e non certo quello dell’inizio dei lavori come truffaldinamente e assurdamente calcolavano i SI-TAV. E poi ci dice che per assorbire l’enorme volume di emissioni dannose prodotte dai lavori (a cominciare dalle centinaia di camion e mezzi di trasporto per gestire lo smarino in circolazione ogni giorno, per una quindicina di anni, in valle) e pareggiare il conto – cioè per iniziare a ottenere vantaggi ambientali dalla ferrovia – occorreranno almeno 25 anni, che calcolati dal 2035 ci portano al 2060, a condizione che i livelli di traffico siano quelli (come si è visto spropositati) previsti dai costruttori. Se raggiungessero, com’è più che ragionevole prevedere, “solo la metà del livello previsto, occorreranno 50 anni dall’entrata in servizio dell’infrastruttura prima che le emissioni di CO2 prodotte dalla sua costruzione siano compensate”. Si andrebbe cioè alle soglie del prossimo secolo!
La Corte ha anche osservato – in conclusione – che “la Commissione non ha valutato in modo indipendente le specifiche di costruzione basandosi sui potenziali flussi di traffico passeggeri e merci prima di concedere fondi Ue”.
Ho detto
all’inizio che basterebbe non essere accecati da ideologie e conflitti
d’interessi per cogliere l’assurdità dell’opera. Per la verità la Corte dei
Conti europea un bel po’ d’ideologia “sviluppista” l’ha assunta nel proprio
DNA. E infatti, nonostante quanto rilevato e contestato, non pensa di bloccare
nulla. E anzi il suo presidente, Oskar Herics, che è stato anche l’estensore
della relazione, continua a dirsi convinto che comunque, aldilà delle criticità
osservate nel modo di calcolare i flussi o gli impatti e circa la trasparenza
delle procedure, quel sistema infrastrutturale europeo resti “essenziale” per
sostenere la crescita sistemica tramite una maggiore connettività
infrastrutturale e che “dovrebbero essere profusi ulteriori sforzi per
accelerare il completamento di molti dei megaprogetti-faro di trasporto
dell’UE”. E questo nonostante che per alcuni di questi – come anche per il TAV
valsusino – siano state opposte numerose, e valide, critiche da valutatori
indipendenti.
Così per il tunnel sottomarino (lungo 18 km) che sta sotto la voce “collegamento fisso Fehmarn Belt”, un segmento del corridoio scandinavo-mediterraneo destinato a collegare l’isola danese di Lolland con l’isola tedesca di Fehmarn, a sua volta già unita alla terraferma tedesca con un ponte (7,7 miliardi di Euro previsti, 794 milioni di finanziamento UE). Un accreditato rapporto di studiosi indipendenti del 2016 ne dichiara l’incerta prospettiva di utilità e redditività per (anche in questo caso) una netta sovrastima dei flussi previsti di traffico, una non accurata valutazione delle criticità insorgenti, e una forte “probabilità di fallimento del progetto finanziario in termini di periodo di rimborso”. In particolare assunta la metafora del semaforo (utilizzata a suo tempo dal ministro danese competente quando chiese e ottenne l’approvazione del progetto in Parlamento), e cioè della luce verde per una garantita possibilità di rientro dai costi dell’investimento entro 40 anni, luce gialla per un periodo compreso tra i 40 e i 50 anni, e luce rossa per un periodo superiore ai 50 anni, gli estensori del progetto calcolavano allo 0% la probabilità di luce verde, al 12,7% di luce gialla, e all’87,3% di LUCE ROSSA.
Così pure per la Rail Baltica, linea ferroviaria finalizzata a collegare Helsinky e Varsavia passando per Estonia, Lettonia e Lituania e collegando l’Europa settentrionale con quella centrale (costo totale stimato 7 miliardi di Euro). Anche in questo caso è stato sostenuto, con argomenti di tutto rispetto (si veda lo studio di Priit Humal, Karli Lambot, Illimar Paul, Raul Vibo), che le analisi costi-benefici sulla cui base i decisori pubblici avevano approvato l’opera erano fortemente (e indebitamente) sbilanciate a favore dei secondi (i benefici) sottostimando notevolmente i primi (i costi). “Dopo aver corretto gli errori – è la conclusione -, il valore attuale del progetto [risulterebbe] essere negativo di circa 300 milioni di Euro” e dunque “non ammissibile al finanziamento secondo le norme dell’UE”. Conclusione a cui in fondo giunge anche il Rapporto della Corte dei Conti, la quale tuttavia si limita a deplorare la mancata diligenza della Commissione Europea nell’ammettere il progetto auspicandone comunque il completamento in tempo utile… Il che ce la dice lunga sull’aria che tira ai piani alti dell’establishment comunitario.
Così per il tunnel sottomarino (lungo 18 km) che sta sotto la voce “collegamento fisso Fehmarn Belt”, un segmento del corridoio scandinavo-mediterraneo destinato a collegare l’isola danese di Lolland con l’isola tedesca di Fehmarn, a sua volta già unita alla terraferma tedesca con un ponte (7,7 miliardi di Euro previsti, 794 milioni di finanziamento UE). Un accreditato rapporto di studiosi indipendenti del 2016 ne dichiara l’incerta prospettiva di utilità e redditività per (anche in questo caso) una netta sovrastima dei flussi previsti di traffico, una non accurata valutazione delle criticità insorgenti, e una forte “probabilità di fallimento del progetto finanziario in termini di periodo di rimborso”. In particolare assunta la metafora del semaforo (utilizzata a suo tempo dal ministro danese competente quando chiese e ottenne l’approvazione del progetto in Parlamento), e cioè della luce verde per una garantita possibilità di rientro dai costi dell’investimento entro 40 anni, luce gialla per un periodo compreso tra i 40 e i 50 anni, e luce rossa per un periodo superiore ai 50 anni, gli estensori del progetto calcolavano allo 0% la probabilità di luce verde, al 12,7% di luce gialla, e all’87,3% di LUCE ROSSA.
Così pure per la Rail Baltica, linea ferroviaria finalizzata a collegare Helsinky e Varsavia passando per Estonia, Lettonia e Lituania e collegando l’Europa settentrionale con quella centrale (costo totale stimato 7 miliardi di Euro). Anche in questo caso è stato sostenuto, con argomenti di tutto rispetto (si veda lo studio di Priit Humal, Karli Lambot, Illimar Paul, Raul Vibo), che le analisi costi-benefici sulla cui base i decisori pubblici avevano approvato l’opera erano fortemente (e indebitamente) sbilanciate a favore dei secondi (i benefici) sottostimando notevolmente i primi (i costi). “Dopo aver corretto gli errori – è la conclusione -, il valore attuale del progetto [risulterebbe] essere negativo di circa 300 milioni di Euro” e dunque “non ammissibile al finanziamento secondo le norme dell’UE”. Conclusione a cui in fondo giunge anche il Rapporto della Corte dei Conti, la quale tuttavia si limita a deplorare la mancata diligenza della Commissione Europea nell’ammettere il progetto auspicandone comunque il completamento in tempo utile… Il che ce la dice lunga sull’aria che tira ai piani alti dell’establishment comunitario.
Diciamocelo
chiaramente: se questo è il clima europeo, se cioè anche dopo le dure lezioni
di questi mesi sulle carenze strategiche del “paradigma prevalente” continuano
come se nulla fosse a circolare e far legge i luoghi comuni del passato assunti
a dogma. Se si continua a credere alla frusta identificazione tra grandi opere
infrastrutturali – sviluppo – progresso. Se si pensa ancora che la misura del
bene stia nella velocità e nella quantità – nella possibilità di far circolare
a velocità crescenti volumi crescenti di merci. Insomma, se siamo fermi lì –
nel punto in cui siamo caduti –, allora anche le montagne di risorse che
l’Unione Europea sta mettendo sul tavolo in queste settimane, supposto che
sopravvivano agli egoismi dei forti o presunti tali, non gioveranno alla nostra
esistenza. Non riapriranno nessun futuro. Finiranno per ribadire errori e
furori di ieri nel nostro domani. Se tutti quei miliardi di euro andranno,
anche solo in parte, nei monconi del TEN-T, negli inutili buchi nelle montagne
o sotto i mari, nelle opere Grandi realizzate dai soliti Grandi costruttori
(sempre loro!) continueremo a essere esposti, come prima, più di prima, alle
incursioni delle pandemie sanitarie e finanziarie, e alle piaghe d’Egitto della
povertà e della vulnerabilità.
Vale per l’Europa e vale per l’Italia. Io non sono tra quelli che hanno stigmatizzato a priori gli Stati Generali come inutile passerella. Sono convinto che dopo i mesi tremendi dell’epidemia e del lockdown fosse opportuno un momento solenne di ascolto ampio e di riflessione “sistemica” (quale che sia il modo con cui è avvenuto e la serietà dei vari partecipanti: lo si potrà discutere alla fine). Ma devo dire che il livello del discorso pubblico nei giorni che hanno preceduto l’evento, e il resoconto di alcune posizioni presentate in quella sede mi hanno terrorizzato: dalla riproposizione di quell’obbrobrio che è il Ponte sullo stretto da parte della rappresentanza al massimo livello del Pd nel governo (senza che fosse rimbeccata come meritava pressoché da nessuno). Alle mitragliate a volo radente del neo-presidente di Confindustria Carlo Bonomi: quello che di guai ne aveva già fatti abbastanza nella sua regione, la Lombardia, resistendo a ogni tipo di chiusura per contenere il virus come se fosse la linea del Piave, e che ora non riesce che a ripetere, in forma maniacale, la richiesta di Infrastrutture, le più grandi possibile, insieme alla restituzione delle accise, come se i problemi sistemici dell’Italia fossero quelli.
D’altra parte li avevamo già visti, i Confindustriali piemontesi, all’opera, un anno e mezzo fa, quando convocarono quel patetico salotto di nonna speranza in Piazza Castello a Torino, per invocare il TAV, come se da quello dipendesse la vita e la morte delle loro imprese e dell’intero territorio. Senza una sola idea in testa di come davvero rilanciare se stessi e il Paese facendo il proprio mestiere d’imprenditori, investendo in ricerca e sviluppo e in innovazione del proprio prodotto, e invece – dopo essersi proclamati iper-liberisti e nemici di tutto ciò che sa di pubblico – invocando denaro pubblico a gogò. Segno di un declino che se non subirà una brusca soluzione di continuità e un punto di inversione radicale ci farà ricordare i giorni della pestilenza come una sorta di quiete, prima della tempesta.
Vale per l’Europa e vale per l’Italia. Io non sono tra quelli che hanno stigmatizzato a priori gli Stati Generali come inutile passerella. Sono convinto che dopo i mesi tremendi dell’epidemia e del lockdown fosse opportuno un momento solenne di ascolto ampio e di riflessione “sistemica” (quale che sia il modo con cui è avvenuto e la serietà dei vari partecipanti: lo si potrà discutere alla fine). Ma devo dire che il livello del discorso pubblico nei giorni che hanno preceduto l’evento, e il resoconto di alcune posizioni presentate in quella sede mi hanno terrorizzato: dalla riproposizione di quell’obbrobrio che è il Ponte sullo stretto da parte della rappresentanza al massimo livello del Pd nel governo (senza che fosse rimbeccata come meritava pressoché da nessuno). Alle mitragliate a volo radente del neo-presidente di Confindustria Carlo Bonomi: quello che di guai ne aveva già fatti abbastanza nella sua regione, la Lombardia, resistendo a ogni tipo di chiusura per contenere il virus come se fosse la linea del Piave, e che ora non riesce che a ripetere, in forma maniacale, la richiesta di Infrastrutture, le più grandi possibile, insieme alla restituzione delle accise, come se i problemi sistemici dell’Italia fossero quelli.
D’altra parte li avevamo già visti, i Confindustriali piemontesi, all’opera, un anno e mezzo fa, quando convocarono quel patetico salotto di nonna speranza in Piazza Castello a Torino, per invocare il TAV, come se da quello dipendesse la vita e la morte delle loro imprese e dell’intero territorio. Senza una sola idea in testa di come davvero rilanciare se stessi e il Paese facendo il proprio mestiere d’imprenditori, investendo in ricerca e sviluppo e in innovazione del proprio prodotto, e invece – dopo essersi proclamati iper-liberisti e nemici di tutto ciò che sa di pubblico – invocando denaro pubblico a gogò. Segno di un declino che se non subirà una brusca soluzione di continuità e un punto di inversione radicale ci farà ricordare i giorni della pestilenza come una sorta di quiete, prima della tempesta.
QUI il Rapporto della Corte dei Conti
Europea
Il totem chiamato Tav - Marco Aime
La Corte dei Conti dell’Unione Europea ha dichiarato
che il progetto dell’alta velocità Torino-Lione è non solo in ritardo sulla
tabella di marcia, ma anche sulla storia. Infatti, oggi più che mai, a oltre
venticinque anni di stanza dalla prima proposta, risulta obsoleto. Troppe cose
sono cambiate. Nel frattempo i costi sono saliti dell’85 per cento rispetto
alle previsioni iniziali.
Inoltre, sempre secondo la Corte
dei Conti Ue, anche i presunti benefici sul piano ambientale non
sarebbero poi così reali: le emissioni di CO2 verrebbero compensate solo venticinque anni dopo
l’entrata in servizio dell’infrastruttura – che avverrebbe nel 2030: “Se
raggiungono solo la metà del livello previsto, occorreranno cinquant’anni
dall’entrata in servizio dell’infrastruttura prima che le emissioni di CO2
prodotte dalla sua costruzione siano compensate”.
Gregory Doucet, il neo eletto sindaco di Lione,
ha dichiarato: “Non bisogna insistere su un progetto sbagliato. È la scelta
peggiore”, sostenendo che occorre invece “investire sulle infrastrutture già
esistenti”, cioè la linea ferroviaria già esistente. È curioso che queste
due voci, non certo aderenti al movimento Notav valsusino, si ritrovino a sostenere posizioni che quello
stesso movimento sostiene da anni e che appaiono evidenti a molte persone di
buon senso.
Invece di riflettere su queste critiche, alcuni
nostri rappresentanti governativi, si sono subito affrettati a ribadire che
l’opera si farà. Alla domanda: “Perché?” si potrebbe fornire una risposta raffinata: il
tanto sbandierato e inseguito “sviluppo” (parola
che ogni giorno sembra perdere di significato, tranne quello di essere uno
slogan per non analizzare i problemi) che il Tav porterebbe, come sostiene Gilbert Rist è una sorta di mito fondante della società
occidentale.
È l’equivalente dei miti di fondazioni delle società che chiamiamo
“primitive”. Un mito non si
discute, soprattutto se è un mito fondante: o ci si crede o crolla l’intero impianto della società. Per cui dobbiamo svilupparci,
“crescere” all’infinito, tralasciando i danni collaterali sull’ambiente, pena
la fine di un’era. Sarebbe una spiegazione che conferirebbe persino un tocco di
dignità alla scelta di andare avanti e di immolarsi sull’altare di una
credenza.
Purtroppo non è così, non c’è nulla di nobile nelle scelte dei diversi
governi che si sono succeduti negli ultimi quasi trent’anni. C’è solo una questione di interessi,
di denaro, nulla di mitico, o forse sì, per quei pochi che ne beneficerebbero.
Ecco, il progetto Tav è il totem
di quella corsa cieca e folle verso l’arricchimento di pochi sulle spalle di
molti, di chi fa discorsi sulla transizione ecologica e poi vuole
stravolgere un ambiente, quello
della valle di Susa, già martoriato da una linea ferroviaria, due statali e
un’autostrada.
Facile aggiungere l’aggettivo “green” a
ogni iniziativa. Avere il coraggio di riflettere anche su errori passati
richiede molto più coraggio.
IL NUOVO SINDACO
DI LIONE BOCCIA IL TAV: “OPERA INUTILE, ORA VA FERMATA”
Il colpo
è devastante. Dopo la sonora bocciatura della Corte dei
conti europea arriva il giudizio severissimo del neo-sindaco di Lione, il
verde Gregory Doucet, eletto sabato scorso con 52,5 % dei
suffragi imponendosi al primo turno contro il suo principale avversario, il
candidato della destra Etienne Blanc, che aveva basato una buona parte della
sua campagna proprio sul sostegno al megatunnel transfrontaliero. In
un’intervista rilasciata a la Stampa, Doucet viene subito interrogato sulla sua
opinione sul TAV e la risposta non lascia spazio a dubbi: «Fra le
nostre città esiste già un’infrastruttura ferroviaria, che è sufficiente, ed è
su quella che dovremmo investire. La Francia ha iniettato troppi pochi fondi
sul trasporto merci su rotaia a livello nazionale. E ora vogliono farci credere
che con la Tav rilanceremo l’attività. Ma è assurdo». Interrogato su come
fare per togliere i tir dalla strade Doucet risponde svelando la banale verità
che in Italia tutti i giornali si sono speciosamente adoperati a nascondere
negli anni con cartine taroccate e altre amenità: «Se valorizzata, la
linea che già corre fra Lione e Torino è sufficiente per i treni che vi devono
circolare. Ecco, investiamo prima lì ». Ovviamente il giornalista del
quotidiano torinese prova a propinare la solita cantilena berciata
ossessivamente assieme ai suoi colleghi italiani qualche mese, la spudorata menzogna
che racconta che i lavori sono a uno stadio troppo avanzato per essere fermati
(quando invece sono stati scavati solo i tunnel esplorativi), ma il sindaco
replica lapidario «Non bisogna insistere su un progetto sbagliato. È
la scelta peggiore. Bisogna fermare la Tav».
Un giudizio senza appello che
speriamo contribuirà a dare il colpo definitivo allo sgangherato progetto di
una seconda linea ad alta velocità tra Torino-Lione. Che una presa posizione
così netta venga dal primo sindaco eletto tra le file dei verdi in una grande
città francese può stupire solo in Italia. I verdi francesi come tutti gli
omologhi partiti ecologisti europei sono da anni opposti al TAV. Solo da noi una propaganda
spudorata ha provato a far passare come rispettosa dell’ambiente un’opera che
disboscherà oltre 5.000 alberi in Val Clarea, distruggerà una vasta porzione di
habitat alpino mettendo in pericolo specie protette ed emetterà 10.000
tonnellate di CO2 perforando un massiccio in cui la presenza di amianto è
certificata da tutti gli organi competenti. La soluzione individuata
da Doucet è la stessa proposta dai tecnici notav negli ultimi 20 anni, dati e
numeri alla mano, per un report modale da gomma a ferro che non devasti la Val
di Susa con costi economici ed ecologici insostenibili. La Torino-Lione esiste già e
non è “un tunnel di montagna” come continua a insistere la propaganda sitav ma
una galleria mista merci/passeggeri ammodernata nel 2011 e utilizzata oggi
soltanto al 30% delle sue capacità. Ora che questa semplice verità viene
pronunciata anche da questo neo-sindaco laureato alla scuola di business di
Rouen così “calmo, costruttivo, l’aria rassicurante” da sedurre persino il
giornale della famiglia Agnelli speriamo che la cosa sia chiara a tutti.
Il TAV va fermato adesso,
per fortuna per una volta nella sciagurata storia della repubblica siamo ancora
in tempo per evitare quello che è ormai un disastro annunciato!
Non solo
Lione, anche il sindaco di Grenoble ribadisce: “TAV progetto di un’altra epoca,
assurdo spendere 26 miliardi”
Hanno
provocato un piccolo terremoto, dai due lati delle alpi, le dichiarazioni Gregory Doucet,
il neo-sindaco di Lione eletto nelle file dei verdi sull’onda di Greta
Thunberg, che ha chiesto all’indomani della sua elezione di fermare la
costruzione di un secondo tunnel per Lione. Forse non tutti sanno però che
anche il
sindaco di Grenoble è da sempre contrario al raddoppio della linea
transfrontaliera. Il primo cittadino dell’altra grande
agglomerazione francese toccata dal progetto, l’ingegnere ed ex-dirigente del
settore logistico di HP, Eric Piolle, ha manifestato in ogni sede la sua
opposizione all’opera. Nel 2016, con un gesto di buon senso, ha anche deciso
di togliere
i finanziamenti della città previsti per il TAV “al
fine di usarli per qualcosa di più utile per tutti”. Ieri ci ha tenuto a
ribadire ancora una volta la sua posizione senza troppi giri di parole: “l’attuale
linea tra Lione e Torino è usata al 20% delle capacità. Come ci dicono in coro
la corte dei conti francese ed europea nonché tutti gli esperti indipendenti
dalle lobby è assurdo spendere 26 miliardi di euro per una nuova infrastruttura
dai costi ambientali enormi. Lo Stato deve puntare sulla rete esistente e non
dilapidare soldi in progetti di un’altra epoca”.
Insomma
ormai tutte
e tre le grandi città che dovrebbero beneficiare di quel
balsamo del progresso chiamato TAV, per non parlare delle comunità locali,
sono opposte all’opera.
Cosa si aspetta a fermare
questo follia che arricchirà solo le lobby del cemento e del tondino?
Ed ecco la sintesi dei costi:
1 cm di tav = 1.587,12€
10 cm di tav = 15.871,2€
mezzo metro di tav = 79356€
1 metro di tav = 158.712€
5 metri di tav = 793.560€
10 metri di tav = 1.587.120€ (un milione e mezzo!)
50 metri di tav = 7.935.600€ (otto milioni di euro!)
100 metri di tav = 15.871.200€
250 metri di tav = 39.678.000€
500 metri di tav = 79.356.000€
1 km di tav = 158.712.000€
5 km di tav = 793.560.000€
Bastano questi numeri per capire l’ordine di grandezza dello spreco. E bastano questi numeri per comprendere cosa si potrebbe fare di realmente utile con alcune porzioni di Tav.
da qui
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