Una civiltà che si dimostri incapace di risolvere i problemi che produce il
suo stesso funzionamento è una civiltà in decadenza.
Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte ai suoi problemi
più impellenti è una civiltà ferita.
Una civiltà che gioca con i propri principi è una civiltà moribonda.
Fatto sta che la civiltà così detta «europea», la civiltà occidentale, così
come si è costituita in due secoli di regime borghese è incapace di risolvere i
due maggiori problemi generati dalla sua stessa esistenza: il problema del
proletariato e il problema coloniale; che deferita alla sbarra della «ragione»
come a quella della «coscienza», quella stessa Europa è incapace di
giustificarsi; che, quanto più, si rifugia in una ipocrisia sempre più odiosa,
tanto più diminuiscono le sue possibilità di ingannare.
L'Europa è indifendibile.
Questa sembra essere la constatazione che scambiano a bassa voce gli
strateghi americani.
La cosa in sé non sarebbe grave.
Grave è il fatto che «l'Europa» è moralmente e spiritualmente
indifendibile.
Oggigiorno poi, risulta che non sono soltanto le masse popolari europee che
la incriminano, ma l'accusa viene mossa a livello mondiale da milioni di uomini
che dalle cave della schiavitù si ergono a giudici.
Si può ammazzare in Indonesia, torturare nel Madagascar, imprigionare in
Africa Nera, seviziare nelle Antìlle. I colonizzati sanno ormai di disporre,
nei confronti dei colonialisti, di un vantaggio: sanno che i loro «maestri» provvisori
mentono.
Che i loro maestri sono perciò deboli.
E dato che oggi mi è stato chiesto di parlare della colonializzazione e
della civilizzazione, affrontiamo direttamente la menzogna principale dalla
quale proliferano tutte le altre.
Colonizzazione e civilizzazione?
Il rischio più comune in questa materia è quello di essere vittima in buona
fede di una ipocrisia collettiva, abile a porre i problemi in modo sbagliato
per legittimare meglio le soluzioni odiose che propone.
Riteniamo dunque che l'essenziale in questo momento, consiste nel vedere
chiaro, pensare con chiarezza, impegnarsi ad intendere con coraggio, rispondere
in modo esauriente alla semplice domanda iniziale: che cos'è propriamente la
colonizzazione? Si tratta di convenire su quello che essa non può essere; né
evangelizzazione, né impresa filantropica, né volontà di combattere le
frontiere dell'ignoranza, malattie, tirannia, né propagazione dell'opera
divina, né estensione del diritto. Bisogna ammettere, in modo definitivo, senza
temere per le conseguenze, che il tutto è opera di avventurieri, di pirati, di
commercianti di spezie, di armatori, di cercatori d'oro e di mercanti spinti da
appetiti vari, dalla fame, dalla forza e dall'ombra malefica di una forma di
civiltà che, per costrizioni interne ad un punto della sua storia, è stata
obbligata a stendere su scala mondiale la concorrenza delle sue economie
antagoniste.
Il seguito della mia analisi trova che l'ipocrisia è di data recente. Né
Cortez che scopre il Messico dall'alto del grande Téocalli, né
Pizarro davanti a Cuzco, (ancor meno Marco Polo di fronte a Cambaluc),
si propongono come furieri di un ordine superiore, anche se uccidono,
saccheggiano, esibiscono elmi, lance, cupidigia; i baveur (1)
sono arrivati più tardi; il maggior responsabile di questo è il pedantismo
cristiano che ha posto le equazioni disoneste:
cristianesimo = civiltà; paganesimo = barbarie,
dalle quali si sono poi sviluppate le abominevoli conseguenze coloniali e
razziste le cui vittime dovevano per forza essere gli indiani, i gialli, i
negri.
Chiarito questo, affermo che mettere in contatto tra di loro diverse
civiltà sia una cosa buona; che mettere insieme mondi diversi sia eccellente;
che una civiltà appassisce se si ripiega su se stessa, per quanto forte risulti
la sua potenza intrinseca; che, in questo contesto lo scambio funge da ossigeno
e che la fortuna maggiore dell'Europa è di essere stata un incrocio; che
l'essere stata il luogo geometrico di tutte le idee, il ricettacolo di tutte le
filosofie, il punto di accoglienza di tutti i sentimenti, ha fatto di lei, la
migliore ridistributrice di energia.
A questo punto, la domanda che mi viene è la seguente: la colonizzazione ha
davvero favorito il contatto o se preferite, tra i vari modi
di stabilire il contatto era il migliore?
Io dico di no.
E dico che dalla colonizzazione alla civilizzazione la distanza è infinita;
che da tutte le spedizioni coloniali, da tutti gli statuti coloniali elaborati,
da tutte le circolari spedite, non si riuscirebbe a ricavare un solo valore
umano.
Innanzitutto, bisognerebbe studiare come la colonizzazione lavora per decivilizzare il
colonizzatore, per abbrutirlo nel senso proprio del termine, per degradarlo,
per risvegliare i suoi istinti più nascosti come l'invidia, la violenza, l'odio
razziale, il relativismo morale, e mostrare che ogni volta che in Vlet Nam una
testa viene mozzata e un occhio cavato e che in Francia si accetti la cosa, una
bambina violentata e che in Francia si accetti la cosa, un malgascio
suppliziato e che in Francia si accetti la cosa, è un valore acquisito per il
progresso della civiltà che diventa peso morto per la stessa civiltà, una
regressione universale che ha luogo, una cancrena che si sviluppa, un focolaio
infettivo che si estende, e che in fondo a tutti quei trattati violati, a tutte
quelle menzogne divulgate, a tutte quelle spedizioni punitive tollerate, a
tutti quei prigionieri costretti con legacci e «interrogatori», a tutti quei
patrioti torturati, in fondo a quell'orgoglio razziale incoraggiato, a quella
iattanza esibita, c'è il veleno istillato nelle vene dell'Europa e il progresso
lento ma sicuro dell'inselvatichimento del continente.
E così, un bel giorno, la borghesia viene svegliata da un formidabile
contraccolpo: le gestapo si danno da fare, le prigioni si riempiono, i
torturatori inventano, rifiniscono, discutono intorno ai cavalletti.
Ci si stupisce, ci si indigna. Si dice: «Come è curioso! Mah! È il nazismo,
passerà!». E si aspetta, si spera; si nasconde a se stessi la verità che è una
barbarie, la barbarie suprema, quella che corona, quella che riassume la
quotidianità delle barbarle; che è il nazismo, si capisce, ma che prima di
esserne stato vittima se ne è stato complice. Che lo si è sopportato — quel
nazismo — prima di subirlo, lo si è assolto, lo si è svisto e legittimato
perché finora era stato applicato ai soli popoli non europei; che quel nazismo
lo si è coltivato, e se ne è responsabili, e che esso assorda, perfora, pervade
goccia a goccia, prima di inglobare nelle sue acque rosse di tutti i crimini
della civiltà occidentale e cristiana
Sì, vale la pena di studiare, clinicamente, nei dettagli, le tattiche di
Hitler e dell'hitlerismo e di svelare al molto distinto, al molto umanista,
cristiano borghese del XX secolo, che custodisce in sé un Hitler nascosto, che
Hitler abita in lui ed è il suo demone, che se lo rifiuta, è per
mancanza di logica e che in fondo, ciò che non perdona ad Hitler, non è
il crimine come tale, il crimine contro l'uomo;
non è l'umiliazione dell'uomo in sé, ma il crimine contro l'uomo
bianco, il fatto di aver applicato all'Europa metodi coloniali finora riservati
agli arabi di Algeria, ai coolies dell'India e ai negri
d'Africa.
Questo è il grande rimprovero che indirizzo allo pseudo-umanesimo: di aver
troppo a lungo sminuito i diritti dell'uomo, di aver avuto e di avere ancora
nei riguardi dl questi, una concezione stretta, parcellizzata, parziale, da
partito preso e in definitiva, sordidamente razzista.
Ho parlato tanto di Hitler perché lo merita; egli permette di ampliare la
visione, di cogliere il fatto che la società capitalistica, allo stato attuale,
è incapace di fondare un diritto delle persone, incapace altresì di fondare una
morale individuale. Che lo si voglia o no, in fondo al vicolo cieco Europa,
intendo l'Europa di Adenauer, di Schuman, Bidault e qualche altro, c'è Hitler.
In fondo al capitalismo, desideroso di succedersi, c'è Hitler. In fondo
all'umanesimo formale e alla rinuncia filosofica, c'è Hitler.
Infatti una delle sue frasi si impone: «non aspiriamo all'uguaglianza, ma
alla dominazione. Il paese di razza straniera dovrà ridiventare un paese di
servi, di braccianti agricoli, o di operai industriali. Non si tratta di
sopprimere le disuguaglianze tra gli uomini, ma di ampliarle e legittimarle».
Tutto ciò suona chiaro, altezzoso, brutale e ci piazza in piena barbarie
urlata! Ma facciamo un passo indietro.
Chi sta parlando? Ho vergogna a dirlo: è l'umanista occidentale, il
filosofo «idealista». È solo per caso che si chiama Renan e che questo sia un
brano tratto dal libro intitolato La Riforma Intellettuale e Morale,
che sia stato scritto in Francia all'indomani di una guerra voluta dalla
Francia, per fare trionfare il diritto sulla forza, la dice lunga sui costumi
borghesi.
«La rigenerazione delle razze inferiori o rese bastarde dalle razze
superiori sta nell'ordine provvidenziale dell'umanità. L'uomo del popolo, da
noi, è quasi sempre un nobile declassato; la sua mano pesante è concepita per
maneggiare la spada piuttosto che l'utensile servile. Piuttosto che lavorare,
egli sceglie di battersi, ritornando così al suo stato primario. Regere
imperio populus, ecco la nostra vocazione. Riversate questa divorante
attività sui paesi che come la Cina invocano la conquista straniera. Degli
avventurieri che disturbano la società europea, fate un ver sacrum,
uno sciame come quelli dei Franchi, dei Longobardi, dei Normanni, ognuno avrà
il suo ruolo. La natura ha fatto una razza di operai: la razza cinese, dotata
di una destrezza meravigliosa quasi del tutto sprovvista di sentimento di
onore; governateli con giustizia, prelevando per il bene di un tale governo una
diaria cospicua a vantaggio della razza conquistatrice, ed essa ne sarà
soddisfatta; una razza di lavoratori della terra è la negra; siate buoni ed
umani nei suoi confronti e tutto rimarrà nell'ordine. Un razza di maestri e di
soldati è quella europea. Riducete questa nobile razza a lavorare
nell'ergastolo come negri o cinesi ed essa si rivolterà. Da noi europei, ogni
rivoltoso è in qualche misura un soldato che ha mancato la sua vocazione, un
essere fatto per una vita eroica, che è stato destinato ad un lavoro
contrario alla sua natura, cattivo manovale, perfetto soldato. Sappiamo che
la vita che spinge alla rivolta i nostri lavoratori soddisferebbe un cinese, un
fellah, esseri sprovvisti di aspirazioni militari. Ognuno facesse ciò
per cui è nato e tutto andrà per il verso giusto».
Hitler? Rosenberg? No, Renan.
Ma facciamo ancora un altro passo indietro. È il politico demagogico.
Chi protesta? Nessuno che io sappia, quando il Signor Albert Sarraut, in un
discorso agli alunni della scuola coloniale insegna che sarebbe puerile opporre
alle imprese coloniali europee «un preteso diritto di occupazione e non so
quale altro diritto di feroce isolamento che farebbe morire in mani incapaci il
vano possesso di ricchezze non sfruttate».
Poi chi se la prende quando sente un certo R.P. Barde assicurare che i beni
di questo mondo, «se dovessero sempre rimanere ripartiti come lo sarebbero
senza l'influenza della colonizzazione, non risponderebbero né ai vari disegni
di Dio né alle giuste esigenze della collettività umana»?
Inteso, come lo afferma il suo confratello nel cristianesimo, il R.P.
Muller: «che l'umanità non deve, non può sopportare il fatto che l'incuria,
l'incapacità, la pigrizia dei popoli selvaggi lascino completamente
inutilizzate le ricchezze che Dio ha affidato loro affinché fossero messe al
servizio di tutti».
Nessuno dice niente.
Voglio dire: non uno scrittore riconosciuto, non un accademico, non un
predicatore, non un politico, non un crociato del diritto o della religione,
non un «difensore della persona umana».
Eppure, dalle bocche dei Sarraut, dei Barde, dei Muller e dei Renan, dalle
bocche di tutti coloro che giudicavano e giudicano lecito applicare ai popoli extraeuropei
e a beneficio delle nazioni più forti e meglio equipaggiate, «una specie di
esproprio per causa di utilità pubblica», era già Hitler che parlava!
Dove intendo approdare? A quest'idea: nessuno pratica la colonizzazione in
modo innocente nessuno colonizza impunemente; dico che una nazione che
colonizza, che una civiltà che giustifica la colonizzazione — quindi l'utilizzo
della forza — è già una civiltà malata, una civiltà moralmente colpita e che,
irresistibilmente di conseguenza in conseguenza, di negazione in negazione,
richiama il suo Hitler, ossia il suo castigo.
Colonizzazione: testa di ponte in una civiltà della barbarie dalla quale
può sbarcare la negazione pura e semplice della civiltà in qualunque momento.
[...]
Per me, richiamare alcuni dettagli di quelle schifose carneficine, non è il
segno di un piacere morboso, ma è perché di quelle teste umane mozzate, di
quelle raccolte di orecchie, di quelle case bruciate, di quelle invasioni
gotiche, di quel sangue che evapora, di quelle città che scompaiono sotto lame
di spade, non è facile sbarazzarsi. Sono la prova che la colonizzazione, lo
ripeto, rende disumano persino l'uomo più civile; che l'azione coloniale,
l'impresa coloniale, la conquista coloniale, fondata sul disprezzo
dell'indigeno e da questa giustificata, tende inevitabilmente a modificare
colui che la intraprende; che il colonizzatore che tranquillizza la propria
coscienza con l'abitudine a farsi dell'altro un'immagine da bestia, allenandosi
a trattarlo da bestia, tende in modo obiettivo a trasformare se stesso in
bestia. È quell'azione, quell'onda di ritorno della colonizzazione che era
importante segnalare.
Parzialità? Per niente. Tempo addietro di questi stessi fatti ci si vantava
e, sicuri di avere tutto sotto controllo, non si moderavano le parole. [...]
Sicurezza? Cultura? Formalismo giuridico? Aspettando la risposta, guardo e
vedo, ovunque si trovano faccia a faccia colonizzatori e colonizzati, la forza,
la brutalità, la crudeltà, il sadismo, lo scontro e, in parodia alla formazione
culturale, la produzione affrettata di funzionari subalterni, di servi, di
artigiani, di commessi operatori di commercio, di interpreti necessari al buon
andamento degli affari.
Ho parlato di contatti.
Tra il colonizzatore e il colonizzato, c'è posto solo per il lavoro duro,
l'intimidazione, la pressione, la polizia, l'imposta, il ladrocinio, lo stupro,
le imposizioni culturali, il disprezzo, Ia sfiducia, l'alterigia, la
sufficienza, la villania, élites senza cervello, masse
avvilite.
Nessuno spazio per il contatto umano, ma rapporti di dominazione e di
sottomissione che trasformano il colonizzatore in pedina, in maresciallo, in
guardia-ciurme, in frusta e l'indigeno in strumento di produzione.
Adesso tocca a me porre un'equazione:
colonizzazione=cosificazione
Sento la tempesta. Mi parlano di progresso, di «realizzazioni», di malattie
guarite, di innalzamento del livello di vita al di là delle aspettative.
Io parlo di società svuotate di se stesse, di culture calpestate, di
istituzioni minate, di terre confiscate, di religioni assassinate, di
magnificenze artistiche annientate, di straordinarie possibilità soppresse.
Mi portano a riprova le statistiche, i chilometri di strade costruite, i
canali, le ferrovie.
Io parlo di migliaia di persone sacrificate per la costruzione del
Congo-Océan. Parlo di coloro che, mentre sto scrivendo, stanno scavando con le
mani le fondamenta per il porto di Abidjan. Parlo di milioni di persone
allontanate con la forza dai loro dei, dalla loro terra, dalle loro abitudini,
dalla loro vita, dalla vita, dalla danza, dalla saggezza.
Parlo di milioni di persone alle quali si è inculcata abilmente la paura,
il complesso di inferiorità, il tremore, la genuflessione, la disperazione, il
servilismo.
Mi presentano trionfalmente tonnellate di cotone o di caffè esportate,
ettari di uliveti o di vigneti piantati.
Io parlo di economie naturali, di economie armoniose
e vitali, di economie a misura dell'uomo autoctono
disorganizzate, di colture di sussistenza distrutte, di sottoalimentazione
impiantata, di sviluppo agricolo finalizzato al solo beneficio delle metropoli,
di razzie di prodotti vari, di razzie di materie prime.
Sì vantano di avere soppresso gli abusi.
Anch'io parlo di abusi, ma per affermare che a quelli di prima — molto
realistici — se ne sono sovrapposti altri del tutto detestabili. Mi parlano di
tiranni autoctoni riportati alla ragione; io noto che, in linea generale, fanno
bella combutta con i nuovi e che comunque, dai precedenti ai nuovi, si è
stabilito a discapito dei popoli, un circuito di buoni affari e di complicità.
Mi parlano di civiltà, io parlo di proletariato e di mistificazione.
Per conto mio, faccio l'apologia sistematica delle civiltà paraeuropee.
Ogni giorno che passa, ogni diniego di giustizia, ogni manganellata della
polizia, ogni richiesta operaia affogata nel sangue, ogni scandalo insabbiato,
ogni spedizione punitiva, ogni cellulare delle forze speciali di sicurezza,
ogni poliziotto, ogni agente della milizia ci fa sentire il valore delle nostre
società tradizionali.
Erano delle società comunitarie, mai di tutti per il bene di pochi.
Erano delle società non solo ante-capitaliste come si sostiene, ma
anche anti-capitaliste.
Sono sempre state delle società democratiche, delle società cooperative e
fraterne.
Faccio l'apologia sistematica delle società distrutte dall'imperialismo.
Erano società di fatto senza pretesa ideologica alcuna. Non erano, malgrado
i loro difetti, né detestabili né condannabili. Si accontentavano di essere.
Per esse, non aveva senso né la parola fallimento né la parola disavventura.
Promettevano in modo integrale la speranza. [...]
Vado oltre e sostengo senza mistero che attualmente la barbarie dell'Europa
occidentale, incredibilmente grande, viene, in verità, sorpassata di gran lunga
da una sola: l'americana.
E qui non sto parlando di Hitler né del guardia-ciurma, né
dell'avventuriero, ma del «brav'uomo» della casa di fronte; non delle S.S., né
del gangster, ma dell'onesto borghese. Il candore di Léon Bloy si indignava
tempo addietro che degli imbroglioni, degli spergiuri, dei falsari, dei ladri,
dei prosseneti fossero incaricati di portare nelle Indie l'esempio di virtù
cristiana. Nel progresso di oggi, è proprio il detentore delle «virtù cristiane»
che — riuscendoci perfettamente — ha l'onore di amministrare oltremare secondo
i metodi dei falsari e dei torturatori.
Segno che la crudeltà, la menzogna, la bassezza, la corruzione, hanno
meravigliosamente invaso l'anima della borghesia europea.
Ripeto che non sto parlando né di Hitler, né delle S.S., né dei pogrom, né
dell'esecuzione sommaria, ma di quella reazione di sorpresa, di quel riflesso
ammesso, di quel cinismo tollerato, e se abbiamo bisogno di testimonianze, di
quella scena di isteria antropofagica alla quale ho potuto assistere
all'Assemblea nazionale Francese [...]
Or dunque, compagno, ti saranno nemici — in modo serio, lucido, e
conseguente — non tanto governatori sadici e prefetti torturatori, non solo
coloni flagellanti e banchieri ingordi, non solo truffatori politici
lecca-assegni e magistrati agli ordini, ma allo stesso modo, con la stessa
funzione, giornalisti fielosi, accademici gozzuti pieni di dollari e di
stupidaggini, etnologi metafisicizzanti dogonnati, teologi strambi e belgi,
intellettuali ciarloni usciti ancora puzzolenti dalla coscia di Nietzsche o
paracadutati calender-figli-del-Re (2) da non si sa quale
Pleiade, i paternalisti, gli abbracciatori, i corruttori, i distributori di
pacche sulla spalla, i patiti di esotismo, i separatori, i sociologi agrari,
gli insonnicchiatori, i mistificatori, i diffamatori, i matagraboliseurs (3)
e in generale, tutti coloro che avendo un ruolo nella sordida divisione del
lavoro per la difesa della società occidentale e borghese, tentano in vari modi
e con l'uso dell'infamia di disgregare le forze del Progresso, — per poi negare
la possibilità del Progresso stesso — tutti sostegni del capitalismo, tutti
sostenitori dichiarati o vergognosi del colonialismo saccheggiatore, tutti
responsabili, tutti odiosi, tutti negrieri, tutti però, innestatoli
dell'aggressività rivoluzionaria.
Spazziamo via tutti gli oscurantisti, tutti gli inventori di sotterfugi,
tutti i ciarlatani mistificatori, tutti i giostrai di parole. E non cerchiamo
di sapere se quei signori sono personalmente in buona o malafede, se hanno
buone o cattive intenzioni, se sono personalmente, intendo nella loro coscienza
intima, di Pietro o Paolo, colonialisti o no, l'essenziale è che la loro buona
fede soggettiva rimane scollegata completamente con la portata oggettiva e
sociale del cattivo lavoro che esercitano come cani da guardia del
colonialismo.
Note
(1) Coloro che invischiano con le loro
dicerie velenose.
(2) Personaggi de Le Mille e una
notte.
(3) Coloro che ruminano pensieri di continuo
nel cervello.
da qui
QUI il documentario Selvaggi - La storia degli zoo umani, di Bruno Victor-Pujebet e Pascal Blanchard
Oltre 35mila persone esibite allo zoo a cavallo tra il XIX e il XX secolo davanti a circa un miliardo e mezzo di occidentali incuriositi, costrette a farsi passare per dei cannibali e offrire argomenti per giustificare la colonizzazione: questa è la storia degli zoo umani, durata più di un secolo.
Armando Gnisci ricorda Aimé Césaire
Che cosa vuol dire ricordare la
nascita e/o la morte di un personaggio illustre – per noi amanti della
concezione delle differenze? La memoria per la nascita sembra quasi gioiosa e
cerca in tutti i modi di prendere l’intero futuro vissuto del personaggio, proprio fino ai paraggi
della morte, “l’ultima linea delle cose” come scrive Orazio. La memoria della
morte è più grigia e tombale perché è costretta a considerare la vita finita e non guarda al futuro. E quindi,
per ricordare al meglio la memoria della vita nascente di un poeta, è bene
leggere o rileggere i suoi ultimi testi per risalire – a “contro pelo” come diceva Walter Benjamin – alla
nascita e al suo mondo nuovo, per parlare con il mondo-tutto (Glissant) e con
noi. Césaire è morto nella primavera del 2008. Nel 2004 fu intervistato in una
lunga conversazione da Françoise Vergès; il dialogo venne pubblicato come libro
nel 2005 (in italiano nel 2006, per l’editore Città aperta). Il titolo di
questa ultima testimonianza sintetica del poeta-persona Césaire è: «Nègre je suis, nègre je resterai» (la traduzione in italiano è superflua, il francese
è cugino dell’italiano e a volta si lascia leggere con le stesse parole, solo un po’ ritoccate e
differenti). Questo titolo rappresenta un testamento perfetto perché riunisce
la nascita e l’addio di una vita. Proviamo a dire che cosa questa cosa
significa per un poeta come Césaire che la tramanda a noi per farci capire la
“negritudine”: io nacqui negro e negro resterò fino alla fine della mia vita; la mia è stata una vita vissuta
in nome e in forza proprio della “Negritudine”. Questa parola fa riferimento al
movimento creato da tre giovani poeti negri delle Americhe e dell’Africa, a
Parigi, dove erano andati a studiare: Aimé Césaire martinicano (che propose il
tema e il nome della “Negritudine”), Léopold Sédar Senghor (senegalese – che
sarà dopo la decolonizzazione dalla Francia il primo presidente del Senegal) e
Louis Gontran Damas, della Guyane francese, nel continente americano del Sud,
poeta-persona multimeticcio. Essere negro significa nel 1913, nel 1956, nel
2004 essere sempre e tuttora negro. Cosa c’entra il 1956? Césaire mette in una sua opera
teatrale, «Et le chiens se taisaient» [E i cani si ammutoliscono], quattro punti
indimenticabili, anche per noi europei:
«Il mio cognome: offeso
Il mio nome: umiliato
Il mio statuto: ribelle
La mia razza: caduta».
E quindi, tutto in me va
riscattato e mutato, e se non lo faccio con i miei fratelli chi mai lo farà per
noi?
Césaire fu anche un politico, etico e ribelle: eletto
deputato alla Costituente francese nel 1945, nel 1946 fu il relatore della
legge del 19 marzo che trasformava le colonie francesi della Guadalupa e la
Martinica, nelle Antille, la Guyana nel continente americano di fronte alle Antille,
fra il Suriname e il Brasile, e la Riunione – nell’Oceano Indiano – in
Dipartimenti d’Oltremare della Repubblica francese. Nel 1950 pubblicò il
famosissimo e imperdibile «Discorso sul colonialismo» (è tradotto in italiano
dall’editore ombre corte nel 2010). Un libro piccolo, che dobbiamo leggere
tutti: tutti chi? Tutti quelli che si sentono come negri in Europa. Insieme alle sue opere, Césaire,
“l’Amato”, lasciò al mondo due grandi allievi martinicani, Frantz Fanon e
Edouard Glissant. Il suo capolavoro poetico è del 1939, quando Césaire tornò a
vivere alla Martinica: «Diario del ritorno al Paese natale». Un altro titolo profondo e
semplice, che illumina chi è tornato in patria per operare lì e chi è rimasto
altrove. La poesia grande illumina tutti, e da diversi punti di vista. Anche di
quelli che non hanno fatto il viaggio, né di andata né di ritorno e non sanno
che cosa si sono persi.
Che cos’è la
Negritudine - Aimé Césaire
Spero di non
ferire nessuno confessando di non amare, almeno non sempre, il termine
“Negritudine”, anche se sono stato io, con la complicità di qualche altra
persona, ad aver contribuito principalmente alla sua invenzione e al suo
lancio. Ma per quanto mi sia sforzato, e continui a sforzarmi, di non farne
un’icona, vedervi tutti qui riuniti, provenienti da diversi paesi così diversi,
mi dimostra con evidenza che questa parola corrisponde a una realtà evidente e,
in ogni caso, a un bisogno che dobbiamo considerare profondo.
Di quale
realtà si tratta? Una realtà etnica, mi si dirà. Certo. Non a caso, il termine
“ethnicity” è stato chiamato in causa per definire il tema della nostra
conferenza. Ora però non dobbiamo consentire a questa parola di fuorviarci.
Infatti, la Negritudine non è una categoria essenzialmente di ordine biologico.
Essa comprende una gamma di significati ben più ampi di semplici e immediati
elementi biologici, facendo riferimento evidentemente a qualche cosa di più
profondo. In particolare a una somma di esperienze storicamente vissute, che
sono giunte a definire e a caratterizzare il destino di una forma di vita umana:
la Negritudine è una delle forme storiche che danno agli uomini una particolare
condizione di vita.
In effetti
basta riflettere un attimo su quale sia il comune denominatore che ha portato a
incontrarsi, qui a Miami, i partecipanti di questa conferenza per comprendere
che non è necessariamente il colore della pelle ad unirli; ma piuttosto il
fatto che fanno parte di gruppi umani vittime delle peggiori violenze
conosciute nella storia, di gruppi che sono stati e sono ancora oggi rigettati
ai margini e oggetto di diverse forme d’oppressione.
Ricordo
ancora la mia meraviglia quando, per la prima volta, ho visto nella vetrina di
una libreria in Quebec un libro il cui titolo lì per lì suscitò in me un grande
sconcerto. Il titolo era: “Nous autres nègres blancs d’Amérique”. Chiaramente,
non ho potuto non sorridere dentro di me di fornte a tale esagerazione, ma
comunque mi sono anche detto: “Ebbene, questo autore, anche se esagera, ha in
ogni caso compreso il senso della Negritudine”.
Sì, certo,
noi apparteniamo a una comunità, ma a una comunità di tipo assai particolare,
riconoscibile, oggi come ieri, da ciò che la produce e ne definisce le
modalità: si tratta di una comunità costituita a partire dall’oppressione
subita, dall’esclusione imposta, dalla discriminazione più dura. E anche, non
c’è dubbio, da qualcosa che le fa onore, ovvero dalla resistenza continua,
dalla lotta irriducibile per la libertà e da una inesauribile speranza. Per
essere sinceri, era questo tutto ciò che rappresentava ai nostri occhi di giovani
studenti (all’epoca Léopold Senghor, Léo Damas, io stesso, più tardi Alioune
Diop e gli altri compagni di Présence Africaine), e che ancora oggi, noi
sopravvissuti di quel gruppo, pensiamo debba significare questa strana parola,
ora vituperata, ora incensata, in ogni caso difficile da usare e da gestire:
erano e sono questi i significati veicolati dalla parola Negritudine.
La
Negritudine, ai miei occhi, non è una filosofia.
La
Negritudine non è una metafisica. La Negritudine non è una pretenziosa concezione
dell’universo. È un modo di vivere la storia nella storia: la storia di una
comunità la cui esperienza si presenta, a dire il vero, estremamente singolare,
definita dalle deportazioni, dal trasferimento forzato di uomini da un
continente a un altro, dai ricordi di credenze lontane, dai frammenti di
culture assassinate che le appartengono.
Come non
pensare che tutto questo, la sua coerenza, non costituisca un patrimonio?
Occorre dell’altro per fondare un’identità? I cromosomi m’importano poco. Ma io
credo agli archetipi.
Io credo al
valore di tutto ciò che è custodito nel profondo della memoria collettiva dei
nostri popoli e anche dentro l’inconscio collettivo.
Io non credo
che si arrivi al mondo con il cervello vuoto, come ci si arriva con le mani
vuote.
Io credo
alla virtù plasmatrice delle esperienze secolari accumulate e del vissuto
veicolato dalle culture.
Per quanto
singolare possa essere, e sia detto di sfuggita, non mi ha mai convinto
l’argomento secondo cui l’unico contributo dato da milioni di uomini africani
portati in America dai negrieri sia stato quello misurabile in termini di forza
animale –una forma animale e non necessariamente superiore a quella del cavallo
o del bue- e che essi non abbiano fecondato le civiltà che stavano allora
nascendo con un certo numero di valori essenziali, di cui questa nuove
formazioni politiche e sociali erano le portatrici in potenza.
Questo
significa Negritudine, alla base, può essere definita come presa di coscienza
della differenza, come memoria, come fedeltà e come solidarietà. Ma la
Negritudine non è soltanto passiva.
Non
appartiene unicamente all’ordine del patire e del subire. Non è un modo di
vedere le cose all’insegna del patetico e dell’afflizione. La Negritudine
dipende da un atteggiamento attivo e offensivo dello spirito. È un soprassalto,
un soprassalto di dignità. È un rifiuto, voglio dire rifiuto dell’oppressione.
È una battaglia, cioè una battaglia contro la disuguaglianza.
È una
rivolta. Ma, voi mi chiederete, rivolta contro che cosa? Sono ben consapevole
di partecipare a un congresso a carattere culturale, e che è in questa città,
Miami, in cui pronuncio queste parole. Credo si possa dire, in senso generale,
che storicamente la Negritudine è stata innanzitutto una rivolta contro il
sistema mondiale della cultura formatosi durante questi ultimi secoli, un
sistema caratterizzato da un certo numero di pregiudizi, di presupposti, che a
loro volta vengono a costituire una gerarchia schiacciante ed estremamente
rigida. In altre parole, la Negritudine è una rivolta contro quello che io
definirei il riduzionismo europeo.
Voglio
parlare di questo sistema di pensiero. O meglio, della istintiva tendenza di
una civiltà eminente e prestigiosa ad abusare del suo stesso privilegio per
farsi del vuoto intorno, interpretando la nozioni di universale, casa a Léopold
Sédar Senghor, esclusivamente in rapporto alle dimensioni che le appartengono,
ovvero a pensare l’universale a partire dei suoi soli postulati e attraverso le
categorie che essa riconosce come proprie. Abbiamo visto, abbiamo visto fin
troppo, le conseguenze di tutto questo: strappare l’uomo da se stesso,
strappare l’uomo dalle sue radici, strappare l’uomo dall’universo, strappare
l’uomo dall’umano, isolarlo definitivamente in un orgoglio suicida o in una forma
razionale e scientifica della barbarie.
Ma, voi
penserete, una rivolta che non è altro che rivolta potrebbe rivelarsi come
un’altra forma di chiusura, come un’impasse, storicamente parlando. Se
la Negritudine non è caduta in questo errore è perché essa costituisce una
strada che porta necessariamente da un’altra parte. Dov’è che ci ha condotto? A
restituirci a noi stessi. In effetti, dopo tanta frustrazione era il modo per
noi di riappropriarci del nostro passato e, insieme, attraverso la poesia,
attraverso l’immaginario, il romanzo, le opere d’arte, a conquistare dei
barlumi, seppure intermittenti, di un possibile divenire.
“Terremoto
concettuale”, “sisma culturale”, tutte le metafore dell’isolamento divengono a
questo punto possibili. Ma la cosa fondamentale è che questa nozione ci
consentiva, a noi stessi, di cominciare con un’impresa di riabilitazione dei
nostri valori, di approfondimento del nostro passato, ovvero di tornare a
radicarci dentro la nostra stessa storia, dentro una nostra geografia, in una
cultura riconoscibilmente nostra. E di tradurre tutto questo non certo
all’interno di un passatismo arcaicizzante, ma in virtù di una riattivazione
del passato finalizzata al suo superamento.
Letteratura,
mi chiederete?
Speculazione
intellettuale?
Senza alcun
dubbio. Ma né la letteratura né la speculazione intellettuale sono innocenti o
inoffensive.
E di fatto,
quando penso alle conquiste dell’Indipendenza nell’Africa negli anni Sessanta,
quando penso a questo slancio di fede e di speranza capace di sollevare,
all’epoca, un intero continente, non lo nego, penso proprio alla Negritudine.
Perché sono convinto che la Negritudine abbia giocato il suo ruolo, e
probabilmente un ruolo capitale, poiché è stato un ruolo di fermento o di
catalizzazione.
La stessa
riconquista dell’Africa non è stata facile. L’esercizio di questa rinnovata
indipendenza ha comportato molti problemi, si è andati incontro a notevoli
imprevisti e, a volte, ci sono state anche delusioni profonde. Ma solo uno
sguardo distorto da una spaventosa e colpevole ignoranza della storia
dell’umanità, della storia della formazioni delle nazioni nella stessa Europa
in pieno XIX secolo –in Europa certo, ma anche altrove-, potrebbe non vedere e
non comprendere che l’Africa, anche l’Africa, doveva inevitabilmente pagare il
suo tributo al momento del grande mutamento.
Ma
l’essenziale non è questo. L’essenziale è che l’Africa ha voltato la pagina del
colonialismo e, con questo atto, ha contribuito a inaugurare una nuova era per
l’intera umanità.
Per quanto
riguarda il fenomeno americano, esso non appare meno straordinario e
significativo di quello africano. Anche se in questo caso di tratta di
colonialismo interno e di una rivoluzione silenziosa (la rivoluzione silenziosa
è la migliore forma di rivoluzione). In effetti, quando vedo i formidabili
progresso compiuti in questo periodo dai nostri fratelli afro-americani, quando
vedo il grande numero di città statunitensi amministrate da sindaci neri quando
vedo, dovunque, nelle scuole, nelle università, il numero sempre crescente di
giovani e uomini neri, quando vedo questa formidabile avanzata –per impiegare
l’espressione americana: advancement of coulored people -, non
posso non pensare all’opera compiuta da Martin Luther King Jr., uno dei vostri
eroi nazionali, al quale, a giusto titolo, la nazione americana ha consacrato
un giorno di commemorazione.
Ma
all’interno di questa conferenza incentrata sul tema della cultura, devo
aggiungere che penso qui anche ad altro. In particolare alla stupenda leva d’artisti,
ormai lontana, a quel gruppo eletto di scrittori, saggisti, romanzieri, poeti
che ci hanno influenzato, sia me che Sengor, e che hanno costituito, subito
dopo la prima guerra mondiale, il cosiddetto “rinascimento nero”: il Black
Reinassance. Uomini come Langston Hughes, Claude Mackay, Countee Cullen,
Sterling Brown, ai quali si sono poi aggiunti altri come Richard Wright, e mi
fermo qui… Perché occorre saperlo, o meglio, occorre ricordarsi che è qui,
negli Stati Uniti, tra voi, che è nata la Negritudine. La prima Negritudine è
stata la Negritudine americana. Noi abbiamo un debito di riconoscenza verso
questi uomini, che occorre sempre ricordare e rivendicare ad alta voce.
Quale
conclusione trarre da tutto questo discorso, se non che ogni grande ristrutturazione
politica, ogni processo di ridefinizione degli equilibri sociali, ogni
rinnovamento dei costumi è introdotto e preceduto dalla cultura, ovvero che
ogni mutamento significativo è sempre anticipato da un agire preliminare
riguardante la cultura.
Ma, mi si
potrà obiettare, cosa dobbiamo farcene della famosa nozione di “Ethnicity”,
che lei ha particolarmente messo in evidenza illustrando gli argomenti centrali
di questa conferenza e sulla quale, d’altra parte, ci ha invitato a riflettere?
Per quanto
mi riguarda, direi che la sostituirei volentieri con un’altra parola che ne è
più o meno un sinonimo, ma che appare priva delle connotazioni inevitabilmente
sgradevoli, poiché equivoche, a cui rinvia la parola “ethnicity”.
Non direi
dunque “ethnicity”, ma “identity” (identità), un termine che,
secondo me, indica meglio ciò che intende designare: ovvero ciò che è
fondamentale, quello su cui si plasma e si può plasmare tutto il resto, il
nocciolo duro e irriducibile, ciò che conferisce a un uomo, a una cultura, a
una civiltà, la propria forma, il proprio stile e la sua irriducibile
singolarità.
E allora,
eccoci tornati al punto. In effetti, poiché ho parlato di un agire culturale
preliminare, indispensabile a ogni risveglio politico e sociale, direi che
anche questo agire, questa esplosione culturale da cui si genera tutto il
resto, presuppone esso stesso un suo inizio: si dispiega quindi necessariamente
a partire da un momento preliminare che in qualche modo lo prepara e che non è
altro che l’esplosione di un’identità a lungo repressa, perfino negata, ma
finalmente libera; di un’identità che proprio attraverso la sua liberazione si
afferma in vista di un riconoscimento.
Ecco cosa è
stata e cos’è la Negritudine: la ricerca della nostra identità, l’affermazione del
nostro diritto alla differenza, l’imposizione a tutto il mondo del
riconoscimento del nostro diritto e del rispetto della nostra personalità in
quanto comunità.
So bene che
questa nozione di “identità” è oggi contestata o combattuta da parte di coloro che
fingono di vedere nella nostra rivendicazione un’ossessione identitaria, una
sorta di autocompiacimento distruttivo e paralizzante.
Dal mio
punto di vista, chiaramente, non è affatto così.
Io non penso
a un’identità arcaicizzante, avida di se stessa, ma a un’identità desiderante
il mondo, ovvero capace di fare tabula rasa del presente per poter rivalutare
meglio il proprio passato e, ancor di più, preparare il suo futuro. Poiché,
come si fa, in fondo, a misurare il cammino percorso se non si sa da dove si
viene né dove si vuole andare? Pensateci. Noi abbiamo combattuto duramente, io
e Senghor, la deculturazione e l’acculturazione. Ebbene, dico che voltare le
spalle all’identità significa cadere ancora, consegnarsi, senza difese, a
qualcosa che conserva tuttora la sua forza: l’alienazione.
Si può
rinunciare al proprio patrimonio. Si può rinunciare all’eredità, certamente. Ma
abbiamo il diritto di rinunciare alla lotta?
Vedo che di
tanto in tanto diversi soggetti si interrogano sulla Negritudine. Ma, in verità,
il problema oggi non è la Negritudine. Il problema oggi è il razzismo, la
recrudescenza del razzismo del mondo intero, e cioè i focolai di razzismo che
si riaccendono qua e là. Penso, in particolare, alle grandi fiammate di
apartheid che incendiano il Sudafrica. È questo il problema. È di questo che ci
dobbiamo preoccupare.
Dunque, è
forse questo il momento di abbassare la guardia, di gettare le armi?
In realtà,
il presente ci sta mettendo duramente alla prova, poiché ognuno di noi, ognuno
di noi personalmente, si trova di fronte a un’alternativa decisiva: o
sbarazzarsi del passato come se fosse un fardello ingombrante e sgradevole, che
non fa che bloccare la nostra evoluzione, oppure assumerlo in modo virile, per
fare di esso un puno di forza della nostra marcia in avanti.
Bisogna
decidersi. Bisogna scegliere.
È proprio da
scelte simili che nascono conferenze come la presente; come ha detto
recentemente un mio caro amico, il dottor Aliker, a cui voglio rendere qui
omaggio e che ha voluto accompagnarmi qui a Miami, sono scelte come queste a
determinare il senso della nostra conferenza, a restituircene la sua possibile
ragion d’essere.
Per noi,
dunque, la scelta è fatta. Noi siamo tra quelli che si rifiutano di
dimenticare. Noi siamo tra quelli che rifiutano l’amnesia come metodo. Non si
tratta di una forma di integralismo, o di fondamentalismo, e ancora meno di
guardarsi puerilmente l’ombelico. Noi siamo semplicemente dalla parte della
dignità e della fedeltà. Mi sentirei di dire, dunque: far fiorire, non estirpare,
il proprio ceppo.
Mi sembra
certamente positivo che alcuni, ossessionati dalla nobile idea dell’universale,
si rifiutino di accettare qualcosa che può apparire, se non proprio come una
prigione o un ghetto, in ogni caso come una limitazione.
Per quanto
mi riguarda, non ho una simile concezione punitiva e carceraria dell’identità.
L’universale,
certo. Ma è ormai da molto tempo che Hegel ci ha mostrato il cammino da
seguire: l’universale, chiaramente, non in senso negativo, ma piuttosto come
approfondimento della nostra singolarità.
Mantenere la
propria traccia sull’identità –credetemi, ne sono certo- non significa girare
le spalle al mondo, staccarsi dal mondo, né tanto meno guardare con diffidenza
l’avvenire o sprofondare in una sorta di solipsismo comunitarista o nel
risentimento.
Il nostro
impegno ha senso soltanto se si propone come un riradicamento, certo, ma anche
come un’espansione, come un superamento, come la conquista di una nuova e più
larga fraternità.
da quiQUI il documentario Selvaggi - La storia degli zoo umani, di Bruno Victor-Pujebet e Pascal Blanchard
Oltre 35mila persone esibite allo zoo a cavallo tra il XIX e il XX secolo davanti a circa un miliardo e mezzo di occidentali incuriositi, costrette a farsi passare per dei cannibali e offrire argomenti per giustificare la colonizzazione: questa è la storia degli zoo umani, durata più di un secolo.
Nessun commento:
Posta un commento