«Svegliatevi, fermate il massacro. Non parlateci più di
valori occidentali se non sapete difendere i curdi.
Non parlateci più di parità se lasciate ammazzare le libere donne curde.
Non parlateci più di pace se vi girate dall’altra parte davanti alla guerra più ingiusta del secolo.
Non parlateci più di lotta al terrorismo se abbandonate chi la combatte.
Non parlateci più di niente. Di Italia, di Europa, di identità, di dignità della vita, di diritti umani, di giustizia, di aiutiamoli a casa loro, di bambini, di patrie, se non capite che tutto questo è a rischio nella guerra ai curdi e se non avete il coraggio di reagire.
State zitti. Siete inutili. Non vogliamo più sentirvi.
NOI STIAMO CON LE DONNE, GLI UOMINI E I BAMBINI CURDI. SVEGLIATEVI. FERMATE IL MASSACRO».
Non parlateci più di parità se lasciate ammazzare le libere donne curde.
Non parlateci più di pace se vi girate dall’altra parte davanti alla guerra più ingiusta del secolo.
Non parlateci più di lotta al terrorismo se abbandonate chi la combatte.
Non parlateci più di niente. Di Italia, di Europa, di identità, di dignità della vita, di diritti umani, di giustizia, di aiutiamoli a casa loro, di bambini, di patrie, se non capite che tutto questo è a rischio nella guerra ai curdi e se non avete il coraggio di reagire.
State zitti. Siete inutili. Non vogliamo più sentirvi.
NOI STIAMO CON LE DONNE, GLI UOMINI E I BAMBINI CURDI. SVEGLIATEVI. FERMATE IL MASSACRO».
Appello firmato
e lanciato da cento donne del mondo dell’informazione, dell’accademia, della
cultura, dello spettacolo, insieme al network “Le Contemporanee”, per difendere
il popolo curdo e condannare la guerra in Rojava.
Nel mese di
maggio, il fumetto Kobane Calling.
Oggi, tra i più importanti e noti di
Zerocalcare (pseudonimo di Michele Rech), è tornato in libreria. Rispetto alla
precedente edizione del 2016, oltre a una nuova copertina e una nuova
introduzione dell’autore, il libro presenta quaranta pagine in più, sguardi geografici
aggiornati e la storia su Lorenzo “Orso” Orsetti pubblicata originariamente su
«Internazionale» nel luglio del 2019. Il racconto prende avvio dalla vita di
quartiere di Rebibbia, punto di partenza di tutte le narrazioni dell’autore e
si sviluppa nella zona di confine turco-siriano, denominata Rojava, per
documentare la resistenza curda. Il risultato è un racconto ironico che si
articola tra cronaca stringente, caricature, airstrike e i famosi plumcake
rigorosamente inzuppati nel latte, di cui Zerocalcare si nutre da anni. Dalla
storia, narrata in prima persona, emerge un chiaro sguardo empatico dell’autore
verso il popolo curdo, in particolare verso la forza e la dignità che
dimostrano le donne curde nel resistere con tenacia alla violenza maschilista e
oscurantista dei militanti dell’Isis. Grazie all’utilizzo di grafici e mappe,
Zerocalcare smaschera le responsabilità del governo turco per la connivenza coi
militanti dell’Isis, realizzando uno corposo dossier di notizie e informazioni
spesso sottaciute dai mezzi d’informazione.
La storia della resistenza dei
curdi dura da molti anni ed è utile, se pur a grandi linee, ripercorrerla; per
farlo traggo informazioni aggiornate dal sito d’informazione, dedicato agli
esteri, InsideOver. I curdi sono la quarta etnia più grande
del Medio Oriente, dopo arabi, persiani e turchi. La loro comunità conta oggi
tra i 30 e i 45 milioni di persone e la gran parte di loro vive in cinque
Paesi: l’Iraq, la Siria, la Turchia, l’Iran e l’Armenia, anche se, di fatto,
sono da considerare un gruppo etnico iranico, originario dell’Asia occidentale. Alla fine della Prima guerra mondiale e alla sconfitta
dell’impero Ottomano, gli alleati occidentali (vittoriosi) avevano previsto
l’esistenza di uno stato curdo nel trattato di Sèvres del 1920, promessa che si
infranse nel 1923, quando il trattato di Losanna fissò i confini della Turchia
moderna, lasciando ai curdi soltanto lo status di minoranza. A governare i
territori sotto il controllo curdo è il Partito dell’Unione democratica, la cui
sigla è Pyd, formazione “socialista-liberista”, molto simile a quella
immaginata da Abdullah Öcalan, storico leader del partito del Lavoratori “Pkk”.
Da decenni, alla base dello scontro tra curdi e Turchia, c’è proprio questo: lo
stretto legame tra Pyd e Pkk, gruppo che da anni combatte il governo turco per
ottenere l’indipendenza, attraverso una lotta armata. Nonostante la Turchia
abbia approvato la Convenzione dell’Onu contro la tortura e quella del
Consiglio d’Europa, secondo Amnesty International, alcune forme di sevizie
corporali sono ancora diffuse verso gli oppositori politici e gli esponenti di
questa comunità. Negli anni
della guerra, è diventata celebre una formazione militare tutta femminile,
l’Unità di protezione delle donne (Ypj) che si è distinta per aver lottato
contro i miliziani dello Stato islamico, per la volontà di smascherare i metodi
oppressivi utilizzati contro le donne e per creare una società libera, organizzata secondo i principi del
paradigma ecologico-democratico. La situazione si è complicata quando l’amministrazione
americana si è alleata con la comunità curda-siriana considerata dalla Turchia
(alleata degli Stati Uniti e membro Nato) come un gruppo di terroristi.
Washington ha cercato, nel tempo, di mantenersi neutrale e in equilibrio con
Ankara e con i curdi. Nel 2015 l’amministrazione Obama aveva favorito la
creazione delle Forze democratiche siriane (Sdf), con finalità anti-Stato
islamico, ma nell’agosto del 2019 Trump firma un accordo con il governo turco
per stabilizzare il confine tra Rojava e la Turchia, creando una safe zone, una zona di sicurezza. In realtà, per Ankara, la vera
questione è sempre stata la presenza dell’etnia curda siriana di là dal suo
confine meridionale. Nel 2016, l’esercito turco entra con i carri armati nel
nord della Siria e prende il controllo di alcuni territori dello Stato
islamico. Nel 2018, più a ovest, occupa la città di Afrin mentre nell’ottobre
del 2019 attacca le città di Serikane, Derik e Qamishlo. Attualmente gli attacchi continuano anche sotto
l’emergenza Covid-19.
Ma torniamo al fatidico ottobre 2019 e all’escalation
militare turca partita dopo che il 7 ottobre il Presidente degli Stati Uniti,
Donald Trump, annuncia che è tempo di iniziare a ritirare le truppe americane
dalla Siria nord-orientale, da diversi anni “alleate” con le forze guidate dai
curdi nella lotta allo Stato Islamico. Una decisione letta da più parti come un
tradimento nei confronti dei curdi e utilizzata dal presidente turco Recep Erdoğan per lanciare l’operazione Operation Peace Spring (Operazione fonte di Pace), di fatto un massiccio attacco su
vaste aree civili del popolo curdo nel Rojava.
È a questo punto che inizia il racconto sul quale intendo
soffermarmi.
Il 5 ottobre 2019 Hevrin Khalaf, segretaria generale del
Partito siriano del Futuro, Future Syria Party, e attivista dei diritti delle
donne, aveva parlato in pubblico ad Ankara, opponendosi all’intenzione della
Turchia di occupare le terre dei curdi e rivendicando il ruolo svolto dalle
forze democratiche siriane nella liberazione del Nord Est della Siria dai
gruppi terroristici. Una netta posizione anti-Erdoğan: «Noi
respingiamo le minacce turche, ostacolano i nostri sforzi per trovare una
soluzione alla crisi siriana. Durante il periodo di dominio dell’Isis alle
frontiere, la Turchia non ha visto questo come un pericolo per la sua gente, ma
ora che c’è un’istituzione democratica nel Nord Est della Siria, loro ci
minacciano con l’occupazione». L’istituzione
democratica di cui parla Hevrin Khalaf è il progetto di Confederalismo Democratico del Rojava, una struttura politica
e sociale che il popolo curdo sta attuando stravolgendo il ruolo delle donne
nel Medio Oriente. Ciò viene considerato inaccettabile dall’ortodossia islamica
su cui si poggia anche l’Akp (Adalet ve Kalkınma Partisi, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo) di Erdoğan. Le donne del Rojava hanno infatti combattuto per la parità di genere
cercando di smantellare quel patriarcato alimentato dal fanatismo religioso.
Inoltre la creazione delle Ypj (Unità di Protezione delle Donne, in curdo Yekîneyên
Parastina Jin) è stata fondamentale per le
vittorie contro le milizie dell’Isis. I combattenti del Califfato si sono
trovati a dover affrontare delle donne in battaglia, preferendo più volte la
fuga per una motivazione religiosa. Secondo il loro credo quando un soldato
viene ucciso da un uomo, infatti, ha la possibilità di andare nel paradiso dei
martiri, con 72 vergini ad attenderlo; se invece muore per mano di una donna il
suo destino è segnato: niente paradiso e niente vergini. Da qui il terrore
di ritrovarsi faccia a faccia con una donna armata.
Mercoledì 9 ottobre il territorio dei curdi viene invaso militarmente. In pochi giorni di battaglia arrivano le prime cifre diramate dall’Onu: oltre 130mila sfollati, 400mila persone senza
acqua, ospedali pubblici e privati chiusi a Ras al Ain e a Tel Abyad e più di
300 vittime, compresi i civili. Vengono attaccate delle prigioni favorendo la fuga di uomini affiliati allo Stato Islamico. Alcune
personalità sono più a rischio delle altre, e Hevrin Khalafa sa di essere tra
queste ma è intenzionata ad andare avanti: il 12 ottobre vuole essere presente
a un vertice del suo partito a Qamishli.
Sabato 12 ottobre 2019 Hevrin Khalaf viene uccisa in un
agguato teso nel Nord-Est della Siria. Nel momento in cui viene fermata, l’attivista stava viaggiando
sull’autostrada M4 insieme al suo autista nel tentativo di raggiungere la città
di Qamishli. Qui, un commando di uomini composto di miliziani li fa scendere
con la forza dall’auto. Le sequenze
raccapriccianti dell’omicidio sono state filmate con i telefoni cellulari dagli
esecutori che nel video si sentono ridere, scherzare e gridare insulti. Mentre le due vittime muoiono, una voce in sottofondo, nitida, pronuncia: «Così muoiono i maiali». La responsabilità delle uccisioni è stata attribuita al Free Syrian Army, un gruppo ribelle siriano, attivamente sostenuto
dalla Turchia.
Appartenente a una famiglia impegnata nel movimento di
liberazione curdo, laureata in ingegneria civile presso l’università di Aleppo, Hevrin Khalaf era da anni attivista sul
fronte del dialogo fra curdi, cristiani e arabi per accrescere la tolleranza e
l’unità. Dopo l’inizio della guerra in Siria nel 2011, Khalaf lavora per diverse ONG e diventa capo del Consiglio
economico nella città di Qamishli. Nel 2014, in seguito all’annuncio
dell’istituzione dell’amministrazione autonoma curda del Rojava, diventa
vicepresidente della Commissione per l’energia e, quindi, capo della
Commissione economica per le aree controllate dai curdi in Siria. Nel 2018
viene nominata segretario generale del Syrian Future Party (Partito del Futuro
Siriano) e membro del consiglio democratico siriano. In tale veste partecipa ai
negoziati con gli Stati Uniti, la Francia e altre delegazioni ed è
particolarmente apprezzata per le sue abilità diplomatiche. Tra gli obiettivi primari per la transizione democratica della Siria Khalaf ha sempre
sottolineato il principio di laicità dello Stato e l’importanza della risoluzione 2.254 delle Nazioni Unite, che esorta «[…] all’impegno per l’unità, l’indipendenza, l’integrità territoriale
[…] per proteggere i diritti di tutti i Siriani, indipendentemente da etnia o
confessione religiosa […]». Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani è stata la nona persona tra i civili a essere uccisa a sud della città
di Tel Abyad nei primi tre giorni dell’offensiva turca nella Siria
settentrionale. L’uccisione di Hevrin Khalaf, vittima civile e disarmata, in base al diritto internazionale,
costituisce quasi sicuramente un crimine di guerra.
Dietro la morte di Hevrin Khalaf c’è la storia di una Siria dilaniata nel
profondo e il dramma delle donne massacrate dall’Isis, dalla Turchia o dallo
stesso regime siriano. Il più recente rapporto di Syrian Network for Human Rights riporta cifre allarmanti: dal 2011 al 2017 (anno dell’ultimo
rilevamento) sono state uccise in Siria 24.746 donne e, tra queste, 11.402
bambine. Più di 8.000 donne, inoltre, sono scomparse o si trovano imprigionate.
Secondo il rapporto, vengono colpite per lanciare un messaggio di terrore, un
avvertimento per l’intero popolo. Spesso infatti vengono stuprate e uccise
davanti ai mariti e ai figli. Quando poi vengono imprigionate, sono condannate
a mesi di torture fisiche e psicologiche. È per queste donne che Hevrin Khalaf
combatteva ed è per loro che è morta. Il cosiddetto Rinascimento
femminista del Medio Oriente viene
costantemente contrastato con la violenza dal fanatismo religioso, dai regimi
edificati sul persistere di sistemi patriarcali, dai terroristi che considerano
la donna un essere inferiore e allo stesso tempo la temono sul campo di
battaglia. L’azione militare turca non ha fatto altro che corroborare cellule
dormienti, i terroristi sconfitti dai curdi, e ripristinare il periodo di
terrore in cui le donne possono essere violentate e lapidate come se niente
fosse.1 Nei
confronti delle combattenti donne, la violenza sessuale non viene usata solo
per “umiliare” e “mortificare” la singola donna, ma anche per traumatizzare il
nemico e la sua società a livello complessivo. Di norma gli eserciti
riconoscono combattenti maschi come nemici, mentre considerano le combattenti
donne “puttane“. Nel contesto dello Stato turco, la violenza sessualizzata
contro le donne ha una lunga tradizione. Fino a oggi i femminicidi durante il
genocidio degli armeni e quello contro i cristiani siriani nel 1915 (Seyfo)
vengono rifiutati nel mainstream della
Turchia, anche se la fondazione dell’odierno Stato nazionale si basa su di essi.
Le donne curde hanno però una tradizione di resistenza che
le ha portate alle numerose vittorie delle Unità di difesa delle donne (YPJ) in
Rojava-Nord Siria e delle guerrigliere delle YJA Star del Partito dei
lavoratori del Kurdistan (PKK) contro lo Stato Islamico. Insieme alle donne
arabe e cristiano-siriache, hanno liberato migliaia di chilometri quadrati
dall’Isis. Hanno avviato, inoltre, profondi cambiamenti del ruolo della donna
all’interno della società. Accanto al confederalismo democratico guidato dal
movimento di liberazione curdo, è stata costruita una piattaforma
politico-sociale democratica autonoma delle donne, attraverso migliaia di
comuni, consigli, cooperative, accademie e unità di difesa. L’autonomia
economica e l’economia comunitaria fondate sulla solidarietà attraverso la
costituzione di cooperative, garantiscono l’auto-sostentamento attraverso il mutualismo
e la responsabilità condivisa, respingendo la dipendenza dagli Stati e dagli
uomini. La cura per l’acqua, le terre, le foreste, il patrimonio storico e
naturale, sono parti vitali dell’auto-difesa contro lo stato-nazione e la
distruzione ambientale orientata al profitto. I racconti dei media occidentali
ritraggono spesso lotte e azioni delle donne curde in modo “molto esotico”; il
fatto che siano le donne a imbracciare le armi è, del resto, tema di confronto
anche con la critica femminista del militarismo come strumento patriarcale. In
occasione dell’8 marzo 2017 (periodo degli attacchi dello Stato turco al
progetto e al modello di convivenza democratica in atto in Rojava) su Open
Democracy,2 Dilar
Dirik,3 con
l’articolo Feminist pacifism or passive-ism?, problematizza il concetto liberale e astratto di generica
non-violenza che non tiene conto dei sistemi di potere e di violenza
strutturale e che accusa di militarismo le donne combattenti in Kurdistan,
escludendo così a priori i femminismi dalla necessità di ripensare l’autodifesa
e di riprodurla in forme alternative. Dopo una critica al concetto fintamente
emancipatorio di empowerment dentro le
strutture dello status quo, Dilar Dirik pone alle lettrici l’invito a
confrontarsi con una domanda radicale in sfida ai propri privilegi, e segnata
da profondo realismo: «In un’era globale segnata da femminicidio, violenza
sessuale e cultura dello stupro, come possiamo permetterci di non pensare
all’auto-difesa delle donne?». L’articolo guida e invita le lettrici a cercare
attraverso una presa di posizione contestuale una risposta a questa domanda.4 «Con un
sistema internazionale di violenza sessuale e razziale legittimata da
Stati-nazione capitalisti – conclude Dirik – l’appello alla non-violenza è un
lusso riservato a coloro che occupano posizioni privilegiate di relativa
sicurezza, convinte di non poter mai finire in una situazione in cui la
violenza sarà necessaria per sopravvivere».
In un comunicato del 9 ottobre del 2019 la Rete italiana
per il Disarmo segnalava che «Negli ultimi cinque anni l’Italia ha autorizzato forniture militari per 890
milioni di euro e consegnato materiale di armamento per 463 milioni di euro. In particolare nel 2018 sono
state concesse 70 licenze di esportazione definitiva per un controvalore di
oltre 360 milioni di euro. Tra i
materiali autorizzati: armi o sistemi
d’arma di calibro superiore ai 19,7 mm, munizioni, bombe, siluri, arazzi,
missili e accessori oltre ad apparecchiature per la direzione del tiro,
aeromobili e software».5
(*)
ripreso da Ravenna Festival Magazine Edizione 2020, Reclam
Edizioni e Comunicazione
2 OpenDemocracy è un sito web di discussione di politica internazionale e cultura, che offre notizie e articoli d’opinione da parte di
accademici, giornalisti e responsabili delle politiche riguardanti temi di
attualità nel mondo degli affari.
3 Dilar Dirik è nata nel 1991 in Antakya. Ha conseguito una
laurea in Storia e Scienze Politiche con una laurea secondaria in Filosofia e
ha scritto la sua tesi di Master in Studi Internazionali sugli aspetti di
liberazione delle donne nell’ideologia e organizzazione del Partito dei lavoratori del
Kurdistan (PKK) nel 2012. Al momento, sta lavorando al suo dottorato di ricerca
presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Cambridge. La sua tesi
di dottorato cerca di confrontare il sistema dello stato-nazione e il paradigma
di confederalismo democratico dal punto di vista della liberazione delle donne,
con uno sguardo comparativo a diverse linee politiche in tutto il Kurdistan e
monitorando attentamente la rivoluzione Rojava.
4 http://www.iaphitalia.org/pacifismo-femminista-o-passiv-ismo-lautodifesa-femminista-alternativa-del-rojava
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