mercoledì 15 luglio 2020

Ludwig Hohl



Sul guardare e il rabbrividire - Piero Zanini


1. ETIMOLOGIA. Sfogliando quel libro inesauribile che è Note, o della riconciliazione non prematura (1944-54), dello scrittore svizzero di lingua tedesca Ludwig Hohl, per esempio nella sua ultima sezione, la XII, intitolata Immagine (Spirito – Mondo  Riconciliazione – Il reale), alla nota 45 si legge questo: 

Sarebbe bello se il guardare [schauen] e il rabbrividire [erschauern] fossero legati dall’etimologia.

2. Poche pagine prima, Hohl scrive: “È impressionante, quello che noi tutti non vediamo” [nota 25]. E, ancora, qualche nota dopo: “Guardare in realtà è tutto; sapere sempre induce in errore (questo è il sapere che pretende durare; il sapere più alto può durare solo un istante, soltanto l’istante in cui esso sorge è contenuto nel guardare). [...] La nostra sola possibilità è di guardare.” [nota 34]. Per poi aggiungere: “Gli uomini non vogliono vedere – solo ciecamente andare al di là di tutto – quando la legge stessa della vita è la visione.” [nota 46].

2bis. (In una fotografia che ritrae Ludwig Hohl nello scantinato in cui abitava a Ginevra, si vedono dei fili tirati lungo una parete e attraverso la stanza, da un muro all’altro, sopra il tavolo dove lavorava e dove mangiava. Su questi fili lo scrittore era solito appendere con delle mollette decine e decine di foglietti scritti a mano, pagine di giornale, ritagli, fotografie, cartoline... che riflettono bene due dei principi che lo guidavano nel suo lavoro, quello della selezione e quello della connessione).

3. Il guardare, dunque, e il rabbrividire. Ma potremmo anche chiederci: guardare è rabbrividire?

4. Vorrei provare a prendere sul serio e a esplorare, per quanto brevemente e per accenni, questa ipotesi: che tra il guardare e il rabbrividire esista una relazione, e grazie ad essa qualcosa di significativo appaia. Voglio dire: per quanto inatteso e fragile possa presentarsi, è proprio grazie alla possibile parentela etimologica tra questi due termini immaginata e auspicata da Hohl che qualcosa di rilevante emerge. L’etimologia, qui, non è più soltanto quel sapere che ricerca la radice, la forma originaria (intima?), da cui una parola, o un insieme di parole, ha preso forma. No, in questo caso l’etimologia agisce piuttosto come sintomo. Indica una possibile manifestazione. Rileva di quello che Hohl avrebbe chiamato un “incidente significativo” della percezione.

5. SORPRESA. In una conferenza tenuta alcuni anni fa a Edimburgo, e intitolata “The quickening of the unknown” (The Munro Lecture, 2013), l’antropologa Jane I. Guyer prende spunto da questa citazione tratta dallo scrittore e poeta nigeriano Ben Okri per delineare quella che chiama un’epistemologia della sorpresa (in antropologia, ma non solo). Che tipo di conoscenza è questa? Empirica. Nella sorpresa uno spazio si apre, e nello spiraglio qualcosa traspare. Incerto. Sfuocato. Sospeso. Siamo presi alla sprovvista, quindi senza alcuna preparazione, da un’irruzione (un dono?) che ci chiede prima di tutto di accettare – per quanto inusuale e disorientante possa risultare – il palpito di qualcosa “non ancora conosciuto”. (L’esperienza a cui rinvia il termine “quickening” è infatti quella in cui la madre, nel corso della gravidanza, percepisce per la prima volta i movimenti del feto). 

6. La sorpresa, quindi, come il momento in cui “l’ignoto dichiara se stesso”, ci dice la Guyer. Un istante prima che il pensiero, in un certo senso, provi ad assestarlo. Ma prima che questo accada, noi – balbettanti – siamo posti nella condizione di riconoscere in questa dichiarazione una corrispondenza, delle relazioni, per quanto inconsuete. Qualcosa che ci riguarda, perché improvvisamente ci chiede attenzione. Potremmo anche dire: ci riguarda proprio perché un’attenzione prende corpo. Il nostro. E tra il guardare e il rabbrividire un legame emerge.

7. CRONACA. Nel suo L’imitatore di voci (Adelphi), in un capitoletto intitolato Bella vista, Thomas Bernhard rende conto – obiettivamente – di questo fatto:

Sul Grossglockner, dopo un’ascensione di parecchie ore, due professori amici tra loro dell’Università di Göttingen, che erano alloggiati a Heiligenblut, avevano raggiunto lo spiazzo antistante il cannocchiale installato sopra il ghiacciaio. Per quanto fossero scettici, non appena ebbero messo piede nel punto in cui era installato il cannocchiale, non avevano logicamente potuto resistere alla bellezza senza pari di quelle montagne, come del resto si erano detti più volte tra loro, e ciascuno dei due aveva insistito perché l’altro guardasse per primo dal cannocchiale in modo da risparmiarsi l’accusa dell’altro di essersi precipitato sul cannocchiale. Alla fine i due erano riusciti a mettersi d’accordo, e il più anziano, il più colto e logicamente anche il più gentile dei due era stato il primo a guardare dal cannocchiale rimanendo soggiogato da quello che aveva visto. Quando però era toccato al suo collega avvicinarsi al cannocchiale, costui, gettato appena uno sguardo attraverso il cannocchiale, aveva lanciato un urlo lacerante ed era stramazzato morto al suolo. Logicamente l’amico superstite dell’uomo perito in maniera così singolare si domanda ancora oggi che cosa effettivamente abbia visto il suo collega nel cannocchiale, non potendo certo trattarsi della stessa cosa.


8. Guardare. Rabbrividire. Cosa accade su quello spiazzo sovrastante il ghiacciaio? Che relazione si instaura tra noi e il mondo? Per quanto scettici, per i due amici professori tutto sembra iniziare sul piano estetico, della contemplazione: come resistere di fronte alla riconosciuta e iconica “bellezza senza pari di quelle montagne”? Una volta accordatisi tra loro, ognuno vede – “logicamente” – cose diverse, certo. A tal punto diverse. (Seppure, in apparenza, a partire da uno stesso punto di vista). Poi, però, le cose cambiano. La distanza che separava uno di loro dall’oggetto del guardare, scompare. Quindi, di cosa effettivamente si tratta, qui?

9. Proviamo a fare un passo a lato. Proviamo a spostare per un momento la nostra attenzione dall’oggetto, dalla forma – la bella vista, il panorama – all’azione, al processo – ossia all’atto stesso del guardare. Il punto allora diventa un altro: non più tanto quello di sapere che cosa si è visto, ma piuttosto di chiedersi cosa implica questo guardare. In altre parole: cosa, letteralmente, comprende il guardare.

10. Guardare. Rabbrividire. Proviamo a riformulare la questione in questa forma: che cosa ci “prende”, bruscamente, quando siamo parte del paesaggio? Che cosa trapela, là dove siamo, tramite questa “presa”? Perché improvvisamente quel mondo – quella bella vista – non è più davanti a noi, ossia altro da noi, ma si sostanzia con noi. Interroga la nostra stessa esistenza, il nostro essere nel mondo, individuale e collettivo. (Per analogia, la morte, in Bernhard, è “l’ambiente” della vita, non la sua fine). Il corpo ne fa esperienza.

10bis. (Sul Brunnenkogel, dopo un’ascensione di pochi minuti, alcuni turisti tra loro sconosciuti, che erano alloggiati in Pitztal, avevano raggiunto la terrazza panoramica sopra il ghiacciaio. Mentre – “soggiogati” – ammiravano la bellezza senza pari di quelle montagne, poche decine di metri più in basso un piccolo gruppo di operai srotolava e stendeva con grande cura sul pendio dei lunghi veli bianchi a coprire parte del ghiacciaio. Sulla scheda tecnica allegata si legge: Poliestere e polipropilene, bianco puro. Disponibile in rotoli di 4.85m di larghezza e 55.00m di lunghezza. Spessore di 3.8mm. Superficie coperta per rotolo: 266.75m2. Descrizione: tessuto non tessuto composito a due strati assemblati. Resiste agli UV, agli choc termici. Attutisce gli effetti degli UV. Riduce lo scioglimento dei ghiacciai, protegge le zone di neve formando un ammortizzatore termico tra l'atmosfera e gli strati sottostanti. Il prodotto non contiene sostanze nocive. Riciclabile per incenerimento.)

11. La vertigine qui è in questo paesaggio di morbide pieghe in mezzo al “grande spettacolo della montagna”. Guardare. Rabbrividire. Viene da chiedersi, come Max Frisch: il piede sulla terra, lo posiamo ancora allo stesso modo? Come se il terreno per tutto ciò, per noi, fosse certo una volta per tutte.

12. TATTO. Paesaggio: là dove un’impressione ha luogo. Per contatto. Tra noi e il mondo. Potremmo dire, anche, quella “soglia dell’essere” (Bachelard) in grado di porci in una condizione particolare per pensare il significato del nostro essere nel mondo. Andrea Zanzotto ne parlava – nel Ritratto che ne hanno fatto C. Mazzacurati e M. Paolini (Edizioni dell’immagine) – precisamente nei termini di “una grande offerta, un immenso donativo”, ampio quanto il nostro stesso orizzonte e necessario “come il respiro stesso della presenza della psiche, che imploderebbe in sé stessa se non avesse questo riscontro”. Qualcosa di vivo e di mutevole, che ci “punge e trapunge e di cui noi siamo una specie di spoletta, che si aggira in mezzo, che cuce... oppure qualcosa che taglia”. Lascia il segno, il paesaggio, si imprime dentro di noi. E riceve i nostri segni, le nostre impronte. Ed è in questo andare e venire che si delinea la complessa trama della nostra esistenza.

13. Il guardare, quindi, e/è il rabbrividire. Toccare il mondo, ma anche essere toccati dal mondo. Se ci pensiamo, non abbiamo un organo specifico per il tatto, come è il caso per gli altri sensi, perché il tatto ci concerne in quanto totalità. Se le cose mi toccano è perché, dal principio, “esse formano una stessa carne con me”, scrive Mikel Dufrenne (L’œil et l’oreille). Poi aggiunge: “essere al mondo, è essere a contatto, cosa tra le cose, che allo stesso tempo tocca ed è toccata. Il tatto, è l’apice della prossimità; e allo stesso tempo ho anche bisogno della contiguità del mondo, perché manifesta al meglio questa reversibilità per la quale la mia carne è innestata sulla carne del mondo: non tocco le cose che per quanto esse mi toccano, e spesso esse prendono l’iniziativa; [...] Le cose non sono allora tangibili che tanto quanto lo sono io: noi siamo della stessa specie. È da questo fondo di co-naturalità che emergo.” 

14. Non tocco le cose che per quanto esse mi toccano. E spesso esse prendono l’iniziativa. Essere toccati allora vuol dire essere coinvolti (travolti?) da qualcosa che comprende la totalità della nostra esistenza. Non si tratta, quindi, di essere toccati da qualche parte. Siamo toccati, punto. Ma anche, siamo toccati perché con il mondo formiamo un “tutto”. E il paesaggio permette di pensarci come parte di questo tutto. Di farcelo “intuire”. Guardare. Rabbrividire. 

14bis. (Una sequenza da un film di Claudio Pazienza, Scènes de chasse au sanglier: una mano si muove a tentoni davanti ai nostri occhi. Toccare. La corteccia di un albero. Il volto di un bambino. Le tende di una finestra. Il padre, morto, sul suo letto. Le mani di una vicina. La porta di casa. Il piede scava nella terra... Una voce che dice: “Tocca ciò che le immagini non ti dicono più”.) 

15. È in questa prossimità e fragilità assoluta che è il paesaggio, come relazione tattile tra noi e il mondo, che sta la nostra possibilità di essere umani. È qui in fondo che l’anomalia da cui siamo partiti può – come si dice nel linguaggio musicale – “risolversi”, e il “guardare” può raggiungere il “rabbrividire” se non proprio sul piano etimologico su quello ben più importante di un’etica concepita, direbbe Levinas, come “evento immediato della sensibilità.”

16. REALE. Scrive ancora Hohl, in un altro dei suoi libri (Tous les hommes presque toujours s’imaginent, Les Éditions de l’Aire): 

Quando un uomo, senza precipitazione, perviene a riconciliarsi, senza precipitazione: voglio dire gli occhi completamente aperti, in piena conoscenza della nostra condizione e della terrificante realtà dei fatti [...], allora vede il reale. Quando le periferie fanno irruzione, è allora che l’uomo vive veramente il reale.







Riflessioni sulla poesia - Fabio Pusterla

Parecchi anni fa, un amico molto misterioso mi ha chiesto se io sarei stato in grado di leggere qualche pagina in tedesco. Gli ho risposto che, con un po' di fatica, potevo provarci. Il giorno dopo, mi ha regalato un libro, che secondo lui mi sarebbe stato utile, e di cui mi invitava a leggere soprattutto un frammento. Anzi, più che un invito o una segnalazione, la sua sembrava una preghiera. Il libro era quello di Ludwig Hohl, Dass fast alles anders ist (pubblicato a Olten nel 1967); il frammento era invece uno dei più famosi di Hohl (ma questo l'avrei scoperto più tardi): Von den hereinbrachenden Rändern ("Dei margini che irrompono"). La tesi di Hohl è notissima, quasi proverbiale: il centro non è il luogo del rinnovamento creativo, che avviene invece, spesso incompreso o deriso, ai margini; il centro è un luogo abitudinario, inerte, arrogante, pago di sé; nell'ombra dei margini, al contrario, un segno sottile, una tensione impercettibile, un'apparizione…, là, dove secondo l'opinione comune, si possono dar da fare solo gli specialisti "inesperti", quelli usciti dall'orbita (cito nella traduzione di Paola Galimberti apparsa in "Idra", R, 1998). Qui dunque appare, timido, quel che si appresta a modificare la realtà; e qui appunto cerca di abitare chi si sforza di usare il linguaggio in maniera artistica.
La forza di queste parole e di queste immagini è evidente a chiunque, e il mio amico aveva ragione di suggerirmele come punto di riferimento essenziale. Ma la visione che si potrebbe ben dire eroica proposta da Hohl è forse più complessa di quanto appaia; non è indolore; presenta dei rischi.
Ai margini, intanto, si è soli e in balia di venti quasi sconosciuti. L'amico che mi ha regalato il libro di Hohl è morto poco tempo dopo, d'improvviso, senza ragione: come se fosse stato travolto e inghiottito dalla sua stessa, voluta, marginalità. Dopo la sua morte, dietro i libri (tutte edizioni pregiate e rarissime della poesia europea novecentesca) che stipavano il suo studio/cantina, sui muri nudi, sono apparsi i versi poetici che lui scriveva disperatamente e in segreto. Altri frammenti, brevissimi, forse semplici appunti o impreviste illuminazioni, sono affidati a foglietti vaganti, scritti a matita e talvolta illeggibili: li conservo come un lasciapassare che forse mi permetterà di attraversare qualche territorio desolato. Eppure mi domando: è questo, il margine? Questo andare verso il vuoto, questo smarrirsi? Non lo credo; ma certo costituisce uno dei rischi più concreti per chi si allontana in un modo o nell'altro dalle rassicuranti banalità del centro. Uno dei rischi, o forse meglio una delle tentazioni: là in fondo, oltre il margine, dove l'ultima terra frana e scoscende verso qualcosa di ignoto, una voce chiama seducente. Il margine, unico luogo in cui la scrittura può intraprendere una vera ricerca, può allora trasformarsi in una prigione, e obbligare la parola a girare su di sé, in un inutile gioco solitario e insensato, pari al silenzio.
Nel marzo del 1973, su un vagone ferroviario in viaggio da Parigi verso il sud della Francia, un poeta sedeva in silenzio tra due commercianti che venivano dal Nord del paese e che parlavano di cose loro. Il primo, un uomo anziano, che si vantava reduce di ben due guerre, raccontava del suo tentativo di trovare una nuova moglie, dopo la morte della precedente; e di come avesse schiaffeggiato e scacciato sui due piedi una signora cinquantasettenne che l'aveva illuso in tal senso; si dichiarava felice che nella sua città venissero finalmente demoliti i vecchi quartieri. L'altra, una Bretone orrendamente truccata, si diceva molto contenta di abitare al Nord, ricco di moderni supermercati, mentre trovava deserta e noiosa la valle del Rodano. Il poeta, che si chiamava Philippe Jaccottet e che avrebbe poi raccontato la scena in un breve appunto de La semaison (Gallimard, Paris, 1984, pp. 196-97), ascoltava con un misto di divertimento e di angoscia. E concludeva: Quand on vit à l'écart, on oublie comment pensent la plupart des gens. Je ne sais si cela vaut mieux.
Benché il vivre à l'écart di Jaccottet non sia forse un esatto sinonimo dei Rändern di Hohl (non potrebbe invece riecheggiare il classico ideale petrarchesco, De vita solitaria?), il quadretto ferroviario suggerisce un'altra difficoltà, più sottile e forse anche più insidiosa della precedente: quella di perdere il contatto con la realtà, con quella realtà magari orribile, magari ripugnante, in cui vivono comunque gli altri esseri umani, o almeno molti di loro. La contrapposizione fra centro e margini potrebbe infatti essere interpretata in modo troppo netto, troppo compiaciuto; e indurre qualcuno a rifiutare sdegnosamente la rozza incultura del centro, rifugiandosi in un'aristocratica, elegantissima marginalità. Il XX secolo ha conosciuto ampiamente questa tentazione, il richiamo di un nobilissimo isolamento, di una sprezzante separazione tra scrittura e vita. Ma i margini di Hohl, come l'écart di Jaccottet, vogliono essere ben altro, o almeno così tendo a interpretarli, assumendoli come modelli etici: un'attenzione vigile, un tentativo costante di comprendere, e la capacità di far passare, attraverso minuscole fessure, un soffio d'aria. Anche nei supermercati, nelle periferie più tristi e sconsolate. Soprattutto lì, dove margine e centro si sfiorano e talvolta si confondono.
E forse il problema sta proprio nell'uso e nel significato delle parole; nel fatto cioè che l'antitesi chiarissima di Hohl finisce per suggerire un'immagine troppo orizzontale e netta, che noi siamo indotti ad interpretare, banalizzandola, in termini quasi urbanistici: come se fosse ancora possibile opporre un vero, riconoscibile centro alle immense periferie che lo circondano. Ma qual è il centro, oggi? Privi ormai da tempo, ma finalmente coscienti di esserlo, di un fuori, di un oltre, di un altrove, siamo contemporaneamente orfani appunto di quel centro che non esiste più, o che ci sfugge, tanto sul piano geografico quanto su quello culturale. Condannati a vivere in una sterminata periferia di noi stessi, forse dovremo trovare un altro modo di definire lo spazio della ricerca creativa.
Un altro brevissimo aforisma di Hohl recita: La grandezza di un uomo è proporzionale alla grandezza del passato che riesce a risvegliare. Appaiono qui una nuova dimensione e un nuovo compito: la verticalità del tempo e della storia (il passato) che può (deve) essere risvegliata, nella sua grandezza, nella sua profondità. E proprio l'idea del risvegliare, cioè del rendere nuovamente visibile, la cosa che già esisteva ma che si è come sottratta alla nostra attenzione (o sarà piuttosto la nostra disattenzione ad averla espunta dal catasto della realtà), quest'idea mi appare più importante, più utile e più urgente di altre che tradizionalmente sono state associate all'atto poetico. Questo forse è qualcosa che davvero si potrebbe fare, che si potrebbe sperare di fare, dentro le nostre vite periferiche, lungo i corridoi dei supermercati entro cui vaghiamo: aiutare gli occhi a guardare con intensità, suggerire alla coscienza individuale una diversa concentrazione su di sé e sugli altri, riscoprire quel mondo su cui è calato un velo opaco. Lungo questa via sarebbe forse possibile augurarsi di non rimanere del tutto prigionieri della marginalità: il margine non sarebbe più territorio di fuga o di ripiego, ma vero luogo di riscoperta e di condivisione. Se ciascuno vive il proprio esilio in una periferia (psichica, esistenziale, culturale), diverso è il grado di coscienza e di comprensione: lungo gli interminabili scalini che conducono dalla piatta superficie alle zone di profondità, la scrittura poetica può forse tessere qualche filo d'Arianna, qualche corrimano.
Si tratta di una speranza eccessiva, di una responsabilità troppo gravosa per le forze esilissime di cui sembra godere oggi la poesia? Può darsi; eppure è proprio ciò che sembra suggerire l'ultimo autore che vorrei chiamare alla sbarra come testimone e come guida: il poeta portoghese Nuno Júdice, che in una densa pagina di prosa descrive il proprio lavoro di scrittura (il brano, tradotto in francese dallo stesso Júdice, è apparso con il titolo La nuit du poème sulla rivista parigina "Europe" - numero 875, marzo 2002). A notte fonda, sul delta del Danubio, in un luogo deserto dove si accampano le rovine di un'antica città romana, un autobus di turisti stranieri si arresta. Malgrado l'oscurità, che impedisce di vedere e di capire, la guida si attiene scrupolosamente al programma, che prevedeva una visita al sito archeologico: e, nel buio, descrive agli ignari turisti le bellezze del passato di cui essi non possono neppure distinguere i poveri resti. Ma appunto in questo modo sembra risorgere nell'immaginazione l'intera città, sfolgorante di luce: risvegliata dalla parola, squarcia le tenebre. Qualcosa del genere, osserva l'autore, accade al poeta: Il se trouve embarqué par hasard dans ce voyage et fait halte au seuil d'un monde que la nuit couvre de sa noirceur: c'est le désir de voir, derrière cette nuit, ce qui existe, ce qui survit ou non de tout ce qui s'est passé, qui le fait écrire. Dans le poème, comme dans la voix de celui qui raconte ce qu'il ne voit pas, les choses commencent à paraître. Il s'agit toujours d'un miracle. Je suis sûr que ce miracle n'a rien de sacré; au contraire, c'est le seul miracle profane, et il est suffisant pour qu'on puisse regarder le réel avec des yeux qui le transpercent jusqu'à atteindre sa vérité la plus profonde.
Poesia, dunque, come mezzo per intensificare la percezione immaginativa, la coscienza profonda di noi stessi e di ciò che ci circonda e ci ospita, come una terra stratificata e complessa, un'atmosfera fremente di particelle e di luci? Se è così, il margine da cui è partito il ragionamento può trasformarsi in una riva: la riva di un fiume qualsiasi, da cui lo sguardo può cogliere contemporaneamente tre prospettive diverse e complementari. Quella laterale dell'acqua che fluisce, movimento che scandisce il trascorrere del tempo, e suggerisce l'idea di un viaggio che unisce il passato e il futuro, aprendo un varco indefinito. Quella verticale che scende verso il letto del fiume, luogo d'alghe e di movimenti sinuosi, e da lì risale verso l'alto come un raggio di luce riflessa, sprigionato dal guizzo di una coda fuggitiva. E infine quella che si apre proprio di fronte agli occhi, e parla di una diversa riva, speculare e irraggiungibile, vasta come un sogno impreciso o incomprensibile. E in mezzo a queste linee immaginarie, a queste direzioni dell'aria e del paesaggio (non importa che l'aria sia tersa, il paesaggio idilliaco), la parola poetica cerca in sé l'energia per concentrare una simile complessità, per preservarla e trasmetterla altrove, dove muri chiudono la vista, luci abbaglianti accecano: per ricondurla in quel centro muto del dolore contemporaneo che va riconquistato alla parola e alla coscienza.

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