Se
passeggiando per Central Park vi venisse voglia di farvi un
selfie immersi nel verde con i grandi grattacieli nello sfondo, fermatevi un
secondo. Prima di conquistare il vostro pubblico di Instagram attraverso
l’immagine di uno dei luoghi più suggestivi ed evocativi del mondo,
pensate che forse vi trovate sopra quello che fu uno dei primissimi
insediamenti afroamericani degli Stati Uniti.
Si
chiamava Seneca Village e la sua breve vita si compì tra il 1825 e il 1857. Si trovava tra l’82sima e la 89sima strada, nei
pressi di dove oggi c’è il panoramico Summit Rock, a ovest del Great Lawn.
Prima della costruzione del parco ospitò la prima significativa
comunità di proprietari immobiliari afroamericani di Manhattan.
Una storia
totalmente nascosta per i primi 150 anni di esistenza del parco, che è riemersa
solo nel 2001 quando un piccolo gruppo di accademici fondò il Seneca Village Project e fece pressione affinché venisse installata una
piccola targa per ricordare la comunità.
Stando
al censimento del 1855 dello Stato di New York, Seneca Village era abitata da 264
persone e tra i suoi edifici c’erano tre chiese, una scuola e diversi
cimiteri. Una piccola comunità in pieno fermento commerciale, che si stava
piano piano intersecando con le attività degli immigrati ebrei,
irlandesi e tedeschi. In due anni, tuttavia, l’insediamento sarebbe
stato raso al suolo e la sua identità cancellata dalla
creazione di Central Park. In un momento storico in cui da più parti emerge la
necessità di rivedere le coordinate storico-urbanistiche delle grandi città a
partire dal vissuto di chi le ha abitate, la storia di Seneca Village sta
tornando alla ribalta come frammento di un mosaico di storie che meritano una
nuova visibilità.
Il contesto
Seneca
Village si era formata un periodo decisivo nel percorso di emancipazione
dei neri di New York. Nel 1817, lo stato aveva approvato una legge che
liberava le persone schiavizzate nate prima del 1799. La schiavitù venne abolita solo nel 1927, in ritardo rispetto a gran parte
degli stati del Nord. Questo non equivaleva all’avere pieni diritti: i
diritti di voto dei neri era subordinato al possedere proprietà per
almeno 250 dollari (questo non valeva per i bianchi). Di conseguenza, solo 16
uomini di colore a Manhattan avevano il diritto di voto. Non solo, i neri erano
costantemente in pericolo, le loro chiese venivano bruciate e le
attività commerciali boicottate.
Fu in questo
contesto che una coppia dell’Upper Manhattan, John ed Elizabeth
Whitehead, nomen omen, vendette alcuni terreni nell’area dove sorse
Seneca Village. Sappiamo che nel settembre del 1825 un tale Andrew Williams
acquistò tre lotti. Altri sei furono acquistati dalla Zion Church, che costruì
oltre alla chiesa anche un cimitero per neri. Secondo il New York Times, che riprende le parole dello
storico Alexander Manevitz, le attività edilizie della Zion Church rientravano
in un disegno politico che ambiva a stabilizzare le
condizioni sociali ed economiche degli afroamericani.
C’era anche
un’altra chiesa molto interessante, che venne spazzata via con la costruzione
di Central Park. Era cattolica e si chiamava All Angels. Aveva una
particolarità: qui neri e irlandesi (che pian piano avevano
iniziato a far parte del villaggio) pregavano insieme e pare
che venissero anche sepolti fianco a fianco.
L’urgenza di avere un parco
Intorno alla
metà del XIX secolo l’alta borghesia newyorchese decise che la città avesse
bisogno di un parco all’europea. New York stava crescendo
vertiginosamente, la rivale Londra aveva i suoi “polmoni verdi” e
un’urbanistica sviluppata in virtù della stratificazione sociale. Al contrario,
il centro di New York era sempre più frequentato da migliaia di nuovi
immigrati e cantieri polverosi e rumorosi. Secondo la storica Louise
Chipley Slavicek, autrice di New
York City’s Central Park (Chelsea House Publishers, 2009, p.17) la lobby
che portò all’edificazione del parco era formata principalmente da “ricchi
commercianti, banchieri e proprietari terrieri”, che desideravano un “luogo
pubblico che fosse alla moda e sicuro, dove insieme alle proprie famiglie
avrebbero potuto incontrarsi e passeggiare”.
Quando nel
1851 il sindaco Ambrose Kingsland firmò la delibera per l’edificazione di
quello che sarebbe diventato il parco più famoso del mondo, c’era un
problema: a Manhattan non c’era più spazio disponibile. L’unico
verde rimasto era quello dei cimiteri, presi letteralmente d’assalto nei fine
settimana per i picnic.
Così si
decise di abbattere l’insediamento di Seneca Village a partire da una legge
secondo la quale il governo può acquisire terreni privati per scopi pubblici.
Nonostante un’intensa attività legale, i proprietari delle case di Seneca
Village non riuscirono a far valere i propri diritti di fronte a una campagna
stampa che li descriveva come ladri e abitanti abusivi di un
villaggio di negri.
Memoria e archeologia
Il gruppo
del Seneca Village Project, formato per lo più da archeologi e storici, aveva
iniziato mettere insieme reperti nella seconda metà degli anni ’90. Da allora
il gruppo lavora senza tregua e nel 2011 è riuscito a ottenere il permesso per
effettuare uno scavo archeologico a Central Park, attraverso il quale furono
trovati frammenti di stoviglie, ossa di manzo, bottoni, bottiglie,
pipe, uno spazzolino da denti e la suola della scarpa di un bambino. Viviamo
nel paese di Pompei, Paestum e Tarquinia e quindi può sembrarci strano che
siano necessari scavi per capire chi abbia abitato una città solo 150 anni fa.
Eppure questi ritrovamenti (a onor del vero accompagnati da una ricca
documentazione catastale) spiegano il valore simbolico di questo luogo.
La demolizione di un minuscolo villaggio raso al suolo per costruire un luogo
che sarebbe stato apprezzato da milioni di persone si colloca in una narrazione
molto più ampia, come ha spiegato una delle fondatrici del Seneca Village
Project, Diana Wall, partendo da una frase apparentemente priva di interesse
scritta alla fine della placca commemorativa presente a Central Park: “I
residenti e le istituzioni del villaggio di Seneca non hanno ristabilito la
loro comunità in un’altra posizione”. Secondo Wall è qui la chiave di lettura:
“Molti dei residenti rimasero a New York, ma non insieme. Questo è l’aspetto
tragico: una volta c’era una comunità, poi è scomparsa”. C’è anche un altro
aspetto rilevante: secondo lo storico Manevitz, sebbene nel 1855 il villaggio
contenesse solo l’1 per cento della popolazione nera della città, il 20 per
cento dei proprietari terrieri e il 15 per cento degli elettori neri risiedeva
proprio lì.
Mettere le toppe, 150 anni dopo
La Central Park Conservancy,
l’organizzazione no profit che gestisce Central Park, lavora attraverso mostre
e visite guidate per cercare di dare una nuova vita agli insediamenti presenti
nel parco prima della sua edificazione. Il sindaco De Blasio ha spinto affinché
si lavori a nuovi monumenti per onorare l’elite nera che abitava nell’area.
Come i Lyons, una famiglia di attivisti neri che possedevano terreni ed edifici
a Seneca Village. Un gesto importante, seppur estremamente tardivo, anche per
ricordare i soprusi (e gli atti terroristici) che gli afroamericani subivano
nella liberal Lower Manhattan. Del resto, spesso ci dimentichiamo che alla fine
del 1700 New York City era uno degli epicentri del commercio di schiavi e
che, probabilmente, dopo Charleston, Carolina del Sud, era la città con più
africani in catene di tutti gli Stati Uniti.
Gli storici
sanno ben poco di quello che è successo agli ex residenti. Trovare i pro-nipoti
degli abitanti del Seneca Village è un’azione disperata. Sappiamo tutti che la
storia non si fa con i se. Ma proviamo per un attimo a evadere questa regola:
pensate a come sarebbe diversa New York se nel centro di
Manhattan ci fosse un quartiere popolato da proprietari terrieri afroamericani.
Intanto, ora
siete a Central Park: guardatevi intorno, godetevi il bellissimo parco e prima
di farvi un selfie pensate a cosa abbia significato sradicare una esigua
comunità di ex schiavi per permetterci di “passeggiare e incontrarci”.
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