Siamo un
popolo che ride e che sa essere drammatico al momento opportuno, che sa fare un
passo avanti per risalire le vette più alte della dignità e della generosità
verso gli altri, con il nostro internazionalismo, quello che ci ha insegnato
Fidel e con questa pandemia che ha dimostrato che il popolo cubano è coerente,
educato e che, se si verificano degli atti di indisciplina, il popolo stesso le
condanna
Io sono
davvero orgoglioso di essere cubano per tutto questo che ho detto perché in
questo momento Cuba, il governo e la medicina cubana stanno dimostrando che
siamo all’avanguardia dell’umanesimo, con una dedizione e una solidarietà
incredibili che si rendono evidenti in tutto il mondo con la medicina, con i
medici e gli infermieri fuori di Cuba, ma anche con tutto quello che si sta
facendo qui …
[Miguel Barnet, poeta, scrittore, etnologo, Presidente della Fondazione Fernando Ortiz e
Presidente Onorario dell’Unione degli Scrittori e Artisti di Cuba. È autore
dell’interessantissima Biografia di un Cimarrón (schiavo africano fuggito e
datosi alla macchia). L’Università La Sapienza di Roma gli ha dato una laurea
Honoris Causa nel 2016]
Parte 1:
1959 – 1990
Una
Rivoluzione atipica, che ha assicurato istruzione e sanità efficienti,
universali e gratuite
Sembra che
molti italiani, e vari organi di informazione nostrani (tradizionalmente avvezzi
per lo più a criticare la “dittatura” cubana), abbiano scoperto con sorpresa
aspetti positivi Cuba in occasione dell’arrivo il 22 marzo e il 13 aprile
scorsi di due brigate mediche cubane, richieste rispettivamente dalle regioni
Lombardia e Piemonte, venute ad aiutarci nella lotta che il sistema sanitario
nazionale sta conducendo contro il coronavirus.
Fa un certo
piacere leggere sul Blog del Corriere della Sera – quotidiano
avvezzo a parlare della dittatura e delle violazioni dei diritti umani a Cuba[1] (gli
articoli di Panebianco l’hanno descritta tout court come “una
prigione a cielo aperto”) – un articolo sulla storia delle brigate mediche
cubane che contiene affermazioni come questa[2]:
La
situazione della sanità cubana durante la dittatura di Batista e fino al
trionfo della Rivoluzione nel 1959 era a dir poco disastrosa. Il sistema
sanitario pubblico era praticamente inesistente, mentre fiorivano cliniche
private cui potevano accedere solo coloro i quali potevano permettersi di
pagare parcelle salatissime. Nelle zone agricole e montagnose dove risiedeva il
50% della popolazione mancavano completamente ospedali e medici. La conseguenza
di tutto questo era un’aspettativa di vita pari a sessant’anni e un’altissima
mortalità infantile. La situazione sarebbe cambiata dopo la vittoria dei
barbudos ed i massicci investimenti del nuovo governo in materia di sanità ed
istruzione. Proprio questo è uno dei punti fondamentali della nuova concezione
medica cubana: l’unione dello sviluppo dell’istruzione e della sanità, visti
come due aspetti fortemente intrecciati che devono sfociare in quello che
potrebbe sembrare un paradosso, ossia la concezione umanistica delle scienze.
La medicina e la scienza, quindi, come strumenti al servizio delle fasce più
deboli della società, come diritto fondamentale per tutti gli esseri umani.
Proprio su queste basi avviene la saldatura tra politica nazionale ed
internazionale cui abbiamo accennato poco fa. Se l’accesso alla sanità è un
diritto fondamentale allora deve essere garantito a tutti, tanto a Cuba quanto
all’esterno, ovviamente con il consenso dei governi desiderosi di ospitare i
medici cubani.
Penso che il
riconoscimento per l’apporto delle brigate cubane, l’interesse che si è diffuso
per gli interventi che Cuba opera da anni nelle situazioni di epidemie o
disastri naturali, e per il livello di eccellenza del servizio sanitario
cubano, costituiscano un’occasione per ampliare e diffondere la conoscenza di
cosa sia stata l’esperienza della Rivoluzione cubana del 1959.
Io lo farò
partendo dalla mia lunga esperienza personale, sulla base della quale cercherò
di affrontare anche alcuni aspetti che per l’opinione pubblica possono
senz’altro risultare controversi ma che vale la pena esaminare da altre
angolazioni rispetto a molti stereotipi tutto sommato dominanti.
* * *
Collaboro
attivamente da 25 anni con la Facultad de Física della Universidad
de La Habana. Le mie simpatie per la Rivoluzione cubana risalivano al tempo
in cui iniziai a fare attività politica, ma ero in altre faccende affaccendato:
fino dal 1968 conoscevo colleghi fisici che andavano a tenere corsi estivi a
Cuba, mentre ho ignorato fino a pochi anni fa (quando con Rosella Franconi mi
occupai dello sviluppo della biotecnologia a Cuba, vedi le note 3 e 7) che nei
primi anni ‘70 gran parte dei giovani (allora) biologi italiani si recava a
Cuba a tenere corsi moderni di genetica e altri argomenti avanzati di biologia,
ed hanno il grande merito di avere formato l’insieme dei biologi e medici
cubani i quali dagli anni ‘80 hanno dato vita a Cuba al settore della
biotecnologia, proiettandolo immediatamente a livelli di eccellenza mondiale,
con un modello (necessariamente) alternativo a quello capital-intensive che
domina a livello planetario, ma anche più efficiente.
Per
impostare questo mio articolo, che si rivolge soprattutto a chi non conosce
l’esperienza cubana, penso sia utile soffermarmi brevemente sul perché nel 1994
cercai di stabilire un rapporto con i fisici cubani, perché può chiarire come
io non fui mosso da simpatie preconcette. Dopo la dissoluzione del cosiddetto
Blocco Comunista era noto che Cuba si trovò in crisi drammatica, tanto che
tutti i commentatori politici prevedevano che il “regime” sarebbe crollato
entro pochi mesi: ma dopo tre decenni Cuba è ancora lì, avendo superato (non
senza conseguenze) tutte le difficoltà, la prima delle quali era e rimane
l’implacabile bloqueo degli Stati Uniti. Nei primi anni ‘90
c’erano giudizi negativi nell’estrema sinistra italiana sul “regime” cubano,
molti insistevano sulla mancanza di “democrazia partitica” e alcuni sulle
violazioni dei “diritti umani”. Io, in contrapposizione, davo la priorità alla
volontà degli Stati Uniti di affamare e soffocare il popolo cubano, perché
questo è lo scopo del bloqueo, che venne rafforzato proprio con la
crisi degli anni ‘90. Per me la solidarietà con un popolo vessato dagli Stati
Uniti passava sopra tutte le altre considerazioni. Così cercai, non senza
fatica, un contatto con i fisici cubani con la modesta intenzione di potere
andare a dare una mano secondo le mie capacità.
Devo dire
anche che non mi aspettavo in nessun modo di trovare a Cuba il “paradiso
socialista”, partii aspettandomi di trovare là limiti politici e sociale grossissimi,
ma essi andavano comunque al di là dalla mia intenzione di aiutare come potevo
un popolo in grande difficoltà e sotto attacco, con l’intenzione senza scrupoli
da parte dei Washington di prostrarlo per far cadere il regime, che è l’esatto
opposto di quel rispetto dei “diritti umani” che gli USA prendono a pretesto:
devo dire che limiti e difetti ne ho indubbiamente constatati molti, ma non
erano affatto quelli che mi aspettavo dalle rappresentazioni correnti, mentre
ho trovato aspetti estremamente positivi assolutamente inaspettati. La Cuba
“vera” e “viva” è un’altra cosa. Per questo motivo vorrei dare un contributo,
ovviamente personale, a superare stereotipi che vedo ancora radicati
nell’opinione pubblica, e politica, italiana. Del resto constato ogni giorno
che chi ritorna da un viaggio a Cuba porta con se quasi sempre un’opinione
entusiasta del paese e della gente, anche quando il visitatore non parte con un
atteggiamento non particolarmente predisposto a favore di Cuba.
* * *
Quando
partii per Cuba mi aspettavo di trovare un livello molto buono della fisica,
sapendo che Cuba aveva beneficiato dal 1962 della collaborazione con l’Unione
Sovietica, che era all’avanguardia mondiale in molto campi della fisica; e
seppi immediatamente che quasi tutti i fisici cubani avevano studiato
nell’URSS. Ma proprio su questa mia convinzione incontrai la prima sorpresa,
perché conversando con i colleghi cubani cominciarono a raccontarmi che a
partire dal 1962, quando iniziò la collaborazione con i sovietici, vi fu un
numero consistente di fisici molto qualificati visitor professors di
alta levatura da un gran numero di paesi capitalisti (molti francesi, un
britannico, un israeliano, uno statunitense, un italiano, argentini, messicani,
ed altri), i quali contribuirono in modo decisivo a sviluppare corsi moderni in
campi avanzati, e soprattutto i francesi (che dalla scuola di Joliot Curie
militavano o erano vicina al PCF) con lo statunitense Theodore Veltfort avevano
realizzato laboratori e officine ed avviato le prime attività di ricerca nel
campo dei dispositivi elettronici a stato solido.
Queste
notizie acuirono la mia curiosità, dato che da decenni mi occupavo di storia
della fisica, anche se ero andato a Cuba senza la minima intenzione di
occuparmi di questo aspetto. Sulla base di questo stimolo iniziai a cercare
qualche fisico cubano che avesse vissuto quegli anni collaborando con qualche
fisico “occidentale”. Per farla breve, nel corso di vari anni ho intervistato
una sessantina di fisici cubani (una sorta di storia orale improvvisata) i
quali mi hanno dischiuso una visione radicalmente diversa del modo in cui a
Cuba si è sviluppata una fisica a livello internazionale. La mia ricerca, con i
contributi di molti fisici cubani, ed anche le testimonianze di molti fisici
“occidentali”, produsse nel 2014 un voluminoso libro collettivo, The
History of Physics in Cuba, edito dalla Springer di Berlino.
Ci sono
alcuni aspetti particolarmente rilevanti che emergono da questa ricerca e da
tutto il volume:
- La costruzione di un settore
avanzato di Fisica è stata un vero progetto consapevole fino dai
primissimi passi, che ha coinvolto non solo tutto l’ambiente scientifico e
intellettuale, ma anche gli studenti (che erano stati fra i protagonisti
della Revolución, poi della straordinaria campagna di
alfabetizzazione che sradicò l’analfabetismo, e delle prime innovazioni
didattiche) e in modo diretto o indiretto la popolazione. Ho trovato
nell’ambiente scientifico cubano (e non è solo la mia esperienza) un
genuino spirito di cooperazione ad un’impresa collettiva volta a beneficio
del paese ed a risolvere i problemi fondamentali per lo sviluppo e
l’autonomia del paese: non ho mai riscontrato la presenza di logiche
competitive, personalistiche o carrieristiche.
- Il consenso e la condivisione
della popolazione a questo processo (nel quale, dopo la riforma
dell’istruzione, resa gratuita per tutti, partecipavano attivamente anche
strati popolari che ne erano sempre stati esclusi) derivavano dalla
diffusa consapevolezza che il progetto di sviluppare un sistema
scientifico avanzato, a cominciare dai campi di base, era esplicitamente
finalizzato ai bisogni di sviluppo del paese e all’affrancamento dalla
condizione di subalternità alle quali sono soggetti i paesi
sottosviluppati. È importante aggiungere a questo proposito che dai
primissimi anni si era affiancato il progetto di sviluppare un sistema
sanitario moderno, universale e gratuito, che stava effettivamente
eliminando le malattie tipiche dei paesi sottosviluppati e realizzando un
profilo sanitario della popolazione cubana al livello dei paesi più
sviluppati. Questo carattere partecipativo della popolazione ha
caratterizzato tutta l’esperienza cubana.
- La comunità scientifica cubana
si è inoltre contraddistinta per una caratteristica che come scienziato
giudico francamente straordinaria: cioè l’esplicita volontà, e la
capacità, di ricercare i contributi più validi e utili per il progetto di
uno sviluppo scientifico avanzato, da qualunque paese del mondo
(prendendosi la libertà unica nel Blocco Comunista di una piena
collaborazione con paesi capitalisti, della quale vedremo l’importanza
decisiva nel successivo sviluppo della biotecnologia), e di integrarli nei
modi più utili e funzionali nel sistema cubano. Per inciso mi sembra il
caso di accennare che Cuba si prese libertà di iniziative non allineate
con Mosca anche in politica estera, basti ricordare la decisione di Fidel
nel 1975 di intervenire militarmente in Angola in supporto al MPLA, che
spiazzò la politica di Brezhnev di riavvicinamento con gli Stati Uniti:
tanto più che questo avvenne in un momento di particolare allineamento di
Cuba con l’URRS dopo il fallimento dell’ambiziosa Zafra de los 10
millones del 1970, con l’entrata di Cuba nel Comecon e nel
cosiddetto Quinquenio gris, con l’adesione al “realismo
socialista” e la marginalizzazione di molti intellettuali (come il grande
scrittore Lezama Lima). L’intervento cubano consentì ad Agostinho Neto di
respingere l’attacco alla capitale Luanda di forze del Sudafrica e dello
Zaire (sostenute dagli Stati Uniti), ma il conflitto in Angola tuttavia
proseguì e si inasprì fino alla storica sconfitta dell’esercito del
Sudafrica nella battaglia di Cuito Cuanavale (gennaio-marzo 1979), la più
grande e sanguinosa in Africa dalla Seconda Guerra Mondiale. La sconfitta
del Sudafrica ad opera di un esercito largamente composto di uomini di
colore assunse un grande valore simbolico di discredito del regime
dell’apartheid, come Nelson Mandela dichiarò nella sua visita all’Avana
nel 1991, la sconfitta dell’esercito razzista fu “un punto di svolta per
la liberazione del continente e del mio popolo”. Vale la pena di ricordare
che Cuba è stato il solo paese esterno che è intervenuto in Africa
(precedentemente anche con il Che) senza portarsi a casa una sola goccia
di petrolio!
* * *
Non mi
dilungherò sul processo di costruzione del sistema scientifico e medico
avanzato di Cuba, perché è discusso nei libri che ho scritto in questi anni.
Ricorderò solo una scelta che venne fatta immediatamente dopo il trionfo della Rivoluzione,
la campagna capillare che sradicò in tutta l’isola l’analfabetismo, e
l’istituzione immediata di un sistema d’istruzione gratuito e aperto a tutti,
fino ai livelli più alti: scelte che di per se dovrebbero porre qualche
interrogativo a chi è convinto che Cuba abbia instaurato un sistema
dittatoriale, i sistemi totalitari si prefiggono di mantenere i popoli
nell’ignoranza, perché come diceva José Marti, essere colti è il presupposto
per essere liberi.
Venendo allo
sviluppo scientifico, si deve sottolineare una scelta molto saggia degli
ambienti scientifici cubani di dare la precedenza allo sviluppo di un solido
settore di fisica, finalizzato alla formazione di personale con una forte
capacità di adottare approcci rigorosi, sia sperimentali che teorici, per
fornire questo personale alle altre branche: in effetti la medicina e la
biotecnologia cubane si caratterizzano per una forte presenza di fisici che con
la capacità, la flessibilità e la volontà degli scienziati cubani hanno
integrato la propria formazione di base. È importante osservare che nella
giovanissima dirigenza rivoluzionaria (“ragazzi” che, all’avventuroso sbarco
del Granma, andavano dai 23 anni di Camilo Cienfuegos ai 29 di
Fidel) era presente la necessità di sviluppare in particolare la fisica e la
tecnologia dei dispositivi a stato solido (il Che si adoperò attivamente come
Ministro dell’Industria per lo sviluppo dell’informatica). Verso il 1964 si
sviluppò fra i fisici cubani un vivace dibattito sulle scelte di sviluppo della
fisica (alla quale parteciparono anche fisici italiani e francesi importanti),
che sfociò nella decisione di scartare le scelte fatte da tutti i paesi
sottosviluppati della fisica nucleare e degli acceleratori di particelle e di
puntare alla fisica dello stato solido. Come paragone, in Italia la ripresa
della fisica nel dopoguerra puntò proprio sulla fisica nucleare e degli
acceleratori di particelle, sul modello statunitense, e fino agli anni ‘60 la
fisica dello stato solido, che con investimenti estremamente minori poteva
consentire sviluppi tecnologici e industriali avanzati, rimase una Cenerentola:
dominava una egemonia dei fisici “particellari” i quali avevano monopolizzato
il potere e i finanziamenti emarginando i settori “concorrenti”. A Cuba
tuttavia altri settori – come la fisica nucleare, la meteorologia o la fisica
nucleare – non furono emarginati, ma nell’ambito della Academia de
Ciencias de Cuba (ACC) e del Centro Nacional de Investigación
Científica (CNIC) creati in quegli anni vennero istituiti centri di
ricerca specializzati in settori specifici ritenuti utili per le necessità del
paese, per cui alla fine il sistema scientifico cubano risulta particolarmente
equilibrato (non sfuggirà l’importanza del settore della meteorologia che
consente a Cuba di intervenire nel caso dei cicloni tropicali evitando o
limitando le vittime che questi provocano negli altri paesi della regione).
* * *
La cosa
sulla quale vorrei chiamare l’attenzione è che questi risultati non sarebbero
certo stati possibili se questo progetto complessivo non fosse stato non solo
compartecipato attivamente da tutte le componenti intellettuali e politiche –
dalla dirigenza rivoluzionaria, all’insieme degli ambienti tecnici e
scientifici, alla fortissima e vivace componente studentesca – ma condiviso
dall’intera popolazione la quale, informata e partecipe, accettò le scelte e le
priorità, che evidentemente in un quadro di risorse fortemente limitate
imponevano scelte decise, consapevole che queste scelte erano finalizzate a
risolvere i problemi più urgenti della popolazione e dello sviluppo del paese.
A me sembra
da tempo appropriato per questa esperienza il concetto di egemonia sviluppato
da Gramsci, anche se egli l’aveva elaborato in carcere, dalla conoscenza
delle lotte di classe torinesi ed era estremamente lontano dalla futura realtà
della Rivoluzione cubana: il primo libro scritto nel 2016 in collaborazione con
Rosella Franconi sullo sviluppo della biotecnologia a Cuba lo intitolammo
proprio “Subalternity vs. Hegemony”[3] perché
è un concetto che rispecchia perfettamente la nostra esperienze diretta della
società cubana. Noi abbiamo riletto la storia dei patrioti cubani che dal
secolo XIX lottarono per l’indipendenza con la lucida consapevolezza,
soprattutto da José Marti, della necessità di affrancarsi dalla situazione di
subalternità e acquistare una vera autonomia. Quando il 15 gennaio 1960, ad
appena un anno dalla vittoria della rivoluzione, Fidel Castro affermò
spavaldamente:
Il futuro
della nostra Patria dev’essere necessariamente un futuro di uomini di scienza,
di uomini di pensiero, perché è precisamente quello che più stiamo seminando.[4]
toccò le
corde dell’innegabile orgoglio del popolo cubano, rinsaldò la volontà ferrea
dei cubani di resistere in modo compatto alla sfida del poderoso vicino e
rafforzò l’adesione di tutti gli strati sociali ai piani di rinnovamento del
Paese. In particolare, l’ambizioso progetto di sviluppo scientifico e culturale
finalizzato al progresso collettivo riuscì a catalizzare e moltiplicare una
volontà collettiva nei ceti intellettuali che coagulò attorno al gruppo
dirigente la capacità di trasformarsi in egemonia.
Sulla
realizzazione di questo ambizioso progetto da tempo diciamo, con Rosella Franconi,
che i cubani non sono extraterrestri, persone di intelligenza superiore, sono
donne e uomini come tutti noi, con i loro pregi e i loro limiti: semmai gli si
deve riconoscere una spiccata creatività e la capacità di trovare modi di
cavarsela in tutte le situazioni difficili (v. oltre). Il successo di questa
impresa, che poteva sembrare impossibile per un paese piccolo e in quelle
condizioni difficili, è stato dovuto proprio a questo spirito di collaborazione
fra tutte le componenti della società per realizzare un progetto comune
finalizzato al bene della popolazione e del paese. Uno spirito di cooperazione
che si respira ancora oggi negli ambienti scientifici a Cuba.
* * *
Dei
risultati che furono conseguiti in campo medico e scientifico ne cito due pertinenti
al mio discorso, che furono realizzati nel sorprendente giro di 10-15 anni:
- Come già ho ricordato, il
decisivo miglioramento delle condizioni di salute della popolazione, nel
quadro del servizio sanitario universale e gratuito. I riconoscimenti internazionali
sono innumerevoli, basti quello autorevole dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità insieme ad altre organizzazioni del 2015[5]:
«… la volontà politica dello Stato si è incentrata inter alia nel garantire
l’accesso dell’intera popolazione alla salute. Cuba ha un sistema sanitario
nazionale che, oltre a fornire i servizi sanitari, copre altre attività come
ricerca, sviluppo e innovazione, nonché politiche per la formazione di risorse
umane e la creazione di risorse tecnologiche, industriali e di proprietà
intellettuale.
… Il suo
sistema sanitario è apprezzato in tutto il mondo per avere raggiunto una
copertura sanitaria universale. Ciò è evidente dagli indicatori di salute che
sono paragonabili a quelli dei paesi altamente sviluppati. … Di conseguenza
Cuba è diventata un leader mondiale nel trasferimento tecnologico Sud-Sud,
aiutando paesi a basso reddito a sviluppare proprie capacità nazionali nelle
biotecnologie, fornendo formazione tecnica, e facilitando l’accesso a farmaci
salvavita a basso costo per combattere infermità quali la meningite B e
l’epatite B.»
- In un tempo sorprendente breve
le ricerche avviate sui dispositivi elettronici a stato solido portarono i
fisici cubani a metà degli anni ‘70 ad un livello confrontabile con quello
di paesi dell’America Latina molto più grandi e con una maggiore
tradizione scientifica, come il Cile e l’Argentina, nello sviluppo della
microelettronica a media integrazione. Cuba progettò anche la costruzione
di una fabbrica di produzione, ma lo sviluppo dell’alta integrazione
frustrò i progetti sui quali molto paesi in via di sviluppo avevano
puntato per uno sviluppo autonomo, affrancato dalla condizione di
dipendenza e subalternità.
Ma ora
vedremo che Cuba aveva in serbo altri assi nella manica.
* * *
Prima di
ritornare agli sviluppi medico scientifici apro un’altra parentesi su una caratteristica
di Cuba che ritengo fondamentale per capire il paese e il suo popolo, anche se
sarebbe necessario ricostruirne la storia, che si differenzia notevolmente da
quella del resto del continente (i paesi dell’America Latina conquistarono
l’indipendenza dalla Spagna fra il 1813, Paraguay, e il 1825, Venezuela, mentre
Cuba nel 1898 acquisto un’indipendenza solo formale ma in sostanza un
protettorato degli USA). Credo che tutti i visitatori di Cuba, che semmai
conoscono anche altri paesi latinoamericani, concordino nell’avere trovato
nella popolazione cubana aspetti peculiari: basti qui ricordare le
caratteristiche della musica cubana che la caratterizzano in modo unico fra le
musiche del resto del mondo, e che malgrado le piccole dimensioni dell’isola, come
estensione e come popolazione (un millesimo delle terre emerse, e 1,5 per mille
della popolazione mondiale), ha avuto un’influenza enorme sulla musica mondiale
(a Cuba peraltro vi è una straordinaria varietà stili e sonorità, per esempio
melodici, e altri grandi musicisti, non meno popolari, come Ernesto Lecuona,
Omara Portuondo, una scuola originale di Jazz, con il grande Chucho Valdés e il
padre Bebo).
Con
l’acquisizione dell’indipendenza “formale” nel 1898 – come si è detto
“condizionata”, lasciando un forte stimolo a differenziarsi dagli Stati Uniti –
si sviluppò una ricerca di una propria identità specifica. Un processo
complesso per quest’isola, crogiolo di influenze etniche e culturali da tre
continenti e civiltà, che si sono fuse e integrate in modo assolutamente
originale ed hanno forgiato un tipo peculiare di coscienza e stile nazionale e
culturale. Il noto storico, antropologo ed etnomusicologo Fernando Ortiz
(1881-1969) coniò nel 1939 il termine cubanía, o cubanidad (“cubanità”),
insistendo sulla reciproca influenza che diversi gruppi hanno esercitato l’uno
sull’altro nella creazione di un’identità nazionale genuina. Ortiz ha
sviluppato il concetto originale di “transculturazione” (contrapposto a quello
di acculturazione) per fornire un’interpretazione delle influenze spagnola ed
africana nel plasmare l’identità nazionale cubana, in base alla reciproca ed
intima influenza delle abitudini, tradizioni e culture tra tutti i soggetti che
partecipano a scenari di contatto e scambio interculturali. La
transculturazione presuppone una profonda ed intima integrazione, non una
supremazia di una cultura su di un’altra. In una parola direi che i
colonizzatori spagnoli sfruttarono brutalmente la tratta degli schiavi
dall’Africa, ma questi ultimi seppero “trasfigurare” le loro abitudini e
credenze in maniera tale che a loro volta i creoli le assorbirono. Così la
musica popolare cubana ha assorbito i ritmi africani trasformandoli in modi
originali, ma è vivo anche il campo dei “boleros” romantici. E la religione
sincretica afrocubana è penetrata in tutti i settori della società cubana.
In un
“Omaggio a Fidel” scritto dopo la sua scomparsa si dice, in termini meno
scientifici ma molto coloriti ed efficaci:
I cubani
sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su
un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi
lasciare traccia. Sono il risultato dell’incontro/scontro e poi mescolanza di
europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero
un’accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e
neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e
queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto
con tutti, se l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un
certo punto, nel nome della lotta per l’indipendenza.[6]
Nella mia
prima visita a Cuba nel 1984 percepivo camminando per strada qualcosa di
inusuale che impiegai qualche giorno a interpretare: il colore della pelle dei
cubani copre tutte le sfumature dal bianco puro al nero fuliggine.
In ogni
caso, non si può non riconoscere nel popolo cubano una forte componente di
creatività, di non perdersi mai d’animo e di cavarsela in tutte le situazioni
difficili. Un esempio, certo superficiale, è dato dalle vecchissime auto
americane degli anni ‘50 che continuano a circolare, le più vecchie cadenti a
pezzi, senza un pezzo di ricambio originale da 60 anni: spesso si fermano, si
vede l’autista calato dentro al cofano, ma di solito ripartono sempre: una
persona “moderna” e “evoluta” come noi avrebbe lasciato perdere da un pezzo!
* * *
Ritorniamo
alle scelte originali di Cuba in campo medico scientifico.
L’autonomia
delle scelte cubane rispetto a Mosca ebbe un’espressione di importanza decisiva
in campo medico-scientifico negli anni ‘70 – ‘80. Infatti, se nella Fisica
l’URSS era ad un ottimo livello internazionale ed aveva supportato in maniera
decisiva lo sviluppo della Fisica a Cuba (anche se abbiamo visto che il
processo fu assai più articolato), c’era invece un campo nel quale l’Unione Sovietica
scontava un riardo gravissimo: la moderna nascente genetica molecolare: questo
ritardo portava un nome, il “caso Lysenko”. Semplificando brutalmente, Lysenko
(1898-1976) era un agronomo di valore, il quale però aveva perseguito ed
attuato l’idea che i caratteri fenotipici subissero dalle condizioni ambientali
modificazioni trasmissibili alla prole: una concezione di stampo genericamente
lamarckiano, che si inseriva bene nella concezione del materialismo dialettico,
e venne abbracciata da Stalin, facendo fuori genetisti di valore (come
Vavilov). Nella sostanza lo sviluppo della genetica in Russia era stata
bloccato proprio quando, negli anni ‘40 e ‘50, si verificarono gli sviluppi
fondamentali della genetica molecolare (individuazione del DNA come materiale
genetico, e determinazione della struttura a doppia elica).
Sarebbe
lungo qui ripercorrere le scelte operate da Cuba, che abbiamo con Rosella
Franconi ricostruito in dettaglio altrove[7].
In estrema sintesi (ma alcuni dettagli sono essenziali per apprezzare
l’originalità della scienza cubana), i punti salienti furono i seguenti.
- La moderna genetica ed altri
temi di carattere biologico furono introdotti a Cuba in una serie di corsi
svolti fra il 1969 e il 1973 dalla (allora) giovane generazione dei
biologi italiani: quasi tutti i maggiori biologi italiani hanno fatto
un’esperienza più o meno lunga a Cuba, molti degli allievi cubani hanno
poi usufruito di stage di specializzazione in Italia;
qualche cubano, come il più importante immunologo/biotecnologo attuale,
Augustín Lage, si è specializzato a Parigi. Insomma, le collaborazioni con
scienziati di paesi capitalisti sono state decisive: così è stata formata
la generazione dei genetisti cubani.
- Alla fine degli anni ‘70 si
diffuse nel campo medico mondiale l’idea che l’interferone, scoperto nel
1957, fosse un potente rimedio per una serie di malattie, fra le quali il
cancro. A Cuba come si è detto, raggiunto un profilo sanitario della
popolazione simile ai paesi più sviluppati, i tumori erano divenuti un
problema prioritario da affrontare. I medici cubani ebbero il pieno
appoggio di Fidel Castro in persona nel reperire i contatti medici
decisivi per potere produrre l’interferone umano a Cuba. Nel novembre 1980
sei medici statunitensi visitarono Cuba per documentarsi sulla sua
situazione e offrire aiuto. Di questi faceva parte Randolph Lee Clark (1906-1994),
direttore dell’Ospedale Oncologico “MD Anderson” di Houston. Fidel volle
incontrarli e chiese a Clark quale fosse in quel momento il principale
progresso per curare il cancro: egli gli parlò dell’interferone. Fidel gli
chiese di ricevere nel suo ospedale due medici cubani per documentarsi, e
a metà gennaio 1981 (le date in questa storia sono significative) questi
si recarono all’ospedale di Huston, dove appresero che il finlandese Kari
Cantell ad Helsinki aveva realizzato un processo per produrre quantità
utili di interferone dalle cellule sanguigne umane, e non l’aveva
brevettata per consentire a chiunque di acquisirla. Al loro rientro a Cuba
Fidel decise di chiedere ufficialmente a Cantell di potere inviare nel suo
laboratorio sei medici cubani per apprendere la sua tecnica. I medici
cubani partirono il 28 marzo 1981 e giunsero dopo 24 ore di volo in una
Helsinki gelida e coperta di neve: il lunedì 30 marzo alle 8 del mattino
erano al laboratorio di Cantell, il quale era molto scettico sul fatto che
essi fossero in grado di riprodurre la tecnica a Cuba. I sei medici cubani
studiarono accuratamente la sua tecnica e il 10 aprile rientrarono Cuba.
Qui Fidel fornì una villa nella parte occidentale dell’Avana che fu
equipaggiata come laboratorio, e in soli tre mesi, con grande stupore di
Cantell, riprodussero il processo a Cuba, ottennero interferone umano e
stabilizzarono la sua produzione (da gennaio erano trascorsi appena sei
mesi). Ma l’approccio sanitario cubano si distinse immediatamente,
meravigliando profondamente lo stesso Cantell: nel frattempo infatti era
scoppiata a Cuba una grave epidemia di dengue (furono
colpiti 340.000 cubani, con più di 10.000 nuovi casi giornalieri
diagnosticati al picco dell’epidemia; Cuba ha sempre sospettato la CIA di
avere introdotto il virus). Il ministro cubano di Salud Publica autorizzò
immediatamente l’utilizzo dell’interferone: la mortalità declinò, fu il
primo intervento massiccio al mondo di terapia antivirale effettuato con
l’interferone. Questo nesso diretto tra la ricerca di nuovi farmaci, i
test clinici e le applicazioni è rimasta una caratteristica peculiare del
sistema biomedico cubano.
- Cuba entrava in un nuovo
sistema tecnico-industriale, la biotecnologia, proprio nel momento in cui
esso nasceva a livello mondiale[8]: ma questo è solo un paragone formale, che dice poco
sugli aspetti peculiari dell’approccio cubano, delle sue finalità e del
suo successo. Con i successi nella produzione e nell’uso dell’interferone
sorse la necessità di produrlo in maggiori quantità per un suo uso
generalizzato. Si decise di creare il Centro de Investigaciones
Biológicas (CIB), che venne costruito in soli 6 mesi. La prima
fase di purificazione dell’interferone fu affiancata da un progetto
parallelo di clonare il gene dell’interferone per produrlo in forma
ricombinante[9], un risultato che altri avevano conseguito. Anche in
questo caso la svolta verso l’ingegneria genetica non fu ispirata a Cuba
dalla logica di dominio dell’industria capitalistica, o dalla ricerca di
risultati scientifici d’avanguardia, ma dal fatto che rispondeva ai
bisogni del paese. Tra il 1982 e il 1986 le tecniche fondamentali
dell’ingegneria genetica vennero assimilate al CIB, rafforzarono la confidenza
dei cubani nelle biotecnologie, e generarono le innovazioni originali.
- Tra il 1982 e il 1984 avvenne
un grande balzo che evidenzia ulteriormente l’originalità dell’approccio e
delle finalità di Cuba. Nel 1981 l’Organizzazione per lo Sviluppo
Industriale delle Nazioni Unite (UNIDO) indisse un concorso per un centro
internazionale per promuovere la ricerca e lo sviluppo in biotecnologia
nel Terzo Mondo. Era una grande occasione, Cuba fece domanda oltre a più
di 15 paesi. Ma quando si doveva prendere la decisione finale, gli
scienziati cubani si resero conto che le necessità del paese non sarebbero
mai state raggiunte in un contesto progettato e diretto dalle nazioni
industriali. Di conseguenza, nel 1983 venne presa la decisione di
costruire autonomamente una propria nuova istituzione dedicata allo
sviluppo e alle applicazioni dell’ingegneria genetica. Il nuovo Centro
de Ingeniería Genética y Biotecnología (CIGB) venne inaugurato
nel 1986: era la più grande e complessa installazione scientifica mai
realizzata a Cuba, interamente progettata e costruita dai cubani
ispirandosi alle più importanti esperienze internazionali. Con un costo di
costruzione di 25-26 milioni di dollari (negli Stati Uniti sarebbe potuto
costare 10 volte di più) ed un ulteriore investimento di circa 100 milioni
per equipaggiarlo con le attrezzature più avanzate per la ricerca in
ingegneria genetica, il CGIB divenne il più grande centro scientifico di
Cuba: un’impresa di basso costo e con rese molto alte. Il CGIB assunse
l’esplicita responsabilità di contribuire allo sviluppo socio-economico
del paese, concentrò centinaia di ricercatori e venne suddiviso in piccoli
gruppi che coprivano praticamente tutte le tematiche di ricerca del
settore, dalla salute umana, alla produzione agricola ed acquatica,
l’ambiente e lo sviluppo. Le attività del CGIB andavano dalla produzione
di proteine ed ormoni, allo sviluppo di vaccini e di prodotti
farmaceutici, all’ingegneria genetica dei microrganismi e delle cellule
animali e vegetali, alla produzione di enzimi, fino allo sviluppo e la
produzione di apparati diagnostici.
- Alla fine degli anni Ottanta il
sistema biomedico cubano fece un altro balzo decisivo: nel 1991 tutti i
centri creati attorno al CGIB vennero raggruppati nel Polo
Científico del Oeste, che oltre al CGIB raccoglie l’Instituto de
Medicina Tropical “Pedro Kourí” (IPK), il Centro Nacional de
Producción de Animales de Laboratorio (CENPLAB, 1982), il Centro
de Inmunoensayo (1987, Centro di Immunologia), il Centro
Químico-Farmacéutico (CQF, 1989), il Centro de
Neurociencias de Cuba (CNC, 1990), l’Instituto Finlay (1991),
il Centro de Inmunología Molecular (CIM, 1994), il Centro
de Biopreparados (1997, Centro di Biofarmaci). I centri
raggruppati nel Polo Scientifico sono strettamente interconnessi, il loro
stile di lavoro e le loro motivazioni hanno promosso una cultura
scientifica e forme di attività originali, con legami innovativi tra la
ricerca orientata verso obiettivi concreti e la ricerca di base, “una
specie particolare di spazio epistemico”, di “creazione di innovazione”,
una peculiare sinergia ed “epistemologia pratica”. La particolare forma di
integrazione e di obiettivi assunti dalla biotecnologia cubana le consentì
di ottenere risultati di grande rilievo a livello mondiale senza la necessità
degli ingenti investimenti della biologia dei paesi capitalisti.
- Nel 1989 vi erano a Cuba
complessivamente 41.784 ricercatori (uno ogni 251,3 abitanti, le
percentuale di gran lunga più alta in tutta l’America Latina), dei quali
120 avevano un dottorato di ricerca e 2.192 erano candidati per
conseguirlo.
* * *
Il 26 aprile
1986 esplose il quarto reattore della centrale nucleare di Chernobyl. La
catastrofe contaminò un’area di circa 140.000 chilometri quadrati in cui
vivevano circa 7 milioni di cittadini sovietici, provocando un’ondata di
radiazioni che coinvolsero parti di tre repubbliche dell’URSS: Ucraina, Russia
e Bielorussia. Nel febbraio 1990, il Comitato Centrale del Komsomol (Unione
giovanile comunista) dell’Ucraina presentò una richiesta di assistenza
internazionale ai minori vittime di Chernobyl. Nel giro di pochi giorni il
Governo cubano rispose, ed inviò i tre migliori specialisti nelle patologie più
frequenti nell’infanzia in Ucraina per ispezionare i villaggi contaminati dalle
radiazioni. Già il 29 marzo i primi due velivoli con 139 bambini malati di
leucemia atterrarono all’aeroporto de L’Avana.
Dopo aver
ricevuto il primo gruppo di bambini, Fidel Castro annunciò che il suo paese
avrebbe ricevuto 10.000 pazienti dall’Unione Sovietica. Quando arrivarono i
primi voli i bambini furono portati in due ospedali pediatrici a L’Avana ma
Fidel si rese conto che essi erano insufficienti e diede vita a un nuovo
progetto: il villaggio turistico di Tararà, 11 km quadrati con 850 metri di
spiaggia, circa 15 km dalla capitale, costruito negli anni della dittatura di
Batista fu ristrutturato da brigate di lavoratori volontari.
I piccoli
pazienti furono suddivisi in 4 gruppi a seconda della gravità della loro
condizione. Furono inoltre inviati psicologi e medici ucraini, che facilitavano
la comunicazione con gli ammalati: il programma di riabilitazione psicologica
comprendeva escursioni e attività culturali e lavoratori impiegati per fare
dolci ai bambini e dare loro una torta per i loro compleanni.
Fin
dall’inizio del programma Cuba ha proposto di fornire servizi medici
gratuitamente, chiedendo solo all’URSS di pagare per il trasporto dei bambini.
Quella politica non è cambiata nemmeno negli anni più difficili dopo il crollo
del blocco sovietico quando l’isola viveva una gravissima crisi economica:
l’Avana ha sostenuto la schiacciante parte delle spese. Fra il 1990 e il 2011
negli ospedali pediatrici di Cuba furono trattati, quasi totalmente gratis,
25.000 ragazzi vittime delle radiazioni in Ucraina, Russia e Bielorussia, la
maggior parte affetti da cancro, deformazioni, atrofia muscolare, problemi
dermatologici e allo stomaco. In gran parte con alti livelli di stress
postraumatico per aver sperimentato gli orrori di un’aggressione nucleare.
Secondo le stime, fino al 2009 l’isola ha speso 350 milioni di dollari solo per
le medicine. Il programma è stato completato nel 2016. Cuba è stato l’unico
paese che ha fornito assistenza gratuita e massiccia alle vittime della
catastrofe di Chernobyl. Naturalmente furono molte le iniziative benefiche in
molti paesi.
Parte 2:
Post 1990
Cuba in mare
aperto: “Se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba, molto
meglio” (Lia de Feo)
E arrivò lo
shock, tremendo, della dissoluzione dell’Unione Sovietica! Per tre decenni Cuba
aveva navigato nel panorama internazionale sostanzialmente sotto l’ala
protettrice dell’URSS, ma all’improvviso si trovò a navigare in mare aperto
senza più Santi in Paradiso! Le ripercussioni furono drammatiche per l’intero
sistema economico cubano. L’economia nel suo complesso si ridusse di quasi il
50% tra il 1989 e il 1992, il Pil del 30%. Il governo cubano dichiarò un Periodo
Especial (“Periodo Speciale in tempo di pace”) e tutta la popolazione
affrontò gravi privazioni. L’apporto calorico pro capite dell’alimentazione
della popolazione cubana si ridusse del 24%, una carestia strisciante. I
medicinali scarseggiarono (non senza che gli avvoltoi degli USA ci mettessero
lo zampino[10]).
Molti analisti preannunciavano il collasso dell’economia e del regime cubani:
ma Cuba è ancora lì, sfidando tutte le previsioni e le aspettative.
E … ecco il
fatto eccezionale (tralasciando altri dettagli certo importanti):
- il sistema scientifico cubano,
costruito tenacemente in 30 anni con la partecipazione attiva di tutto
l’ambiente scientifico, aveva acquisito una solidità intrinseca: subì
inevitabili ripercussioni gravi (nella Fisica, ad esempio, le
apparecchiature erano di fabbricazione sovietica o di paese dell’Europa
comunista), ma nella sostanza resse nei settori fondamentali per le
produzioni medico farmacologiche;
- Fidel rilanciò con decisione e
energia la stessa strategia che era risultata vincente nel 1960, puntare
non solo sulla resistenza ma sul rilancio del sistema scientifico medico;
come scrive un giornalista non certo sospetto di opinioni di parte, D.
Starr (condirettore del Center for Science and Medical Journalism della
Boston University), “Di fronte alla calamità economica, Castro fece una
cosa eccezionale: investì centinaia di milioni di dollari in ricerca
farmaceutica”[11].
E non solo
gli ambienti scientifici, ma la popolazione pur nel mezzo di enormi difficoltà
capì. Si deve dire che nessun cubano fece veramente la fame perché la libreta statale
pur decurtata per la penuria alimentare forniva a tutti un minimo vitale (e
l’arte di arrangiarsi dei cubani faceva il resto). Indubbiamente le
ripercussioni economiche della crisi, nonché l’apertura al turismo, produssero
forti cambiamenti nella società, con l’avvento di disuguaglianze che prima
erano sconosciute (negli anni ‘60 l’ONU aveva riconosciuto Cuba come società
più egualitaria al mondo). Ma la popolazione comprese ancora una volta il
valore delle conquiste realizzate e l’importanza di conservarle, soprattutto
nell’educazione e la medicina.
Così Fidel
Castro poteva ribadire nel 1991, nel pieno della crisi, con un messaggio denso
di contenuto politico e di solidarietà civile:
Non ci può
essere il socialismo senza la scienza. La sopravvivenza della rivoluzione e del
socialismo, la difesa dell’indipendenza di questo paese, dipende oggi
fondamentalmente dalla scienza e dalla tecnica. E non sto dicendo che sia
unicamente un problema di scienza e tecnica; direi che è, in primo luogo, un
problema politico, una questione di coscienza, di spirito di lotta, di volontà,
determinazione, e coraggio di resistere, di affrontare le difficoltà, qualsiasi
esse siano. Questo sforzo della scienza e della tecnica necessita una premessa
politica, che è la volontà di lottare e di vincere.
Quello che
avremo in futuro dobbiamo crearlo noi, dobbiamo conquistarlo con le nostre
braccia, con il nostro sudore e la nostra intelligenza. Possiamo riuscire a
fare molto e possiamo arrivare molto lontano, perché abbiamo ciò che altri non
hanno: la quantità di talento accumulato nella nostra società, la quantità di
intelligenza sviluppata. Con quello che abbiamo possiamo ottenere ciò che
vogliamo.” [Pensamiento de Fidel Castro Ruz. Tercera Parte. VI Forum, 1991]
Così tra la
fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta vennero creati nuovi centri di
ricerca. Il governo cubano investì tra il 1990 e il 1996 un miliardo di dollari
nel complesso biomedico del Polo Científico del Oeste,
ribattezzato Western Havana Bio-Cluster che raggruppò i 53
migliori centri scientifici, sanitari, formativi ed economici. Nel 1994 venne
inaugurato il Centro de Inmunología Molecular (CIM),
progettato per “ottenere e produrre nuovi biofarmaci destinati al trattamento
del cancro e di altre malattie croniche non trasmissibili e includerli nel
sistema sanitario cubano”.
Senza
entrare in ulteriori dettagli, la scommessa è risultata una seconda volta
vincente, il comparto biomedico è il terzo settore per l’ingresso nel paese di
valuta pregiata, ed è stato vitale per la ripresa economica di Cuba[12].
È opportuno sottolineare che il successo di Cuba a livello internazionale nel
campo avanzato della biotecnologia viene esplicitamente riconosciuto dagli
specialisti del settore sulle riviste scientifiche più autorevoli, come Science e Nature
Biotechnology, nonché altre riviste specializzate nel campo biotecnologico
e medico. I progressi e successi del sistema sanitario cubano (Salud Publica)
sono stati analizzati in un autorevole rapporto dell’OMS del 2015 che ho già
citato (nota 3).
Con Rosella
Franconi facciamo spesso un confronto con le scelte del nostro paese, che con
l’avvento della crisi del 2007-2008 ha falcidiato le risorse per l’istruzione,
l’università, la ricerca, e la sanità, precludendosi così i mezzi per superare
la crisi e per un vero rilancio del paese: e le conseguenze sono emerse
drammaticamente con lo scoppio della pandemia!
* * *
A questo
punto ritengo opportuna un’altra digressione, su questioni indubbiamente più
spinose e che possono senz’altro risultare controverse, ma tanto più meritevoli
di considerazioni che escano dai cliché ricorrenti.
All’inizio
menzionavo le critiche che, anche dall’estrema sinistra italiana, si muovevano
pregiudizialmente al sistema politico e sociale di Cuba, fra queste il suo
sistema politico “non democratico” e il mancato rispetto dei “diritti umani”.
Bene, nel
corso della mia lunga esperienza diretta mi sono fermamente convinto che Fidel
ha fatto la scelta giusta a non ammettere la formazione di altri partiti
politici! È quello che ha permesso alla Rivoluzione cubana di sopravvivere per
oltre 60 anni, ed io mi auguro ancora per altrettanti e più (ovviamente senza
il bloqueo e migliorando su tutti gli standard politici e
sociali). Come non vedere che ovunque i partiti politici sono veicoli di
penetrazione economica, manipolazione politica e pesanti interferenze negli
affari interni degli Stati che poco o nulla hanno a che fare con la
“democrazia”? E i cubani che vantaggio avrebbero avuto con la possibilità di
scegliere altri partiti, se avesse perduto le conquiste di cui sto parlando,
per esempio con privatizzazioni della sanità o dell’industria biofarmaceutica?!
Forse le “rivoluzioni arancini” hanno portato “democrazia”? Per non parlare
degli interventi militari per eliminare i “dittatori”. Del resto se un governo
come quello del Venezuela ha indetto ben 19 elezioni, vincendone 18, e viene da
molte parti denunciato come una dittatura, è evidente come il concetto usuale
di “democrazia”, con l’implicazione “multipartitica”, non costituisca di per se
un parametro valido.
D’altra
parte in Italia andiamo a votare senza reali possibilità di scelta candidati
designati dalla classe politica, senza nessuna possibilità di scelta[13] (per
non parlare degli Stati Uniti, dove l’affluenza alle urne è particolarmente
bassa, non basta avere il diritto di voto per votare ma bisogna registrarsi; un
presidente viene eletto con meno del 30% dei consensi degli aventi diritto,
Trump fu eletto con 3 milioni voti meno di Hillary!). Non esiste un solo
modello di “democrazia”, forse dopo l’antica Atene non ce n’è più stata una
vera: questo modello deriva sostanzialmente dalle “democrazie europee”
post-illuministiche, le quali mi sembra diano sempre più segni di logoramento.
Tanto più mi sembra inadeguata la ricetta di esportarla a situazioni storiche e
sociali completamente diverse, soprattutto post-coloniali: dopo lo sfruttamento
e le devastazioni selvaggi, gli ecocidi, pretendiamo anche di imporre la nostra
cultura e i nostri modelli, tutti gli intellettuali e i politici (anche i
dittatori) li abbiamo formati in Europa.
È vero che
nessuno ha trovato un termine migliore di “democrazia” (multi-partitica), ma
forse sarebbe un esercizio necessario cercare modelli e parametri diversi. A
Cuba c’è un sistema politico diverso, esso pure lontano dall’essere perfetto,
ma che ha prodotto risultati sociali (come istruzione e sanità gratuite e
universali) che non solo i regimi totalitari hanno impedito, ma neanche le
nostre “democrazie” hanno realizzato: altrimenti il regime sarebbe crollato
dopo il 1990, come in tutti gli altri Paesi “Comunisti”, nei quali era viva la
rivendicazione di più “democrazia”, multi-partitica.
Del resto la
nostra “democrazia” ci ha ha regalato gli attentati terroristici, le sanguinose
stragi da Piazza Fontana (con complicità della NATO!), i vari tentativi di
colpi di stato (quello del 1964 ideato dal gen. De Lorenzo, niente meno che con
la complicità del capo dello stato Antonio Segni), le trame nere, e così via[14].
Noi siamo stati i servi più ossequenti al volere degli Stati Uniti (che in nome
della “democrazia” non hanno mai consentito l’avvento al governo della
sinistra, fin quando è stata tale), a Cuba furono loro, la CIA, a organizzare
nel 1961 la fallimentare invasione della Baia dei Porci[15],
in nome appunto della … “democrazia”! Basti pensare che se l’invasione avesse
avuto successo il popolo cubano non avrebbe fatto le conquiste che stiamo
discutendo, sarebbe probabilmente ancora al livello di Porto Rico: a qualcosa
senza dubbio ha rinunciato, ma il saldo mi sembra largamente positivo! Insisto
di nuovo che le conquiste di Cuba in campo medico e scientifico non si
sarebbero potute realizzare senza una coesione di tutta la comunità scientifica
e intellettuale e il consenso della popolazione: se non vogliamo riconoscere
anche questa una “forma di democrazia” è una questione terminologica.
Sarebbe
disonesto negare che a Cuba ci sono certo stati momenti gravi di tensione
sociale e di tumulti, di solito in momenti di crisi economiche. Nel 1980 ci fu
l’«esodo di Mariel», a seguito dell’irruzione nell’ambasciata del Perù di
qualche centinaio di cubani che chiedevano asilo politico: l’organizzazione
anticastrista “los Hermanos del rescate”, protagonista di vari attentati
terroristici ai danni di Cuba, cavalcò la protesta, chiedendo l’espatrio
immediato dei cubani rivoltosi; Fidel consentì ai suoi cittadini che volessero
espatriare di imbarcarsi dal porto di Mariel, dando luogo un flusso di oltre
120.000 cubani diretti verso Key West, in Florida[16].
Un secondo momento fu proprio nella fase più dura del Periodo Especial,
quando nel 1994 esplose l’esodo della crisis de los balseros (fuggiaschi
su imbarcazioni di fortuna), che il presidente Clinton aveva ordinato di
raccogliere e portare nella base di Guantanamo. Sembrava il momento ideale per
inscenare qualcosa che non era mai avvenuto, una manifestazione di piazza
contro il governo: un gruppo di manifestanti assaltò un hotel sul Malecón (il
lungomare dell’Avana) distruggendo le vetrine. La voce si diffuse ma,
contrariamente a quanto si aspettavano i manifestanti, gruppi di lavoratori si
organizzarono per fronteggiarli, e Fidel in persona scese in strada con la sua
guardia del corpo, alla quale aveva ingiunto di lasciare le armi, e avvenne
l’inverosimile: appena si resero conto che Fidel era alla testa di chi li
contrastava, i manifestanti cambiarono atteggiamento e al grido “Fidel, Fidel”
deposero mazze e bastoni. “C’è chi non ci crede, ma molti lo hanno visto”[17].
Per inciso, non voglio negare nemmeno che fra molti cubani vi siano pregiudizi
verso la popolazione di colore, ma quel che è innegabile è che questa non è
stata discriminata dal sistema sociale, anzi l’assoluta uguaglianza vige per
tutti i diritti e i servizi sociali, mentre ad esempio negli Stati Uniti il
razzismo rimane un pilastro costitutivo del paese (per non parlare
dell’apartheid etnica e confessionale di Israele, che Moni Ovadia denota con
l’ossimoro “democrazia coloniale”). Un’incisiva intervista fresca di stampa sul
razzismo allo studioso cubano Valdés García afferma efficemente[18] «la
Rivoluzione del ’59 ha concesso a tutti legalmente le stesse condizioni e
opportunità. Anche se bisogna stare attenti perché le idee e i giudizi razzisti
possono essere latenti nelle società che provengono della schiavitù. … Ci sono
ancora forme velate di razzismo dovute a secoli di schiavismo ed esclusione,
all’eredità di un processo di destrutturazione, di possesso materiale.»
A mio avviso
adottiamo troppi stereotipi che spesso impediscono di vedere la (le) realtà:
per lo stereotipo dei commenti comuni su Cuba, i problemi che incontra l’isola
sono conseguenze della “dittatura” cubana, mentre quelli che nascono in altri
paesi sono “difetti di democrazia”.
Ma c’è una
situazione molto recente in cui la peculiarità di Cuba rispetto a tutti i paesi
del continente latinoamericano è emersa in modo eclatante, anche se la grande
stampa sempre pronta a denunciare la “dittatura” cubana si è ben guardata dal
rilevarla: negli ultimi anni il continente latinoamericano è scosso da radicali
movimenti popolari di protesta, repressi con estrema violenza, ma … Cuba è la
sola eccezione! La popolazione cubana certo non se la passa bene perché
l’inasprimento selvaggio da parte di Trump del feroce bloqueo per
strangolare il Paese provoca pesanti problemi di forniture di carburante e di
generi alimentari e di prima necessità, eppure a Cuba non vi è l’ombra di
proteste popolari. Nemmeno la debole opposizione ha approfittato della
situazione per rialzare la testa. Puro controllo esercitato dal regime? Questo
ha probabilmente un peso, ma è difficile negare che in Cile, Brasile o altri
Paesi agisca una repressione violenta e selvaggia. Chi visita Cuba vede con i
propri occhi le cubane e i cubani muoversi e agire con la massima libertà.
Un secondo
problema spesso agitato a proposito della “dittatura” cubana è quello dei
“diritti umani” calpestati. Mi limito solo a ricordare che nel 2010 sollevò un
clamore internazionale lo sciopero della fame del dissidente Guillermo Fariñas,
e qualcuno sentenziò che “potrebbe forse
essere [ancora una volta] uno degli ultimi chiodi sulla bara del decrepito
regime dell’Avana”. E Fariñas, invitato di recente a Bruxelles, è stato invece
trattenuto all’Avana, fatto ovviamente subito deplorato dal Parlamento europeo
che ne ha chiesto il rilascio. Peccato che nelle carceri italiane si suicidino una
sessantina di detenuti ogni anno senza che venga data notizia alcuna al
pubblico! I “diritti umani” nelle nostre carceri non valgono. E nelle carceri
dei “democratici” Stati Uniti? Senza andare tanto lontano, il 12 giugno sono
state date due notizie, 57 agenti penitenziari del carcere di Santa Maria Capua
Vetere indagati per pestaggi e tortura ai detenuti che il 5 aprile 2020
protestavano per il sovraffollamento con l’arrivo del Covid-19; e botte da orbi
della polizia agli operai rei di … essere stati licenziati. Quanto poi a “prigionieri
politici”, il caso più recente ed eclatante è quello della pericolosa
settantatreenne NO-Tav Nicoletta Dosio.
Tornando a
Cuba, a me piace citare spesso lo scritto di Lia de Feo già menzionato nella
nota 6, la quale conclude il suo “Omaggio a Fidel” con questa considerazione:
«… E alla
fine, è questo: [i cubani] li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li
rispetto. E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di
vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare
trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a
ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in
cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di
vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile),
con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le
treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano.
Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. … Perché è una questione di
prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba.
Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole
essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.»
Conosco
personalmente molti cubani che sono venuti a vivere e lavorare in Italia e in
Spagna: ma dopo la crisi del 2008 ne ho visti con i miei occhi parecchi
rientrare definitivamente a Cuba.
* * *
Il successo
di Cuba in campo medico merita di essere commentato anche per alcuni aspetti
che caratterizzano l’impegno internazionale del paese.
Cuba vanta
il più elevato rapporto al mondo tra medici e popolazione (anche quando si
escludono i medici in missione all’estero), 9 medici ogni 1.000 abitanti[19]:
l’Italia ne conta poco più di un terzo, 3,8 medici per 1.000 abitanti, dei
quali il 52% ha più di 55 anni, ed è fanalino di coda fra i paesi Ocse per
numero di infermieri per abitante (Dati OCSE 2019/2, Quotidiano Sanità, 9 luglio 2019).
Questo ha
portato Cuba, per scelta precisa, ad avere un numero eccezionalmente alto di
personale medico che è in servizio all’estero (nel 2006 vi erano 26.664 unità
impegnate in 69 paesi), sostenendo o sviluppando progetti sanitari in 21 paesi
in America Latina, Caraibi, Africa[20] ed
Asia. Fra i principali vi è l’accordo bilaterale con il Venezuela “petrolio per
medici”, la Operación Milagro, un programma umanitario iniziato nel
2004 con l’impulso dei governi di Cuba e del Venezuela, nel progetto dell’unità
tra i popoli dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ALBA). Cuba sta
trattando più di 200.000 pazienti in 21 paesi del continente. I medici cubani
portano i servizi medici in regioni nelle quali la popolazione non aveva mai
visto un medico prima, nelle quali i medici locali di estrazione borghese non
sono disposti ad andare (le associazioni mediche e i singoli medici non mancano
di criticare la presenza dei medici cubani, anche per il loro diverso modo di
lavorare e trattare i pazienti). Ma vi è anche un accordo con il Giappone di
chirurgia e trattamento oculare di cittadini giapponesi all’Avana nel Centro
de Retinosis Pigmentaria. Mentre il Sudafrica dopo la fine del regime di
apartheid ha sofferto un’emorragia di medici e dal 1996 ha cominciato ad
importare medici cubani.
Nei casi di
disastri ambientali o terremoti in vari paesi Cuba invia brigate mediche
esperte nel lavorare in queste condizioni. Per far fronte a questo tipo di
disastri, nei primi anni del Duemila, è stata creata la Brigata Henry Reeve
(dal nome di uno statunitense che combatté nell’Ejercito Mambi nella
prima guerra d’indipendenza cubana, 1868-1878), Contingente Internazionale di
Medici Specializzati in Situazioni di Disastri e Gravi Epidemie. Si compone in
realtà da molte brigate, che hanno soccorso le popolazioni nei terribili
terremoti dal Pakistan, ad Haiti, dall’Angola al Cile. Fino all’epidemia di
Ebola in Africa dove la brigata medica cubana si è distinta per competenza e
specializzazione.
Ora con la
pandemia di Coronavirus Cuba ha attivato ben 25 brigate Henry Reeve in molti
paesi del mondo, fra cui appunto le due inviate in Italia. Con il paradosso che
spesso, per le difficili e sospettose relazioni che molti paesi del mondo
mantengono con Cuba, i paesi che richiedono l’aiuto della brigata non
riconoscono neanche il titolo di studio rilasciato dalle Università cubane! In
Brasile e perfino in Venezuela si sono registrate proteste indignate degli
Ordini dei Medici locali che ne contestavano l’esercizio della professione
fingendo di non sapere che, nelle zone e alle condizioni in cui lavoravano i
cubani, nessun medico laureato in Università private e costose, specializzato
spesso in università straniere sognava per la sua carriera un dispensario in un
villaggio della selva amazzonica o un consultorio nella savana venezuelana.
Ma la
diplomazia medica cubana non si limita agli interventi all’estero. Un’altra
iniziativa molto significativa è stata la creazione a Cuba nel 1999 della Escuela
Latino Americana de Medicina (ELAM). Essa fu creata per esplicita
volontà di Fidel Castro in risposta agli uragani George e Mitch, che nel 1998
colpirono duramente i paesi caraibici, mietendo migliaia di vittime, dopo che
Cuba aveva inviato brigate di personale medico nelle aree più colpite: lo scopo
fu di formare a Cuba personale medico di quei paesi. L’ELAM è stata descritta
come la scuola medica forse più grande del mondo come iscritti. Essa offre
insegnamento, alloggio e vitto gratuiti, ed ha iscritti migliaia di studenti da
122 paesi dell’America Latina e i Caraibi, l’Africa e l’Asia (la scuola accetta
anche studenti di minoranze degli Stati Uniti, e ne risultano iscritti alcune
decine). In cambio della borsa di studio e della copertura delle spese gli
studenti devono impegnarsi a ritornare nel proprio paese e a praticare la
medicina in comunità povere per almeno 5 anni.
* * *
I risultati
d’eccellenza ottenuti dalla biotecnologia e la farmacologia cubane sono stati
numerosi e notevoli, e riconosciuti internazionalmente. Nel 2013 l’industria
biotecnologica cubana, riorganizzata intorno a BioCubaFarma (impresa
statale di alta tecnologia, formata da 32 imprese con 65 Unità imprenditrici di
base e 80 linee di produzione), deteneva circa 1.200 brevetti internazionali e
vendeva vaccini e prodotti farmaceutici in più di 50 paesi. Per essere
concreto, senza entrare in troppi dettagli tecnici, ricorderò sinteticamente i
principali e più originali[21]: CimaVax-EGF,
un vaccino terapeutico per il cancro del polmone sviluppato dal CIM, gli studi
clinici sono in corso in Canada, nel Regno Unito, Malesia, Cina e USA;
anticorpi monoclonali umanizzati come Racotumomab e Theraloc
(nimotuzumab), capaci di ridurre le dimensioni dei tumori e migliorare
l’aspettativa di vita dei pazienti; Heberprot-P, un farmaco
biologico sviluppato e prodotto dal CGIB utilizzato per trattare l’ulcera del
piede diabetico; un vaccino terapeutico contro l’epatite-B, attualmente in fase
di sperimentazione in Asia in collaborazione con Abivax, una società francese;
nuovi vaccini preventivi anti-colera, anti-pneumococco, anti-meningite-B;
cosmetici e farmaci derivanti da placenta umana, quali Melagenina Plus
Coriodermina per il trattamento malattie auto-immunitarie (es.
vitiligine, psoriasi e alopecia) sviluppati dal Centro de Histoterapia
Placentaria; il Vidatox 30CH, trattamento naturale derivato dal
veleno dello scorpione blu endemico di Cuba (Rhopalurus junceus)
con un provato effetto antinfiammatorio, analgesico ed antitumorale nei
pazienti affetti da cancro, diventato famoso qualche anno fa anche in Italia.
Nel 2019,
BioCubaFarma commercializzava circa 300 prodotti in 43 paesi, e ha fornito al
sistema nazionale di salute cubano 887 prodotti, dei quali 357 sono specialità
medicinali innovative. BioCubaFarma impiega circa 20.000 lavoratori, di cui
17.000 professionisti, tecnici e operatori, oltre a 1.265 Master e 278 Dottori
in Scienze.
* * *
È il momento
di venire a come Cuba ha affrontato la pandemia di Covid-2019: lo farò
brevemente perché questo aspetto è già stato trattato in dettaglio da Rosella
Franconi e da me[22].
Si deve
subito sottolineare che ci sono certo stati altri paesi che sono riusciti a
bloccare la diffusione del virus sul nascere, ma la condizione di Cuba è
assolutamente peculiare per l’intenzionale inasprimento del bloqueo,
che ostruisce brutalmente l’accesso di Cuba a tecnologie, equipaggiamento, risorse
finanziarie, forniture sanitarie: l’embargo è particolarmente criminale in
tempi di pandemia come l’attuale, al punto che esperti delle Nazioni Unite per
i diritti umani hanno lanciato un appello per chiedere agli Stati Uniti di
revocare l’embargo.
Appena vi fu
la notizia dell’epidemia in Cina e dell’isolamento di un nuovo coronavirus, già
nel gennaio 2020 venne preparato un piano di controllo e prevenzione che
includeva l’addestramento dello staff medico, la preparazione di strutture
mediche e di quarantena e la diffusione al pubblico delle informazioni
necessarie su sintomi e precauzioni da prendere. Non appena furono confermati i
primi tre casi di Covid-19 a Cuba (11 marzo), sono iniziati i lavori per
tracciare e isolare i contagiati. Sono stati mobilitati gli studenti di
medicina per effettuare visite porta a porta per verificare le condizioni delle
persone più deboli e controllare i sintomi[23],
per poi segnalarli alle autorità sanitarie per gli opportuni accertamenti e le
eventuali misure di isolamento e tracciamento dei contatti. Venne predisposto
un programma di test molecolari: Cuba ha tre laboratori abilitati per eseguire
i test per il virus, a cui si sono poi aggiunti nuovi laboratori presso altri
ospedali o istituzioni. Il 21 marzo, con 21 casi confermati, il governo fermò
l’arrivo di turisti, stabilì il lockdown per i soggetti
vulnerabili; poi il trasporto pubblico fu sospeso, e per il trasporto di
pazienti e lavoratori essenziali furono affittati autisti e veicoli privati.
Ma
soprattutto Cuba aveva un punto di forza assolutamente peculiare: il grande
complesso dei centri di ricerca e delle imprese di biotecnologia e
farmaceutiche, strettamente collegato con il sistema sanitario nazionale, è
stato mobilitato in modo compatto e coordinato per sviluppare farmaci per
combattere il nuovo coronavirus: non sfuggirà a nessuno l’abissale differenza
con i sistemi dei nostri paesi, dove i centri e le industrie più avanzati
guidati da interessi privati si fanno una spietata concorrenza nella corsa per
arrivare primi e prevalere sugli altri. Ho descritto come l’“Heberon”, l’interferone-alfa-2b ricombinante,
sia derivato dallo sviluppo dell’interferone nei primi anni ‘80, ed ora è uno
dei farmaci che si stanno sperimentando contro la COVID-19. Ma contro la
COVID-19 non c’è solo l’Heberon: BioCubaFarma al momento è impegnata in 15
progetti per prevenire e controllare la COVID-19 (per dettagli rinvio al lavoro
della nota 20).
Ma non ci
sono solo i prodotti farmacologici, il Centro de Inmunoensayo (CIE)
ha sviluppato un nuovo kit diagnostico per COVID-19 per la ricerca degli
anticorpi sviluppati contro il virus in campioni di siero o plasma (metodo
ELISA, Enzyme-Linked Immuno Sorbent Assay), che Cuba ha modificato
per eseguirla con volumi molto piccoli di reagenti e campioni (Sistema Ultra
Micro Analitico, SUMA): in tutto il paese ci sono 232 laboratori con
tecnologia SUMA, perciò Cuba può contare anche su test diagnostici propri. La
sovranità tecnologica è un aspetto essenziale per garantire la salute contro
l’intensificazione del blocco degli Stati Uniti: di fatto, diciassette dei
principali prodotti utilizzati nel trattamento contro la pandemia COVID-19 si
producono a Cuba e il sistema biotecnologico cubano può fare affidamento su
grandi capacità di produzione e sistemi di gestione di qualità, affidabili e
sicuri.
* * *
Cuba è
riuscita in qualche modo sia ad aprirsi alle forze di mercato, sia a porsi come
paese leader dell’opposizione al neoliberismo. Quanto a Fidel Castro mi piace
la definizione di Gianni Minà, il solo rivoluzionario che ha vinto una
rivoluzione e non l’ha persa.
Cuba
affronta indubbiamente oggi una nuova sfida, sotto il brutale attacco degli
Stati Uniti, che colpisce tutti gli alleati e i sostegni che il paese aveva
trovato in America Latina.
Ma appena un
anno fa ha dato una prova concreta di vitalità politica, sociale e
partecipativa, con il processo di elaborazione di una nuova Costituzione. Il
testo era stato predisposto da una commissione speciale nel luglio 2018, e
approvato dall’Assemblea Nazionale del Poder Popular, il Parlamento unicamerale
cubano: questo testo è poi stato sottoposto alla discussione in migliaia di
assemblee e riunioni nei luoghi di lavoro, nei quartieri, le quali hanno
prodotto una valanga di proposte di modifica (quel processo, tanto per dire,
che il presidente Piñera del multipartitico, ma dubbiamente democratico, Cile
non concede). Il 24 febbraio 2019 un referendum popolare ha approvato il nuovo
testo. La nuova Costituzione – oltre a riconoscere ufficialmente il ruolo della
proprietà privata, regolamentata, ma già operante da quasi 20 anni per la
pressione del Período Especial – è estremamente avanzata su
tutti i temi sociali, i diritti delle donne e delle componenti Lgbtq, ma anche
i rispettivi doveri delle istituzioni.
Quest’ultimo
punto mi da l’appiglio per concludere con un’osservazione finale sulle libertà
a Cuba. Sul tema del “matrimonio egualitario” si era scatenata la protesta
delle Chiese evangeliche presenti nell’isola; la formulazione finale frutto di
accanite discussioni è l’Art. 81: «Ogni persona ha diritto a formare una
famiglia; lo Stato riconosce e protegge le famiglie, qualunque sia la loro
forma di organizzazione …». Ma il punto con il quale vorrei concludere è la
presenza di queste Chiese evangeliche (che dilagano in tutto il continente) e
la loro possibilità di praticare il culto e di esprimersi: anzi, da vari mesi
alcune chiese fondamentaliste ripetono lo slogan “Cuba per Cristo” nei loro
templi, in strada o nelle reti sociali: la frase definisce un obiettivo che non
è nuovo ma che ha preso forza proprio da quando il movimento fondamentalista cristiano
nel paese, guidato da varie denominazioni come la Chiesa Metodista e la Lega
Evangelica, ha iniziato la sua offensiva contro il riconoscimento dei diritti
delle persone Lgbtiq+ nella nuova Costituzione[24].
Ma Cuba non
era una “prigione a cielo aperto”?
Appendice
L’eredità
inquieta della negritudine: intervista a Parla Felíx Valdés García, ricercatore
dell’Istituto di filosofia dell’Avana. L’opera di Aimé Césaire e Frantz Fanon,
l’eredità politica della rivoluzione di Haiti e di José Martí. «Dopo il caso
Floyd ci si deve augurare che crescano non solo le mobilitazioni, ma anche lo
studio epistemologico, cercando nella conoscenza e nella cultura gli strumenti
di lotta»
Mentre
Donald Trump si arrocca dietro all’ennesimo muro costruito a protezione della
sua incapacità politica, la brutale violenza razzista negli Usa continua a
lasciar segni indelebili nei settori più emarginati. Le discriminazioni
razziali trovano parte del proprio consenso in un’epistemologia di carattere eurocentrico
e coloniale. In molti saranno stati obbligati ad imparare a scuola i nomi delle
caravelle o la biografia di Cristoforo Colombo, senza capir nulla del genocidio
e dello sfruttamento sistematico che ha dato vita alla società moderna, da cui
prende piede lo squilibrio sociale che ancora viviamo e soffriamo. E anche nei
libri scolastici di alcuni Paesi dell’America Latina, si trasmette la
conoscenza in forma eurocentrica, narrata mediante la falsa voce dei
colonizzatori: una giustificazione silenziosa del razzismo, un consenso occulto
alla sua ideologia. Non è un caso che tra le statue a cadere nelle proteste
degli Stati Uniti ci sia stata proprio quella di Colombo.
Felix Valdés
García, attivista e studioso dei movimenti antirazzisti nei Caraibi, ricercatore
dell’Instituto de Filosofía dell’Avana, invita a riflettere sugli elementi
cruciali di un’epistemologia coloniale, eurocentrica che, negando o distorcendo
le identità culturali delle popolazioni emarginate banalizza secoli di
sfruttamento, schiavitù e violenza finendo col giustificare culturalmente il
razzismo. «Nelle isole dei Caraibi – spiega lo studioso – a soli trent’anni
dallo sbarco (di Colombo), si è verificata una catastrofe demografica che ha
sterminato la popolazione Arahuacan a causa del vaiolo, delle malattie veneree,
dello sfruttamento del lavoro, dell’abbandono forzato delle precedenti
condizioni di vita comunitaria, ma anche per i numerosi casi di suicidio e in
conseguenza della violenta reazione alla cimarronaje, la resistenza
al sistema coloniale. A causa di tutto ciò, perì tra l’80 o il 90 per cento dei
nativi».
EPPURE IN
ALCUNI LIBRI di
storia si leggono ancora descrizioni folkloristiche e caricaturali dei
colonizzati e addirittura esaltate agiografie dei colonizzatori. La pagina drammatica
del genocidio di popolazioni inermi viene «digerita» con la definizione di
«Conquista delle Americhe». Al riguardo, ricorda Valdés García, «non so quanto
sia conosciuto qui a Cuba l’atto di disobbedienza civile compiuto da Bartolomé
Las Casas. Il suo fu un gesto di insubordinazione, di critica radicale
all’impostazione coloniale e razzista della conquista, contro il massacro dei
popoli Taino delle isole di Hispaniola e Cuba. Rinunciando pubblicamente al suo
dipartimento di “indios” – in base al sistema dell’encomienda la
popolazione nativa di uno o più villaggi era affidata a un colono
spagnolo, ndr – mise fine alla complicità con la conquista,
riconoscendo di aver assistito ad atti di estrema violenza, incendi,
assassinii. Il suo gesto ci dice che il potere e l’interesse dominano mediante
la falsa idea di “razza” che è il più efficace strumento di violenza e
classificazione sociale inventato negli ultimi 500 anni».
«Ma –
aggiunge Valdés García – c’è una storia dietro questa classificazione, ed è che
una volta giunti i colonizzatori, le popolazioni locali hanno smesso di essere
se stesse per diventare “indios”. Una volta saliti sulla nave, uomini e donne,
hanno smesso di essere qualcuno per diventare “negri”. Non provenivano più da
un luogo, da una comunità, da una cultura, ma erano ridotti a un’astrazione che
sussiste fino ad oggi».
QUESTO VUOL
DIRE che lo
stereotipo in sé è utile al processo di assoggettamento e sfruttamento
economico e del lavoro ed andrebbe compreso il nesso tra il sistema di produzione
e le relazioni sociali e culturali. In Europa si utilizza difficilmente
l’espressione «negro», a riprova di una nebbia fitta di ipocrisia che offusca
un processo storico, un’epistemologia – quella della «negritudine» –
caratterizzata da colonizzazione, schiavitù ma anche emancipazione culturale.
Un modo per occultare i meccanismi politici e culturali dei conflitti sociali.
«Diversi
intellettuali e attivisti – sottolinea il ricercatore cubano – ci hanno
permesso di conoscere e comprendere il concetto di negritudine, come quelli di
indigenismo, transculturazione, alienazione per il colore della pelle, mimesi
del colonizzato, creolizzazione, razzismo epistemico. Pensiamo a Fernando
Ortiz, Nicolás Guillén, C.L.R. James, Aimé Césaire, Frantz Fanon, Walter Rodney,
Sylvia Winter, Michel Rolph-Trouillot. Oltre a rendere visibile l’invisibile,
il concetto di negritudine distingue un’altra realtà, quella che viene lasciata
ai margini, non vista dalle verità e dagli assiomi imposti dal dominio
egemonico. La questione è scomoda perché porta a rotture epistemiche che dalla
denuncia del fatto in sé (come il caso di George Floyd), passano alla teoria
politica, alla filosofia, alla riscrittura della storia in senso critico. Un
intellettuale haitiano, Antenor Firmin, afferma che non dovrebbero esserci
disuguaglianze tra le razze umane, semplicemente perché esse non esistono.
Anche José Martí affermava che non ci sono razze, che si tratta di
un’invenzione funzionale all’assoggettamento».
PROPRIO IL
GRANDE PENSATORE e
rivoluzionario cubano in Nuestra América si batteva per una
società aperta, accogliente, indipendente, multiculturale mediante
un’educazione popolare che includesse tutte le classi sociali e costruisse la
sua epistemologia a partire dai più emarginati, i colonizzati. «José Martí –
aggiunge Valdés García – conosceva bene l’orrore della schiavitù a Cuba. Da
bambino tremava davanti a uno schiavo morto, appeso a un albero tra le
montagne, e giurò di lavare questo crimine con la sua vita. Gli era chiaro che
sarebbe stata l’indipendenza dell’isola a portare gli schiavi fuori
dall’invisibilità. Poi la Rivoluzione del ’59, erede del suo pensiero, ha
concesso a tutti legalmente le stesse condizioni e opportunità. Anche se
bisogna stare attenti perché le idee e i giudizi razzisti possono essere
latenti nelle società che provengono della schiavitù: Martí stesso riconosceva
che ciò che viene risolto dalle leggi può restare nelle coscienze».
ANCORA UNA
VOLTA emerge
la questione culturale: l’educazione, la scuola, l’università sono strumenti
indispensabili perché raggiungono le coscienze, senza cui le leggi stesse non
hanno senso. «Proprio per questo il Che nel 1960, dopo aver ricevuto l’honoris
causa dalla Facoltà di Pedagogia dell’Ateneo Central de las Villas di
Santa Clara, difendeva l’idea di un’università che si dipingesse di nero,
mulatto, che fosse popolata da operai e contadini».
Un annuncio
che non è chiaro se si sia tradotto o meno in realtà, se Cuba sia
effettivamente libera dal razzismo. «In parte. – replica Felix Valdés García –
Ci sono ancora forme velate di razzismo dovute a secoli di schiavismo ed
esclusione, all’eredità di un processo di destrutturazione, di possesso
materiale. Molti discendenti degli schiavi continuano a vivere nelle periferie
e a fare i lavori più umili. Devo dire che si menziona poco il successo
paradigmatico della rivoluzione haitiana e l’azione e il pensiero di Tussaint
de Louverture, che hanno posto fine al regime di schiavitù negra e al sistema
coloniale francese, costituendo la prima Repubblica indipendente dell’America
Latina. La costituzione che fu promulgata nel 1801 è stato il primo grande
testo anticoloniale, antischiavista e emancipatore scritto da soggetti fino a
quel momento soggiogati e ridotti in schiavitù. Eppure si tratta di una vicenda
che nella storia ufficiale è spesso ignorata».
ANCHE I CASI
DI VIOLENZA razzista
a cui stiamo assistendo negli Usa ci dicono che c’è ancora molto cammino da
fare e non solo a livello politico. Come suggerisce Valdés García. «George
Floyd è stato soffocato perché era negro. Una banconota da 20 dollari, che si
sospettava falsa, è stato il pretesto per la sua morte. Come ha detto suo
fratello, la vita di un negro vale meno di tale somma irrisoria. È orribile che
sia accaduto nel XXI secolo e in un Paese leader per lo sviluppo economico e
tecnologico ma così povero se si guarda a quante coscienze sono preda di
convinzioni inammissibili. Non ci si deve augurare soltanto che la denuncia e
le mobilitazioni contro i crimini razziali si estendano e trovino ancora
maggiore sostegno, ma che si approfondisca lo studio e si moltiplichino i
dibattiti sul tema dal punto di vista epistemologico, cercando nella conoscenza
e nella cultura gli strumenti politici di lotta al razzismo che vadano oltre
ogni forma di banalizzazione e silenziamento, spesso perpetuati in base a una
concezione coloniale della storia e del pensiero».
NOTE
[1] . In una nutrita collana di libri su Dittature e
Totalitarismi nella storia di appena un anno fa il quinto era dedicato
a Fidel Castro.
[2] . Dino Messina, “Breve storia delle brigate mediche cubane”,
Blog Corriere della Sera, 27 marzo 2020, .
[3] . A. Baracca e R. Franconi, Subalternity vs.
Hegemony, Cuba’s Outstanding Achievements in Science and Biotechnology,
1959-2014 , 2016, Berlino, Springer.
[4] . Fidel Castro, “El Futuro de nuestra Patria tiene que ser
necesariamente un Futuro de Hombres de Ciencia”, 1960, L’Avana, http://www.granma.cu/granmad/secciones/fidel_en_1959/fidel_en_1960/art-001.html.
[5] . OMS, “Cuban experience with local production of medicines,
technology transfer and improving access to health”, Report dell’Organizzazione
Mondiale della Salute (WHO), con l’Organizzazione Pan Americana della Salute (Pan
American Health Organization) e la Commissione Europea, 2015, v. pp.
3, 8,
[6] . Lia De Feo, “Omaggio a Fidel” (da Haramlik, il blog di Lia, ), Contropiano,
giornale comunista online, 27 novembre 2016, (ultimo accesso 23 novembre 2018).
[7] . Il libro citato nella nota 3, pubblicato in italiano in versione
molto rimaneggiata e ampliata del 2019: A. Baracca e R. Franconi, Cuba:
Medicina, Scienza e Rivoluzione, 1959-2014. Perché il servizio sanitario e la
scienza sono all’avanguardia, Zambon, 2019 (2a edizione
aggiornata gennaio 2020).
[8] . La prima industria biotecnologica al mondo fu la Genentech, fondata
a San Francisco nel 1976, seguita dalla AMGen a Los Angeles nel 1980.
[9] . Da qui è derivato l’“Heberon”, l’interferone-alfa-2b ricombinante,
sviluppato dal Centro de Ingeniería Genética y Biotecnología (CIGB),
che è uno dei farmaci che si stanno sperimentando contro la COVID-19.
[10] Scriveva sull’autorevole rivista Lancet, certo non
sospetta di simpatie per Cuba, A. F. Kirkpatrick, “Role of the USA in the
shortage of food and medicine in Cuba”, The Lancet, 1996, 348:
1489-91.
[12] . Per capire l’enorme sforzo di Cuba in quegli anni, ed anche le
caratteristiche di Fidel Castro come persona, raccomando la recente bellissima
intervista di Cristina Re a José Luis Rodríguez, uno strettissimo collaboratore
di Fidel e Ministro dell’Economia di Cuba durante gli anni difficili del
Período Especial: “Cuba: abbiamo dimostrato che si è potuto, si può e si
potrà”, Coniare Rivolta, 26 aprile 2020,
[13] . Ricordo un gustoso passo di Giorgio Gaber “La democrazia”, dall’album “Un’Idiozia
Conquistata a Fatica”: «… dal 1945, dopo il famoso ventennio, il popolo
italiano ha acquistato finalmente il diritto al voto. È nata così la famosa
democrazia rappresentativa, che dopo alcune geniali modifiche, fa si che tu
deleghi un partito, che sceglie una coalizione, che sceglie un candidato, che
tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se
lo incontri, ti dice giustamente: “Lei non sa chi sono io”. Questo è il potere
del popolo….», .
[14] . Esiste una marea di libri e ricerche in proposito, colgo
l’occasione per citare il volume appena uscito dello storico siciliano Mario J.
Cereghino con Giovanni Fasanella, Le Menti del Doppio Stato: dagli
Archivi Angloamericani e del Servizio Segreto del PCI il Perché degli Anni di
Piombo, Milano, Chiarelettere, 2 luglio 2020: “La “strategia della
tensione” nasce come modello eversivo nel quadriennio 1944-1948 ed è teorizzata
e allestita da Servizi segreti stranieri e organizzazioni transnazionali
occulte, attraverso la creazione di reti per la guerra clandestina nelle quali
furono arruolati grandi gruppi industriali, mafia, massoneria e squadroni della
morte capaci di assoldare manovalanza di ogni genere.“
[15] . L’invasione della Baia dei Porci è stata la prima di numerose azioni
terroristiche esterne di cui Cuba è stata vittima.
[16] . L’esodo di Mariel scompigliò le carte anche nella comunità
anticastrista originaria di Miami, con l’arrivo di esuli cubani meno benestanti
rispetto alla prima emigrazione: da un lato gli esuli cubani già integrati
radicalizzarono la loro opposizione al regime cubano, dall’altro molti figli di
cubani si sono rivoltati verso i loro genitori, adottando un atteggiamento più
comprensivo nei riguardi della Rivoluzione, e mostrando irritazione per
l’impossibilità di recarsi a Cuba.
[17] . L’episodio è raccontato dall’ispanista e saggista Alessandra Riccio, docente di Lingua e Letterature Ispanoamericane presso la Facoltà di
Lingue e Letterature Straniere dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli,
traduttrice di Alejo Carpentier e di Ernesto Guevara: L’Isola che c’è,
7 giugno 2020, .
[18] . Paolo Vittoria, “L’eredità inquieta della negritudine. Parla Felíx
Valdés García, ricercatore dell’Istituto di filosofia dell’Avana”, Il Manifesto, 8 luglio 2020, .
[19] .“Cuba cuenta con nueve médicos por mil habitantes”, 22 luglio 2019,
[20] . In una delle presentazioni del libro citato nella nota 3 era
presente un giovane che ha detto, “Io ho vissuto otto anni in Etiopia, gli
unici medici di cui gli etiopi si fidavano erano i medici cubani”.
[21] . Rimando al nostro libro citato nella nota 7, o in termini più
sintetici: “Cuba all’avanguardia nelle biotecnologie finalizzate ai nuovi
farmaci“, FarodiRoma,
3 marzo 2020, .
[22] . A. Baracca e R. Franconi, “Cuba alla sfida del COVID-19: un
‘miracolo’ travestito da normalità”, Pressenza,
22 maggio 2020, ; LEFT, 13 giugno 2020.
[23] . Può essere interessante notare che Cuba non è nuova al
coinvolgimento degli studenti in attività importanti: nei primi anni dopo il
trionfo della Rivoluzione, quando nelle università scarseggiava il personale
docente a causa anche della forte emigrazione di quanti non condividevano il
nuovo assetto, si attivarono gli alumnos ayudantes, cioè gli
allievi degli anni superiori impartivano lezioni a quelli degli anni
precedenti.
[24] . S. Hernánandez Martín e A. Laksimi, «”Cuba per Cristo” non è per il
bene di tutti», 5 dicembre 2019
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