Il fertile
dibattito sviluppatosi intorno a #BlackLivesMatter, a partire dall’assassinio
di George Floyd da parte di un poliziotto suprematista bianco con precedenti
specifici per razzismo, e poi slittato su questioni collaterali, quali (in
Italia) le vestigia del fascismo o una presunta egemonia del cosiddetto “politicamente
corretto”, tocca a mio avviso aspetti cardine del rapporto tra gli storici e le
fonti altre rispetto al documento tradizionale. Sento il bisogno di fare delle
considerazioni iniziali e infine soffermarmi su quello che per me è un caso di
scuola: l’American Museum of Natural History di New York, interessante ben
oltre la statua di Theodore Roosevelt che è stato deciso di rimuovere. Anticipo
un punto: non è il vecchio Teddy in discussione, è la statua a essere
impresentabile.
Anche
all’interno della SISSCO, la società scientifica degli storici
contemporaneisti, si discute, in particolare partendo da due interventi
dell’ex-presidente Raffaele Romanelli, trascesi sulla stampa nazionale.
Preferisco però riflettere sul nostro rapporto con le fonti per studiare il
passato più che sul documento dell’Harper’s Magazine, noto anche come #cancelculture, che con le più grandi firme egemonizza
da giorni il dibattito del mainstream, in meritoria difesa del free speech,
come faceva prima di George Floyd e continuerà a fare domani, in genere senza
contradittorio. Tale dibattito rischia di occultare il fatto che ci troviamo di
fronte a una inestimabile opportunità di riflettere sull’intenzionalità di
agenti di memoria e di storia quali l’architettura, i monumenti, la
toponomastica, la museografia, per tacere dell’universo audiovisuale, ben
rappresentato dal caso “Via col vento”, sul quale l’americanista Arnaldo Testi
ha ricordato cose a mio parere sostanziali. Non è da oggi, non è una moda, non
è dalla nostra sensibilità del XXI secolo che le “rappresentazioni
discriminatorie” siano considerate inaccettabili. In questo senso le richieste
di #BLM sono tutt’altro che presentiste, ma frutto di una riflessione e di una
militanza di lungo periodo, spesso sottovalutate, che metterebbero insieme
Frederick Douglass con Martin Luther King e i ragazzi di oggi, compresi i
neo-italiani privati di cittadinanza, sulla base di impostazioni e perfino di
piattaforme comuni. Infine, in qualunque contesto umano, ma in particolare in
quello discriminatorio è fondamentale ricordare che chi non è vittima di
discriminazione, anche se aperto e sensibile e probabilmente ha letto più
libri, visto più mondo e conosce la grammatica meglio di chi è discriminato, ha
comunque difficoltà a capire cosa duole, cosa faccia davvero male al
discriminato stesso.
La
professione di storico si sta modificando. Si è sempre modificata – come tutto
– ma negli ultimi decenni è andato mutando l’oggetto di attenzione degli
storici e lo stesso statuto epistemologico della disciplina. Eravamo la
“Scienza della Nazione”, ora siamo una scienza del passato che dialoga col
presente e con altri saperi. I nostri colleghi del passato avevano
probabilmente un atteggiamento più pacificato del nostro. La Storia, ancora
fino all’altro ieri, era innanzitutto incarnata dai “grandi uomini della
Nazione”. Tra archivio e monumento c’era una relazione diretta: se in una
piazza c’era un monumento equestre, allora doveva esserci un archivio che
parlava di quel cavaliere. Da tempo non è più così. Molti di noi si occupano
d’altro, di masse, genere, consumi, differenze, incontri più che di scontri,
diritti conquistati e diritti conculcati, temi transnazionali; soprattutto
molti di noi si occupano di soggettività non egemoni, che non lasciano tracce
né negli archivi né nella toponomastica. È proprio lo studio di tali
soggettività a riconsiderare criticamente la consacrazione che avviene
attraverso la monumentalità celebrativa, ovvero i
grandi uomini e/o il “popolo di eroi” identificato con le forze armate. Non è
un caso che, a tale monumentalità, se ne sia affiancata una commemorativa. Penso ovviamente ai muri della memoria (o alle pietre d’inciampo), con
la restituzione almeno del nome alle vittime; della Shoah, dei linciaggi negli
USA, del Piano Condor in America latina, della pulizia etnica a Srebrenica. A
volte dobbiamo prendere atto che i grandi uomini da celebrare siano gli stessi
che hanno lasciato anche lunghe liste di vittime da commemorare.
Tale
riformulazione, sulla quale nelle università credo si possa riflettere
tranquillamente, ha il grave difetto di non essere affatto condivisa (e forse
neanche compresa) da una società della comunicazione e un’opinione pubblica che
sembrano andare da tutt’altra parte, afferrandosi ai “grandi uomini” come unico
strumento di sintesi che paiono in grado di decodificare. Per stare all’Italia
unita, sembra non esserci altro che Benito Mussolini e poco più. La dinamica è
binaria, e non sai più se a discutere con te sia un essere umano o un troll
programmato dalla Bestia: “if Montanelli then Pasolini”, “if Marzabotto then
foibe”. Più la società chiede di tagliare con l’accetta, per santificare o
dannare senza mediazioni, è anche il caso di #BLM, più il ruolo degli storici
diviene interstiziale tra complessità e semplificazione. Siamo obbligati a
dialogare con entrambe, non foss’altro perché altrimenti la pubblicistica ci
renderebbe ancora più marginali.
Trovandoci
di fronte ad agenti di memoria diversi, elaborare una teoria generale è ben
difficile: gli edifici si usano e raccontano a volte più e più storie
sovrapposte, i monumenti celebrano e disegnano egemonie politiche e culturali,
i musei ieri conservavano e oggi insegnano.
Un edificio racconta proprio perché ha un valore
d’uso, che può cessare, modificarsi o divenire inadeguato. Un monumento, come la toponomastica, serve a celebrare, onorare, glorificare. Non sono
d’accordo che serva a “riflettere sul passato”, altrimenti molti di noi
avrebbero un bel busto di Mussolini in soggiorno. L’ambito pubblico che produce
monumenti esprime un “esprit du temps” che dobbiamo identificare, studiare e
preservare, ma anche l’iconoclastia è legittima
espressione di un altro spirito del tempo, a volte controegemonico, a volte
espressione di una nuova egemonia.
Vi fu uno
spirito del tempo che elevò statue a Saddam Hussein o a Francisco Franco e un
altro che le rimosse. Se una cosa non ho visto rimarcare nel dibattito è il
grande potere riparatorio dell’abbattimento dei simboli dei carnefici. Per le
vittime è enorme, taumaturgico, e può elaborare lutti e sanare ferite aperte da
decenni, se non intergenerazionali. Possiamo allora tenerci o rimuovere
Cristoforo Colombo, a patto di sapere che i motivi per i quali si celebra il
Columbus day sulla Quinta strada non abbiano alcuna attinenza né con quelli per
i quali lo celebrò Karol Wojtyla nel 1992 a Santo Domingo, né con quella
italianista dello spirito magno. E possiamo tenerlo e abbatterlo a patto di
sapere che vi siano infiniti argomenti e riflessioni anche nelle controcelebrazioni
e nelle richieste di rimozione perché queste possano essere liquidate come
violente o illiberali (Cfr. L. Ruberto, J. Sciorra, ‘Columbus might be dwarfed to obscurity’: Italian Americans’
Engagement with Columbus Monuments in a Time of Decolonization, Palgrave
2019).
Vado dunque
al mio punto: l’American Museum of Natural History di
New York. Per capirci è quello del dinosauro in biglietteria, affacciato su
Central Park West. Come detto, nel nostro presente, il museo ha modificato la sua funzione, per organizzare vestigia del passato per trasmetterne la conoscenza.
Per tanti nostri laureati è uno sbocco professionale possibile, anche nel
contesto della Public History. Concepito nei decenni a cavallo del 1900,
fondato nel ’69 e terminato nel ’36, ospita in centinaia di sale dalla storia
della paleontologia a quella delle esplorazioni spaziali. È visitato da cinque
milioni di persone l’anno e, per i bambini o adolescenti di mezzi Stati Uniti,
è un luogo emozionante, votato a svelare e toccare con mano i segreti del
mondo. Fin dall’uscio vi è il celebre monumento equestre a Theodore Roosevelt del quale le proteste di
#BlackLivesMatter hanno ottenuto la rimozione dopo decenni di polemiche:
Teodoro a cavallo, con l’elemento nativo e quello afrodiscendente in posizione
indiscutibilmente subalterna. Il monumento è purtroppo solo il preludio.
L’intero museo è, nel suo insieme, un inno alla supremazia dell’uomo bianco,
unico protagonista della Storia ed eroico dominatore della Natura.
Non lo dice
chi scrive: il bello (o il brutto) è che siano tutti coscienti da decenni
dell’insostenibilità di tale impalcatura discriminatoria, se è vero che basta
aggirarsi per le sale per scoprire che i curatori siano già intervenuti in
decine di punti a spiegare, contestualizzare, giustificare, perfino scusarsi
nel rattoppare quella visione di mondo, e coprire le vergogne come il
Braghettone fece con i nudi della Cappella Sistina. Un solo esempio: a fianco
di un enorme affresco che, in modo per nulla todoroviano, rappresenta l’incontro
tra europei e nativi, c’è un cartellino. Vi si legge in piccolo (vado a
memoria): “Non è vero che gli indiani Lenape (quelli che popolavano Manhattan)
fossero nudi quando sbarcarono gli olandesi; si sarebbero ibernati. Neanche gli
olandesi erano vestiti così eleganti, anzi. Quando fu fatto l’affresco si
rappresentavano gli uni e gli altri così per far capire chi comandava e la
legittimità della costruzione razzista della società”.
Immagino
che, se tutto va bene, la precisazione sia letta e compresa da una frazione di
quanti si soffermano sull’affresco (peraltro di scarso valore artistico). Per
tutti gli altri continua a essere vigente la narrazione nazionale
discriminatoria. Questo schema si ripete in decine di punti del Museo, anche in
relazione ad Asia, Africa e Americhe. Chi ha contezza delle polemiche intorno
al Museo del Quai Branly a Parigi, ch’è di tutt’altro impianto ed epoca, già
che fu inaugurato nel 2006, può moltiplicarle per cento. È evidente che
l’intero impianto del Museo sia oggi più che pericolante, e quella funzione
eminentemente didattica di quelle sale dove tutti i giorni dell’anno
scorrazzano decine di migliaia di ragazzi non possa prescindere da una radicale
revisione della “costruzione di senso” pensata dai fondatori, e che guardi a un
presente dove la costruzione di una visione discriminatoria non abbia alcuno
spazio.
È un po’
come per i Washington Redskins, la celeberrima squadra di football. Se non ti
duole nella carne viva ti domanderai perché mai avranno deciso di cambiare un
nome così simpatico e apparentemente neutro. Peccato che quel nome
identificasse i nativi come “nostro nemico” in diecimila film. E che la nostra
scienza, in particolare l’antropologia evoluzionista, li ha identificati a
lungo come selvaggi per antonomasia, ovvero il gradino più basso della natura
umana, e che già dal 1850 in alcuni dizionari l’espressione pellerossa venisse
considerata offensiva. Allora, cosa c’è che non va – se non ti duole
personalmente – nel dare del pellerossa a un pellerossa o del terrone a un
terrone?
In quanto
storici possiamo essere molto interessati a una ricostruzione filologica degli
imbarazzi vissuti dai curatori del museo nei decenni, ma non c’è alcun motivo
logico del perché un bambino discendente dei nativi Delaware debba vedersi
tirato il sasso di una costruzione sociale nella quale lui è rappresentato come
inferiore, perché così la pensavano i padri pellegrini, e in piccolo si
nasconda la mano con una toppa che ammette che quella narrazione sociale sia
discriminatoria. E lo stesso vale per un ragazzo afrodiscendente di Harlem
erede di Frederick Douglass. O per un bianco Knickerbocker dell’Upper East
Side, che magari è proprietario di un intero isolato di Manhattan da duecento
anni, ma deve pur capire che non è padrone del mondo intero. O per un
ashkenazita di Brooklyn, venuto tre o quattro generazioni fa dalla Bielorussia
o per un turista cinese o brasiliano. Possiamo, e concludo, discutere
sull’opportunità o meno che mezza capitale d’Europa sia intitolata a un
genocida come Leopoldo, che sicuramente “avrà fatto anche cose buone”, o sulla
Disneyland del fascismo di Predappio (meno sul mausoleo a Graziani che può solo
essere abbattuto essendo un’offesa e un crimine revanscista in sé). Ma non possiamo accettare che la costruzione discriminatoria si
poggi sull’intangibilità della supremazia del maschio bianco perché tale
supremazia sarebbe vestigia del passato in sé e come tale da preservare. È la
statua di Teodoro a nascere discriminatoria, come l’intero Museo,
indipendentemente dalla complessità del personaggio o di Woodrow Wilson e non
possiamo permettere che la discriminazione continui a essere agente educativo
per il presente. Dobbiamo accettare che vi siano vestigia che non sono né
neutre né in buona fede e, soprattutto, non siano più adeguate né ai tempi né
all’educazione delle nuove generazioni. E non ci dovrebbe essere bisogno che ci
versino sopra della vernice rosa per considerarle disfunzionali.
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