lunedì 6 luglio 2020

Il caso Eddy Bellegueule - Édouard Louis

Farla finita con Eddy Bellegueule è il titolo vero.
Édouard Louis, nel suo primo libro, racconta, a 20 anni, la vita di un povero, omosessuale e oggetto di bullismo e violenza, fisica e non solo, subiti nell'adolescenza.
il rapporto con la famiglia, con i genitori, poveri in un villaggio di poveri, è difficile, lui è comunque il figlio, anche se non è quello che avrebbe dovuto essere, agli occhi loro e di tutti.
alla fine lo salva lo studio, che gli dà la possibilità di fuggire dal suo ambiente oppressivo.
il libro è scritto benissimo, la tensione non cade mai.
lo scrittore parla di sé, ma non è una semplice autobiografia, riesce a parlare di tutto quello che lo circonda, i rapporti umani, osserva, analizza, subisce, non si lamenta, e il libro diventa letteratura.
racconta di sé come se fosse un altro, riesce a diventare una storia universale, una nostra storia.
buona (imperdibile) lettura.




Un libro crudo e tristemente "vero", in cui il protagonista racconta la difficile infanzia e il duro percorso che gli ha permesso di appropriarsi della sua identità. Protagonista che, in questo caso, è autore stesso del libro. La scrittura e lo stile sono semplici e immediati. Si leggerebbe d'un fiato se ciò che è scritto non fosse così faticoso da digerire: non ci sono filtri, la realtà viene narrata così com'è, violenta e problematica. A molti potrebbe sembrare una storia già sentita, ma questo non la rende meno importante. È un libro che serve, soprattutto oggi.

Ho scoperto Louis per caso ma mi ha folgorato. Riesce a intrecciare un quadro sociale drammatico e aspro con una scrittura leggera, senza perdersi in discorsi meccanici o plastici, ma con una naturalezza che rende la denuncia di un contesto razzista, violento, omofobo, povero, di provincia immediatamente percepibile

Non dev’essere facile per un ragazzo di vent’anni, benché sostenuto e aiutato (non è da tutti esordire per i tipi di Seuil ed essere subito tradotto in decine di paesi), compiere pubblicamente attraverso questo romanzo il tradimento della propria classe sociale d’origine. A questo frammento di autobiografia non va, però, attribuito il valore di un avvenuto percorso di soggettivazione e di una compiuta analisi sociologica. Se così fosse ci sarebbe da chiedersi perché la narrazione lasci (quasi) immuni, quasi fossero innocenti, le classi privilegiate la cui violenza pur non esprimendosi nelle forme grossolane e sontuose delle classi popolari risulta comunque assai più efficace se non addirittura costitutiva delle dinamiche di esclusione che reggono la vita sociale. Quella di Édouard Louis è una testimonianza parziale, resa e diffusa forse anche sulla scia di una crisi delle identità sociali e del loro valore politico che coinvolge la Francia da qualche anno (o decennio, piuttosto) e che ha nel crescente successo elettorale del Front National una delle sue spie più luminose. Lo dimostra il fatto che l’autobiografia di un intellettuale omosessuale e transfuga di classe come Didier Eribon, a cui il libro è dedicato, e che costituisce la fonte ispiratrice più recente del libro di Édouard Louis, sia in gran parte anche un saggio di analisi delle dinamiche sociali ed elettorali che dagli anni Sessanta a oggi in Francia e non solo hanno finito per sciogliere il legame tra forze politiche della sinistra e classi sociali più svantaggiate.,,

…L’onestà della scrittura – che nulla ha a che vedere con la verità oggettiva degli episodi narrati – è tale da rendere davvero difficile, arduo, il giudizio.
La deriva del padre operaio verso l’alcolismo, dopo aver perso il lavoro, ci appare fatidica, così come la marcia decisa della sorella verso una gravidanza precoce, un lavoro come cassiera e un marito violento. Il suo percorso, come molti altri narrati, si muove ineluttabilmente verso l’autodistruzione, a partire dalla fisicità più elementare, da quello che mangia (solo fritti), quello che beve (litri di pastis), per finire con ciò di cui la sua mente si nutre: solo televisione e storie di altri disperati come lui.
Impossibile non restare colpiti dalla sua solitudine, dalla solitudine di un’intera classe sociale.
Le regole di quel mondo, quello del lumpenproletariat moderno, appaiono evidenti dentro le storie dei singoli, e persino nella ribellione del protagonista, che non sa trovare una via diversa dall’integrazione o dalla fuga. Allo stesso tempo, ciascuno dei personaggi si muove dentro e oltre il proprio habitus, esce dal trattato di sociologia e prende vita sotto gli occhi del lettore, soprattutto grazie alla forza del linguaggio, al contrappunto costante del lessico familiare alla narrazione. “I miei genitori si impegnavano per darmi una buona educazione, «mica come i delinquenti e gli arabi delle città». L’orgoglio che mia madre ne traeva: «I miei figli sono educati bene, mica come i teppisti», o […] «mica come gli algerini, sai gli algerini sono i peggiori, se ci pensi sono molto più pericolosi dei marocchini o degli altri arabi»“.
L’inconsapevolezza di fondo è resa attraverso le affermazioni contraddittorie, i comportamenti incoerenti, il fastidio nel dare spiegazioni, la violenza verbale e fisica a mascherare la paura verso l’ignoto, verso i meccanismi oscuri che determinano le esistenze.
La ‘diversità’ di Eddy è un ennesimo spaventoso mistero, per i suoi familiari, e per Eddy stesso, un’anomalia da correggere. Di questo si compone la quasi totalità del racconto, che si interrompe sulla soglia della ‘nuova vita’ di Édouard, in un liceo di città, tra i rampolli della buona
borghesia, ancora una volta a cercare di adattarsi, mentendo su un passato di cui si vergogna e correggendo gli indizi che potrebbero farlo sospettare: gli abiti troppi vistosi, l’abitudine a parlare con voce troppo alta, i denti mai curati, forse ancora una volta l’omosessualità, perché se è vero che i borghesi “non usano il corpo allo stesso modo” e che “tutti avrebbero potuto essere trattati da froci alle medie”, resta il fatto che non tutti lo sono, omosessuali, come lo è invece Édouard

La sua famiglia e il villaggio non l’hanno presa bene.
«Era giusto che io scrivessi questo libro. È una storia vera, è la mia vicenda personale, ma è anche un romanzo perché uso la letteratura per raccontare me stesso e quelle persone. Cerco di rendere il loro linguaggio, il loro modo di pensare. Non è stato possibile per una questione di diritti, ma avrei voluto citare la frase di Thomas Bernhard: non devo cedere al sentimentalismo famigliare che mi impedirebbe di dire la verità e mi farebbe fare causa comune con l’ipocrisia. È esattamente perché è difficile dirlo che va detto».
Il suo libro ha venduto molte copie e suscitato molte polemiche, l’hanno accusata di essere un traditore di classe.
«Ma a che cosa avrei dovuto restare fedele? All’abiezione? Il mio libro non è una vendetta, ma innanzitutto un atto politico, una denuncia della realtà nella speranza di cambiarla. È insopportabile quell’atteggiamento razzista che fa dipingere i poveri e certa provincia come il regno della semplicità, del buon selvaggio insomma. È una posizione molto borghese e conservatrice: guardate che carini, teniamoli così come sono».
Perché ha deciso di mettersi in gioco fino a questo punto?
«Era importante per me chiudere del tutto con quel mondo e quella gente. Sono stato vittima di ogni genere di violenza. Ma non è un esercizio narcisistico, tengo molto alla dimensione universale del mio libro. Molti lettori si sono ritrovati nella mia storia, anche se non sono omosessuali come me. Mi hanno scritto: sai io ero l’arabo, il nero, la cicciona o anche solo la femmina del gruppo. Lo scopo del libro è mostrare come i gruppi deboli si costituiscano in contrapposizione al diverso, a chi è quindi ancora più debole di loro».
I suoi genitori a un certo punto sembrano essere sfiorati dal dubbio: la madre odia quella vita, suo padre razzista lascia il Nord per un viaggio nel Sud con un amico maghrebino. Perché richiudono gli occhi subito dopo averli aperti?
«Sono condannati a essere quello che sono, non sono colpevoli. Non hanno gli strumenti per liberarsi, ecco perché tornano al punto di partenza. E il punto di partenza è la violenza, verbale o fisica. Ma era importante per me dare conto di questa complessità, che rende tutto più doloroso. Mia madre era capace di vergognarsi di me, il più delle volte, ma anche di essere fiera per i miei voti. Non è bastato a farle fare un impossibile salto di qualità».
Lei perché ce l’ha fatta?
«Questo è un punto importante. Non ho abbandonato Hallencourt perché ero più sensibile o più intelligente. Sono fuggito perché loro mi hanno fatto scappare, perché non potevo che mettermi in salvo così. Ma tutto il libro è il racconto di come Eddy Bellegueule cerchi disperatamente, dall’inizio alla fine, di conformarsi alla regola. È magro, ma si sforza di mangiare ogni schifezza pur di diventare obeso come gli altri. È timido, ma cerca di imitare il linguaggio scurrile. È effeminato, ma tenta anche lui di diventare un duro, fa le facce davanti allo specchio per assumere un’espressione più tosta. Mi sono salvato solo perché ho fallito nell’impresa più importante, alla quale ho dedicato tante energie, cioè diventare come gli altri».
Per questo sorrideva quando la picchiavano?
«Mi vergognavo di essere umiliato. Aspettavo i miei due carnefici, che ogni mattina a scuola mi riempivano di botte, per rendere loro il compito più facile e non dare nell’occhio. Provavo a sorridere per non farmi vedere per come ero in realtà, cioè terrorizzato, mortificato. Sono stato, in un certo senso, complice delle violenze».
Grazie ai buoni voti riesce ad andare al liceo ad Amiens e poi all’École normale supérieure di Parigi. Lì invece ha trovato più gentilezza?
«Non è la stessa cosa essere gay nelle classi popolari o nella borghesia intellettuale o dedita alle arti, questo va detto. Ma la violenza è costitutiva della società e ce n’è molta anche nelle altre categorie. Quando Eddy arriva nel nuovo ambiente, con il suo giubbotto Airness comprato dalla mamma, si vergogna, perché gli si fa subito capire che quello stile è inadeguato. Dopo tre giorni nel nuovo liceo, lo butta nella spazzatura. E poi arriva un altro ragazzo, che gli dà del finocchio. Tutti ridono, e anche Eddy. È sfuggito a Hallencourt, ma si ricomincia».
Lei è felice adesso?
«Da quando non sono più Eddy Bellegueule sto molto meglio. Ho l’impressione di avere colto qualcosa con il mio libro, e cioè la questione attuale che non è come integrarsi, ma piuttosto come riuscire a strapparsi ai legami sociali nei quali siamo continuamente re-inclusi, la scuola, lo Stato, la famiglia. Sono i temi affrontati da Xavier Dolan nel suo ultimo film o dal filosofo Geoffroy de Lagasnerie, o dal sociologo Didier Eribon, al quale dedico il mio libro. Rivendico il self-fashioning di Michel Foucault: il diritto di farla finita con quello che si è stati, per inventarsi in un altro modo».

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