Che sensazione terribile assistere,
in prima fila, al crollo di un Paese. Forse avremmo dovuto sapere che saremmo
andati a sbattere contro il muro, che lo shock sarebbe stato di incredibile
violenza e che alla fine non sarebbe rimasto molto del Libano del dopoguerra,
eppure i sentimenti che questi eventi provocano non sono meno forti. Non
importa quello che si dice, non si è mai veramente preparati al peggio.
Il Libano sta morendo sotto i nostri
occhi senza che possiamo farci nulla. La popolazione sta diventando più povera.
Il Paese verrà declassato. Le scuole sono in pericolo. Le aziende stanno
chiudendo. I giovani che possono, vanno via. Lo stile di vita “libanese” è
minacciato, come non era mai stato prima, neppure durante la guerra.
Ciò a cui stiamo assistendo, in
questo centenario del Grande Libano, non è una semplice crisi economica, né
un’altra debacle politica: è il crollo di un castello di carte che volevamo
vedere, nonostante tutti i suoi punti deboli e tutti i suoi difetti, come una
barca inaffondabile.
Quando tutto crolla, si cercano i
colpevoli. Ognuno ha la propria teoria, a seconda delle proprie convinzioni
politiche. Hezbollah, colpevole di volersi liberare dalle regole dello Stato
mentre prende in ostaggio lo stesso Stato per perseguire i suoi interessi.
L’”Harirismo”, colpevole di aver promosso una visione neoliberista e di non
aver infranto la tradizione clientelista. La classe politica nel suo insieme,
colpevole di aver usato lo stato invece di servirlo. Il governatore della Banca
centrale, Riad Salamé, colpevole di aver alimentato un abisso finanziario
mentre continuava a suonare la tromba per coloro che volevano credere che
“tutto bene, Madame la Marquise”. Le banche, colpevoli di essersi arricchite
finanziando uno stato completamente disfunzionale.
Tutti sono responsabili della
situazione attuale, sebbene in misura diversa. Inclusa la popolazione, o almeno
parte di essa. Sono quei libanesi che hanno eletto, per convinzione e / o
interesse, gli stessi politici per decenni, senza mai pretendere
responsabilità. Quei libanesi, non necessariamente gli stessi, che hanno voluto
vivere al di sopra dei propri mezzi, rendendo la ricchezza l’unico criterio di
distinzione sociale e che hanno trovato normale approfittare dei tassi di
interesse almeno da quattro a cinque volte superiori rispetto ad altri Paesi. E
sono stati ancora i libanesi a trarre vantaggio, quando potevano, sia
dall'assenza dello stato che dal clientelismo, che hanno privilegiato la
logica settaria allo spirito nazionale, che hanno partecipato alla
distruzione del paesaggio e alla fiera del calcestruzzo.
L’idea qui non è quella di mettere
tutti nella stessa barca o di gettare il bambino con l’acqua sporca.
Basterebbe ricordare che il fallimento è collettivo. O che abbiamo
partecipato alla distruzione politica, economica, culturale ed ecologica del
Paese dei Cedri senza aver fatto abbastanza per evitarlo. Invece nel complesso
ci lasciamo cullare dall'illusione che un Paese possa funzionare senza uno
Stato, che un’economia possa resistere senza produrre nulla, che una società
possa accettare tutto per preservare la pace civile. La “resilienza” libanese
ha giustificato tutto: quella era l’argomentazione giusta per tutti coloro che
non volevano cambiare nulla e per tutti coloro che ritenevano che nulla potesse
essere cambiato.
In un certo senso, non avevano
torto. È quasi miracoloso che il Libano abbia resistito per così tanto tempo,
anche se possiamo rispondere che il costo sarà tanto più doloroso quanto più ha
resistito.
Confederazione di clan
Quale Paese al mondo può
rimanere in piedi dovendo affrontare così tante carenze strutturali
e sfide cicliche? È molto presuntuoso voler essere la Svizzera del Medio
Oriente quando la ragione settaria prevale sullo spirito nazionale,
quando i nostri vicini sono la Siria di Bashar al-Assad e lo stato israeliano
di Benjamin Netanyahu e il paese viene preso in ostaggio, con il consenso della
vittima, dagli scontri regionali tra Iran e Arabia Saudita. Ma la debacle
libanese è soprattutto il risultato dei nostri stessi errori. Il naufragio
libanese merita un’autopsia in quanto è ricco di lezioni da non riprodurre. Ci
sono molti esempi, ma tre di loro meritano un’attenzione speciale.
Prima assurdità: un potere politico
indispensabile e tuttavia senza potere. I cosiddetti politici hanno le
mani ovunque – nel sistema giudiziario, nell'amministrazione, nel settore
bancario, nei media, ecc. – e tuttavia sono incapaci di prendere una decisione
fondamentale in merito alla politica del Paese. Il consenso sul minimo comune
denominatore è l’unica modalità di governo che conoscono. Ciò si traduce in
infinite trattative su argomenti minori e blocchi che diventano tabù su
questioni importanti. La strada sta giustamente accusando questa classe
politica di essere corrotta e incompetente. Ma il vero problema è ancora più
profondo. Se per anni il Libano non è stato in grado di definire chiaramente la
sua politica estera o economica, non è a causa dell’incompetenza o della
corruzione della sua classe dominante, ma a causa di un modello di governance
in cui tutti hanno ufficialmente il potere, il che si traduce nel fatto
che nessuno lo ha veramente. Almeno dall'assassinio di Rafic Hariri, nessun
politico libanese ha avuto una base abbastanza solida grazie alla quale poter
prendere una decisione importante che vincolasse l’intero Paese. Tutti stanno
cercando di governare la barca, ma nessuno è in grado di tenere il timone. I
politici hanno combattuto, e continuano a combattere, per salvare questo
modello, ufficialmente per preservare la pace civile, in realtà perché è
l’unico che può consentire loro di garantire la propria sopravvivenza. Sono
solo leader di clan, che usano lo Stato per nutrire la loro comunità e / o la
loro regione e che trasformano il Libano in una confederazione di clan con
nessun altro progetto comune se non quello di condividere la torta.
Seconda assurdità: la presenza di
una milizia finanziata, addestrata e armata da un Paese straniero all'interno
di uno Stato dovrebbe, almeno, fare dell’equidistanza il pilastro della sua
politica estera in un contesto regionale in ebollizione. Perché può decidere la
pace o la guerra indipendentemente dagli interessi del Libano, perché usa, ogni
qualvolta lo ritiene opportuno, la minaccia delle armi per orientare le
decisioni dello stato a suo favore e per sottrarsi alle regole comuni,
perché è intervenuto in Siria in aiuto di un regime che non ha mai smesso di
calpestare il Libano, perché il suo leader Hassan Nasrallah attacca
violentemente nei suoi discorsi i Paesi del Golfo da cui l’economia
libanese dipende, per il Paese del Cedri Hezbollah è il problema fondamentale,
e il più difficile, da risolvere. Ma funge anche da schermo, una scusa perfetta
per i suoi nemici che lo accusano di tutti i mali, dimenticando che anche loro
fanno parte del problema. La presenza stessa dell’entità iraniana – se
non completa il suo processo di libanizzazione già in atto – è in
contraddizione con la costituzione di un nuovo Libano stabile, prospero e
fondato sullo stato di diritto. Ma anche se la questione di Hezbollah fosse
risolta, il che richiederebbe uno sconvolgimento regionale e una maggiore
integrazione degli sciiti libanesi, il Libano sarebbe ben lungi dall’essere un
paradiso di pace. Rimarrebbe un paese in bancarotta, in costante declino per
decenni.
L’intero edificio crolla
Terza assurdità: un modello
economico allo stesso tempo selvaggio e inefficace, che si basa sul peggio del
neoliberismo e sulla logica del clientelismo spinto al culmine. I servizi
pubblici sono deboli, ma la spesa pubblica è esorbitante. Il paese non produce
quasi nulla e punta tutto sul settore terziario. Ma nessuna politica seria
accompagna questa scelta. Il Libano avrebbe potuto essere una perfetta
destinazione turistica. Ma come attrarre i visitatori con le spiagge inquinate,
un ambiente saccheggiato, un’elettricità che non è garantita e tutto questo
senza essere neppure a buon mercato?
Nessun modello economico avrebbe
funzionato in un ambiente politico del genere. Ma è stata questa una ragione
per cui l’economia è arrivata allo stesso livello di nullità della
politica? Poiché la popolazione era legata a un certo stile di vita, il paese
aveva bisogno di una moneta forte per importare i suoi beni di consumo. Poiché
i politici utilizzavano denaro pubblico per distribuire rendite ai propri
sostenitori, è stato necessario trovare un modo per finanziare l’intero
processo. Il settore bancario è stato la chiave. Il segreto bancario e la
facilità di convertire le
lire libanesi in valuta estera hanno reso il
Paese dei Cedri particolarmente attraente, specialmente per i libanesi della
diaspora, con tassi di interesse superiori alla media. I nuovi depositi sono
stati utilizzati per pagare gli interessi promessi ai vecchi. Ma il sistema,
più che imperfetto, è andato in crisi all'aumentare della spesa pubblica,
con gli aiuti esterni che sono cessati, le riforme strutturali –
compresa l’elettricità – che non sono state attuate e i fattori
ciclici, in particolare la guerra in Siria, arrivati ad aggiungere il
loro grano di sale. Quindi è un circolo vizioso. Per attirare nuovi
depositanti, devi offrire tassi di interesse ancora più interessanti, il che
porta a uccidere l’economia reale e ad approfondire ulteriormente un debito già
abissale. La BDL ha finanziato uno stato di vampiri. Le banche hanno finanziato
una BDL che ha aiutato lo stato a scavarsi la tomba. Ognuno ha trovato il
proprio tornaconto, dal depositante ai politici. Fino a quando l’intero
edificio non è crollato.
Una rivoluzione contro sé stessi
Oggi le strade urlano e sono
più legittimate che mai a farlo. Le urla vengono dalle viscere. Dalla pancia
affamata e dallo spirito che si sente colpito nella sua dignità. La rivoluzione
è in corso, ma il processo potrebbe essere molto lungo. Il 17 ottobre è la data
di fondazione del nuovo Libano a cui aspira la popolazione. È il giorno in cui
questo Paese, in tutte le sue componenti, è diventato una nazione. Il giorno in
cui la sua gente ha deciso che il futuro contava più del passato.
Alla fine di questo percorso
rivoluzionario c’è la speranza di ricostruire un Paese su nuove basi, a tutti i
livelli. Ma ciò richiede, prima di tutto, accettare che la strada sarà lunga e
dolorosa e che sarà necessario mettere sul tavolo tutti i soggetti divisivi per
inventare un nuovo contratto sociale. La classe politica non farà nulla, e
preferirà affondare con tutta la barca piuttosto che accettare nuove regole
che la metterebbero automaticamente fuori gioco. La società, da parte sua, non
può pensare di schernire la classe politica senza fare autocritica. È una
rivoluzione contro una parte di loro, che i libanesi devono fare.
Parte della strada alimenta il
fantasma di un rapido ritorno del “denaro rubato” che dovrebbe risolvere la
situazione. Tuttavia il ritorno di queste somme alle casse libanesi, se ciò
dovesse mai accadere, richiederebbe anni e nulla indica che sarebbe sufficiente
per colmare i buchi abissali dei conti pubblici. Parte della classe politica
sta alimentando il fantasma di nuovi aiuti esterni. Ma nessun Paese,
specialmente dopo la crisi di Covid-19, sembra interessato all’idea di salvare
un Libano che rifiuta di salvarsi.
L’FMI è l’unico modo, anche se non
è una scelta facile. Ma ciò suppone, a monte, di dover accettare la realtà
dell’affondamento. La lira libanese non tornerà al suo valore originale.
Parte dei depositi rischia di essere soggetta a tagli o al bail-in. La
spesa pubblica dovrà essere ridotta, il che potrebbe tradursi in salari più
bassi nel servizio pubblico o addirittura in una riduzione della forza lavoro.
Nella migliore delle ipotesi, il Libano passerà diversi anni dolorosi prima di
poter alzare l’asticella. E i suoi problemi fondamentali, che si tratti dello
status di Hezbollah, della governance impossibile o dell’assenza di un
contratto sociale diverso dal clientelismo, non saranno necessariamente
risolti. Nel peggiore dei casi, la crisi risveglierà i bagliori dei clan e lo spettro
della guerra civile. E pochi anni non saranno sufficienti per riuscire vedere
la fine del tunnel.
(Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro
ogni schiavitù” –Invictapalestina.org)
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