lunedì 13 luglio 2020

Il furto del 1° luglio - Nino Lisi


L’11 giugno scorso, a Strasburgo, la Quinta Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha fatto giustizia e ripristinato la verità. Ha sancito che il boicottaggio di merci israeliane non è reato ma espressione della libertà di pensiero che rientra nei diritti tutelati dalla Convenzione Europea sui Diritti Umani. Ha inoltre stabilito che non è lecito perseguire penalmente il boicottaggio come aveva fatto il Tribunale di Mulhouse – Francia – condannando 11 attivisti del Collettivo Palestina 68 per avere invitato i clienti di un supermercato a non acquistare merci israeliane; e ha chiamato la Repubblica francese a pagare un cospicuo risarcimento agli attivisti indebitamente condannati.
La sentenza smantella la pretesa, giuridicamente e politicamente assurda dello Stato israeliano di andare indenne da qualsiasi critica o attacco politico e di accusare di antisemitismo qualsiasi rilievo mossogli.
La Corte ha rilevato che gli attivisti «non erano stati condannati per dichiarazioni razziste o antisemite o per istigazione all’odio o alla violenza» e neppure per «avere esercitato violenza o causato danni» ma «per boicottaggio di prodotti provenienti da Israele», ovvero, per aver voluto «causare discriminazione» che la legge francese sulla libertà di stampa punisce. Ma il boicottaggio, osserva la Corte,«è in primo luogo espressione di un’opinione, di una protesta. L'invito al boicottaggio, che è la manifestazione di questa opinione... in linea di principio è sotto la protezione dell'articolo 10 della Convenzione... costituisce una forma particolare di esercizio della libertà di espressione in quanto collega la manifestazione di un'opinione critica all’incitamento a differenziare i trattamenti», pur entro certi limiti perché «l’istigazione all'intolleranza, insieme alla istigazione alla violenza e all'odio, è uno dei limiti che in nessun caso devono essere superati».
Che comunque non sia questo il caso delle manifestazioni che rientrano nella Campagna BDS lo accerta la stessa sentenza che ricorda che la Campagna «è iniziata il 9 luglio 2005 con un appello lanciato da organizzazioni non governative palestinesi un anno dopo la dichiarazione della Corte Internazionale di Giustizia », di cui riporta lo stralcio nel quale si eccepisce che «il muro che Israele, potenza occupante, sta costruendo all’interno del territorio palestinese occupato e dentro e intorno a Gerusalemme est, nonché il regime (di occupazione) ad esso connesso, sono contrari al Diritto Internazionale».
La sentenza mette in evidenza lo stretto legame del boicottaggio contro Israele con le gravi violazioni della legalità internazionale compiute da quello Stato e che la Campagna non è sorta per una generica o astratta avversione allo Stato israeliano ma come reazione e per opporsi a specifiche violazioni del Diritto che regola i rapporti tra Stati e Popoli. La ragione della legittimità delle azioni discriminatorie verso Israele sta nel contrasto alla sua illegalità. Affinché non possano esservi dubbi al riguardo, la sentenza riporta il passo dell’appello con cui le organizzazioni promotrici hanno fissato gli obiettivi e la durata della Campagna: «Queste misure punitive non violente dovranno essere mantenute fin quando Israele non onorerà i suoi obblighi di riconoscere il diritto inalienabile del popolo palestinese all'autodeterminazione e non rispetterà pienamente i dettami del Diritto Internazionale: 1) ponendo fine alla occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellando il muro; 2) riconoscendo pienamente la parità dei diritti fondamentali dei cittadini arabi palestinesi di Israele; 3) rispettando, proteggendo e promuovendo i diritti dei rifugiati palestinesi di recuperare le proprie case e proprietà come richiesto dalla risoluzione Onu 194». Viene così chiarito anche che l’obiettivo della Bds non è, come falsamente alcuni sostengono, la distruzione dello Stato di Israele ma il suo ingresso nella legalità.
Di questo in effetti si tratta: di imporre alla Stato israeliano il rispetto del diritto. Qui emerge una singolarità di Israele che non solo viola sistematicamente il diritto internazionale, ma ha tradito gli stessi princìpi della sua Carta fondativa.
Nella “Dichiarazione della Fondazione dello Stato di Israele” approvata dal «Consiglio di Stato provvisorio, sul suolo della patria, nella città di Tel Aviv, oggi, vigilia di sabato 5 Iyar 5708, 14 maggio 1948», si legge: «Lo Stato d'Israele sarà aperto per l'immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato su libertà, giustizia e pace come predetto dai profeti d'Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite. Lo Stato d'Israele sarà pronto a collaborare con le agenzie e le rappresentanze delle nazioni.»
Si vede ad occhio nudo quanto la realtà contraddica i princìpi della Carta. All’interno di Israele non vi è eguaglianza di diritti e di opportunità nemmeno tra i cittadini ebrei di differenti provenienze; tanto meno per i palestinesi divenuti cittadini israeliani con la proclamazione del nuovo Stato. Per loro la discriminazione è tale che può appropriatamente definirsi apartheid. Nei Territori palestinesi (abusivamente) occupati da 53 anni, disseminati di check point, vige un regime di colonialismo di insediamento e una discriminazione etnica che ricorda quella negli Usa dello scorso secolo: strade riservate ai coloni e inibite ai Palestinesi, sistemi legali differenti, uno per gli israeliani e uno per i palestinesi; questi ultimi esposti a vessazioni a opera dei coloni e da parte delle truppe di occupazione, tali che di esse si ha notizie dagli stessi militari che, terminato il servizio, vanno ad ingrossare le fila dell’associazione di veterani Breaking the Silence trovando il coraggio di denunciare i comportamenti cui sono stati obbligati sotto le armi.
Ma non è tutto. Gaza, cinta d’assedio tanto da indurre l’Onu a prevedere che ben presto non vi saranno più le condizioni per vivervi, dal 2008 al 2014 è stata terreno di tre micidiali campagne belliche che hanno provocato grandi distruzioni e migliaia di morti. In esse Israele ha usato anche armi proibite, come accertato dall’Onu. Gerusalemme, occupata con la guerra del 1967 e arbitrariamente proclamata capitale di Israele con “Legge Fondamentale” del 1980, continua a essere occupata malgrado la Corte Internazionale di Giustizia nel 2004 abbia dichiarato «inammissibile l'acquisizione di territorio con la forza» e stabilito che tutte le misure amministrative e legislative intraprese da Israele volte ad alterare lo status di Gerusalemme, inclusa la «legge base» costituiscono una «violazione del Diritto Internazionale» e le ha dichiarate «nulle e prive di validità» e «da rescindere».
Il quadro della illegalità dello Stato di Israele è confermato da 87 Risoluzioni dell’ONU e da diversi pronunciamenti dell’Unione Europea.
L’eccezionalità di questa situazione porta a domandarsi come si sia potuta verificare e come possa protrarsi da 72 anni, menomando la credibilità dell’Onu e l’autorevolezza del Diritto Internazionale su cui si fonda l’equilibrio tra le nazioni. Viene anche da domandarsi come mai la comunità internazionale si sia limitata a deplorazioni mentre per violazioni gravi, ma non più di quelle di Israele, gli Usa scatenarono la prima guerra del Golfo, la Nato intervenne nel Kossovo e vennero dichiarate sanzioni contro Iran e Russia.
Tentare una risposta è un azzardo. Ma bisogna provarci.
Un primo elemento su cui riflettere riguarda ciò che precedette la nascita dello Stato di Israele e ne costituì l’annuncio. Verso la fine dell’‘800, di fronte all’inasprirsi di quella forma particolarmente abietta di razzismo che è l’antisemitismo, era nato un movimento irredentista, il Sionismo, che dal clima dell’epoca andò acquisendo marcate venature di nazionalismo. Ai primi del ‘900 era alla ricerca di un territorio scarsamente popolato nel quale costruire una patria per gli ebrei sparsi nel mondo e sottrarli ai ricorrenti attacchi e vessazioni di cui erano vittime da secoli. Nel 1917 la Corona Britannica si benignò di comunicare agli esponenti del movimento sionista che avrebbe visto di buon occhio la costituzione in terra palestinese  di un “focolare ebraico”. La Palestina era tutt’altro che spopolata ma abitata da una maggioranza (94%) di palestinesi ed una minoranza (6%) di ebrei. La loro pacifica e proficua convivenza durava da secoli, da quando gli ebrei, scacciati dalla cattolicissima Spagna, avevano trovato rifugio nei Paesi arabi dove erano stati bene accolti.
La “generosità” della Corona Britannica non era disinteressata, perché la Palestina se non era spopolata, era però in posizione strategica per costruirvi un avamposto dell’Occidente verso il mondo arabo. Nel 1917 si era sul finire della prima Guerra mondiale e il destino dell’Impero ottomano era segnato, per cui Inghilterra e Francia, vincitrici del conflitto, si stavano organizzando per spartirsene le spoglie.
Nacque così la favola di una terra senza popolo (la Palestina) per un popolo senza terra (l’ebraico). Favola che sfociò nel 1948 nella costituzione dello Stato di Israele come presidio nel Medio Oriente dell’imperialismo occidentale che nel frattempo aveva sostituito la bandiera britannica con quella a stelle e strisce degli Usa.
Israele nasce quindi con lo stigma di un’operazione neocoloniale dell’imperialismo occidentale nei confronti del mondo arabo, come presidio degli interessi geopolitici e petroliferi occidentali. Nel tempo si è andato consolidando un (non troppo) tacito scambio: fedeltà agli interessi occidentali contro impunità e l’Occidente ha appoggiato le componenti di destra, maggiormente nazionaliste del Sionismo e le più retrive del mondo ebraico, favorendo lo sviluppo di quello che Moni Ovadia definisce nazionalismo esasperato e fanatico. Al quale, con Trump, viene lasciata totalmente carta bianca sino a sostenere il progetto di annettere a Israele il 30% della Cisgiordania.
Per comprendere però perché una disinformazione bene orchestrata a regia israeliana e dei suoi sostenitori abbia tanta presa nei Paesi di cultura cristia impropriamente vi attecchisca l’accusa di antisemitismo, bisogna considerare un altro elemento. Nel loro inconscio collettivo – come lo chiama Jung – è radicato un oscuro e profondo senso di colpa, per le millenarie persecuzioni inflitte agli ebrei e l’ostracismo esercitato verso l’ebraismo.
Nel contesto prima descritto quale peso potrà avere la sentenza dell’11 Giugno della CEDU? Sul piano giuridico segna una svolta che potrà avere riflessi sul piano politico e dare vigore ai nuclei di resistenza che si vanno moltiplicando nel Mondo Ebraico e nella società civile israeliana, nonché ai settori più avvertiti della opinione pubblica occidentale. Ma non avrà effetti immediati sul senso comune di altri settori. A meno che, se davvero “nulla potrà essere come prima” del corona virus e si aprirà una fase di svolte significative nel modo di produrre, consumare e anche di pensare, un’alleanza di tutti gli uomini e tutte le donne di buona volontà che vada oltre le frontiere geografiche e politiche, oltre le religioni, oltre le distinzione di genere riesca a sostituire con una spirale di solidarietà e di amore il circolo vizioso di odi ed egoismi che ha portato la Natura a ribellarsi.
La speranza di una soluzione giusta e pacifica della questione palestinese si presenta dunque negli stessi termini della speranza che si possa riprogettare un mondo senza gli attuali abissali squilibri sociali e ambientali.
Utopia? Sì. Ma le utopie sono i motori della Storia. Del resto, di fronte al progetto annessionistico di Israele, escluso il ricorso a inverosimili guerre o ad altre forme di violenza che non porterebbero soluzioni, a cos’altro si può ricorrere se non alla costruzione di un’alleanza inedita che renda realistica la prospettiva di una soluzione dei conflitti in Medio Oriente fuori dall’ordinario? Ciò prima che, in una popolazione stremata, prevalga l’idea che in fondo tra occupazione e annessione non vi sia gran differenza. 

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