Chi siamo noi studenti? Persone che
vogliono capire, formarsi per poi contribuire con competenza al mondo
produttivo oppure eterni stagisti, o meglio garzoni a basso costo al servizio
delle imprese e destinati a condividere la sorte amara di tanti, troppi
lavoratori? Nel nostro Paese, anno 2021, secondo l’Osservatorio nazionale morti
sul lavoro, sono ben 1.404 le lavoratrici e i lavoratori che hanno perso la
vita mentre svolgevano il loro mestiere. Un numero sconcertante, da capogiro.
Il 2022 non sembra andare molto diversamente, anzi, la situazione appare
peggiorare vertiginosamente poiché ora non solo gli adulti muoiono sul lavoro,
ma anche gli studenti. Nel giro di pochi giorni, qualche settimana fa, ne sono
deceduti due durante l’attività lavorativa che faceva parte del percorso
scolastico. Lorenzo e Giuseppe, due studenti morti dunque non sul lavoro, ma a
scuola, durante le attività scolastiche. E che scuola può essere quella che
lascia morire i suoi studenti nel conseguimento del diploma?
È una scuola impoverita, dalla riforma
Berlinguer in poi piegata a una politica aziendalistica, non di formazione
della persona. Il preside è diventato dirigente, le attività di approfondimento
culturale sono diventate alternanza scuola-lavoro (ora Percorsi per le
competenze trasversali e l’orientamento, in sigla Pcto) e l’insegnante non ha
un ruolo educativo, trasformandosi sempre di più in un baby-sitter costretto ad
accalappiare 25 o 30 marmocchi o adolescenti ai quali trasmettere una serie di
nozioni e null’altro.
Queste due morti, due assassinii, sono
solo il più cupo epilogo delle politiche di liberalizzazione della scuola.
La scuola italiana ha sempre avuto radici
profondamente classiste: la riforma Gentile del 1923, che all’inizio dell’epoca
fascista gettò le basi della moderna istruzione pubblica, prevede infatti la
divisione della scuola in classi – ci riferiamo non a un insieme di studenti ma
a veri e propri gruppi suddivisi per scala sociale – associando a ciascuna di
esse una scuola di riferimento. Ancora oggi basta farsi un giro in un liceo e a
un alberghiero per rendersi conto quel modello persiste ancora oggi. Chi ha
frequentato un qualsiasi liceo ha sentito almeno una volta l’abominevole
affermazione “qui formiamo la classe dirigente del futuro”, e accade pure che
qualche docente di un professionale declami ai propri studenti: “se al liceo
formano la futura classe dirigente, qui formiamo i loro servi!”.
Quale educazione può dare una scuola del
genere se non l’abitudine alla subalternità e allo sfruttamento? Sarebbe bello
poter dire che chi fa queste affermazioni o chi compie azioni classiste sono
solo delle mele marce, eppure il problema è strutturale ed endemico nel sistema
scolastico.
Se si prende a esempio la Buona Scuola
varata dal governo guidato da Matteo Renzi nel 2015, si noterà che l’alternanza
scuola-lavoro lascia un margine di azione ampio al singolo istituto e non
specifica mai quali siano nel dettaglio le possibili attività ascrivibili a questo
tipo di percorso. L’alternanza scuola-lavoro non prevede infatti esplicitamente
l’avviamento a un percorso lavorativo presso un’azienda e di conseguenza
sarebbe possibile (e anche auspicabile) intraprendere percorsi formativi
diversi, che non mandino obbligatoriamente gli studenti presso privati, troppo
spesso neppure preparati a sostenere un’iniziativa del genere. Dover assistere
una persona che sta apprendendo un mestiere è per un’azienda (specie per una
Pmi) solo un costo, sia in termini economici sia di tempo. Come poter sopperire
a tutta la domanda delle aziende garantendo gli obiettivi preposti dalle
scuole?
Semplicemente non si può. Nella maggior
parte dei casi, gli studenti rimangono in un’azienda per qualche settimana a
svolgere mansioni che non sono in grado di portare a termine oppure a
fotocopiare documenti di vario genere, rendendo l’esperienza del Pcto inutile
nel migliore dei casi, se non pericolosa.
In Italia ci saranno sicuramente dei
percorsi virtuosi, ma restano in minoranza rispetto alla totalità.
Spesso si paragona in modo erroneo la
Buona Scuola (o almeno il suo intento) alla situazione in Germania. Ci sono
differenze strutturali anche nella stesura della legge: infatti le aziende
tedesche sono tenute a seguire una serie di regole più stringenti e ferree
rispetto a quelle italiane, i controlli inoltre avvengono con maggiore
frequenza mentre nel nostro Paese è estremamente raro sottoporre un privato
ospite degli studenti in Pcto a un controllo di qualsiasi genere. La formazione
poi è estremamente diversa, dato che una parte teorica sul come lavorare in
un’azienda e sulle norme di sicurezza è obbligatoria nelle scuole tedesche. In
Italia, anche se viene praticata la formazione di base sulla sicurezza, ovvero
un corso di quattro ore con un test a risposta multipla alla fine, la scuola
sembra voler essere in funzione del mondo del lavoro ma contemporaneamente
volersene sbrigliare. Insomma, una specie di “scuola di Schrödinger”, dove noi
siamo il gatto dell’esperimento mentale del fisico austriaco, il micio
destinato a morire o rimanere vivo con uguale probabilità, una scuola in cui
allo stesso tempo c’è un fine lavorativo, ma che in realtà come obiettivo ha il
mero raggiungimento di un diploma, senza veramente curarsi delle conoscenze acquisite
dagli studenti e della loro capacità di giudizio.
Sicuramente questo modello si sta
rivelando ogni giorno di più fallimentare: la nostra scuola ha bisogno di un
ripensamento in toto, che la veda slegata dalla smania aziendalistica delle
riforme degli ultimi decenni e la veda come luogo di educazione in senso lato.
Pretendere di ridurre la scuola alla banale formazione professionale
(depotenziando per esempio lo studio delle materie umanistiche o togliendo
quasi del tutto la geografia come nella riforma Gelmini) in cui i docenti sono
semplicemente dei trasfusori di nozioni è frutto di una volontà politica ben
precisa, ovvero quella di dividere sempre di più gli studenti in classi, di
renderli pedine di un sistema produttivo cannibale, piuttosto che persone
complete e pensanti. Si spinge verso l’educazione privata, finanziandola in
aperto contrasto con la Costituzione (art. 33 “Enti e privati hanno il diritto
di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”), per
raggiungere sempre di più le scuole “di eccellenza” in cui gli studenti, nella
miglior performatività in salsa capitalista, possono raggiungere risultati
fuori dal comune a costo di sacrificare tutto, perfino la salute o la vita.
La competitività è un valore positivo,
premiata dagli insegnanti stessi, perché “mettersi in gioco” è sintomo di
“forza” e di “volontà”, mentre dall’altra parte chiedere un ritmo diverso, più
umano, lontano dalla modalità fordista che la scuola sta assumendo sempre di
più, significa “lagnarsi ed essere ingrati”: d’altro canto cosa aspettarsi in
un Paese in cui “sfruttamento lavorativo” è sinonimo di “gavetta”? Noi studenti
dobbiamo ribellarci: scendere in piazza, dalle scuole e dalle università, per
urlare “basta” a questo modello di sfruttamento scolastico. Chiediamo agli
adulti, ai lavoratori, ai sindacati e alle imprese di supportarci in questa
battaglia e di non lasciarci soli. Ve lo chiediamo per Giuseppe e Lorenzo, e
anche per Luana e Adil e per ogni persona che è morta sul lavoro o per difendere
i propri diritti.
https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/morire-a-scuola-non-siamo-il-gatto-di-schrodinger/